Al primo film da regista Viggo Mortensen porta sullo schermo una storia familiare che vede come principali protagonisti un figlio omosessuale e un padre affetto da demenza. La scrittura è, a tratti, ingenua ma la chiave registica riesce a creare il giusto pathos senza cadere nel sentimentalismo autoindotto. La storia ha una narrazione che va di pari passo con la crescente affezione dello spettatore verso i protagonisti, giungendo inaspettatamente a uno stato di grazia sul finale, quando i due personaggi principali si ritrovano nella casa di campagna familiare.
I dialoghi sono asciutti ma incisivi e, seppure con qualche ingenuità, il neoregista trova un suo stile, fatto di flashback e di richiami visivi in cui l’iconografia rende visiva l’emozione che il personaggio estrapola dalle inquietudini psicologiche che derivano, inevitabilmente, da una infanzia complicata. Se il rapporto tra padre e figlio è complesso, lo stesso si può dire delle relazioni, turbolente e acrimoniose, che l’anziano protagonista ha e ha avuto con i nipoti, la figlia e le mogli.
Un uomo all’antica e rigido. Maschilista e all’apparenza privo di un istinto paterno condito di protettività e affezione, sentimenti che sembrano fare capolino solo quando interagisce con una nipote: Monica, una bambina di otto anni adottata dal figlio John (Viggo Mortensen) e dal compagno Eric, unico elemento in senso progressista del mondo emotivo dell’anziano protagonista del film.
Mortensen indaga il sentimento mendace di un’America rupestre, che non si ribella al conformismo dei vecchi patrioti austeri e incorruttibilmente ancorati al proprio consertvatorismo, impersonificandola nella figura di Willis (Lance Henriksen): l’anziano padre che vive sull’eco di un passato lontano e che è per lui il crogiuolo dello stereotipo che ama rappresentare ma che, allo stesso tempo, lo porta a farsi odiare da chi gli è stato e gli è più vicino.
C’è un guizzo registico che porta il montaggio ad uno scambio repentino di scene, che danno al film una certa innovativa vivacità, seppure le scelte di linguaggio iconografico possano, a tratti, risultare un po’ sterili.
E’ comunque l’amore il fil rouge che determina la narrazione stessa e la puntella nelle sue disparate variabili. E’, è vero, la storia di un padre, ma è anche la storia della caduta sentimentale di un uomo che si trova a far fronte ai cambiamenti di una società in cui abitano vivacemente, invorticati anche e più di lui, i figli e i nipoti.
E’ la storia di come un uomo possa rimanere intrappolato dalla sua indole e di come lotti per non rendere dissolubile il legame con le proprie radici, più emotive che geografiche.
Il film ha un linguaggio elegante e non accade mai un vero e proprio plot twist, o meglio, c’è, ma è sopito. Non ci sono colpi di scena. Nessun cambio particolare di posizione da parte del protagonista. Nessun accanimento morboso verso l’intimità familiare dei personaggi, nemmeno nei momenti delle liti più ferali. Solo nei momenti finali, l’excursus termina con una nota di redenzione necessaria alle premesse narrative, che fa del film una elegante opera prima dalle ricche buone intenzioni e dalla forma, oltre che dalla sostanza, personali.
Valeria Volpini