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The Farewell. Una bugia buona

Martedì 24 Dicembre 2019 17:02 Pubblicato in Recensioni
Una bugia è spesso uno spunto ideale per un’avvincente trama cinematografica. Gli escamotage narrativi più interessanti hanno, quando ricorrono a una natura mendace, un’attrazione maggiore già nell’idea che porta in sala lo spettatore, intrigato dal gusto di condividere un segreto con lo schermo.
In questo film la regista Lulu Wang trae spunto dalla sua biografia per raccontare un episodio che colpì la sua natura dicotomica: cinese di nascita ma cresciuta in America, per l’esattezza a New York, il centro del mondo occidentale. 
Lei, come la protagonista del film che dirige: Billi (Awkafina), ospita in sé due identità che fanno fatica a convivere nel momento in cui le tradizioni dell’una s’impongono sullo spirito modernista dell’altra .
L’amata nonna paterna di Billi, Nai Nai, è ammalata di un tumore inoperabile e la diagnosi prevede per l’anziana solo pochi mesi di vita. I suoi parenti decidono, contro il volere di Billi, di nasconderle le proprie condizioni di salute per permetterle di vivere serenamente l’ultimo periodo della sua esistenza.
Sono intrecciati, nella seconda regia di Lulu Wang, una serie di temi profondamente connaturati nell’epoca contemporanea. L’idea che rende interessante il soggetto è quella che porta lo spettatore stesso a una riflessione etica: è giusto tenere inconsapevole un proprio caro delle sue condizioni di salute? Ad un più ampio livello la questione si risolve, o meglio, si fossilizza, in un metaforico agone morale tra due combattenti che si schierano l’uno con l’Oriente e con la tradizione e l’altro con l’Occidente e il mondo contemporaneo, che ha, con il concetto della verità, una relazione di tipo manicheo, qui raccontata in modo sommesso ma incisivo. 
Il contrapporre la realtà alla menzogna è un simbolico contrasto tra i due mondi, il cui anello di congiunzione è Billi, più cittadina della nazione in cui è immigrata da piccola che della nazione di nascita. 
La Wang sottolinea come la cultura e le tradizioni di un paese influiscano sulle idee e sulla morale di ciascuno e come questo porti a un continuo dubbio esistenziale che fa sentire la protagonista paradossalmente una cinese in America e, allo stesso tempo, un’americana in Cina.
La vita di Billi è infatti sempre in bilico tra quello che era (o avrebbe potuto essere) e quello che è e il rapporto con la nonna rende tangibile e visibile tutto il mondo che si è lasciata alle spalle. 
La regia è discreta e con un gusto per l’inquadratura tipicamente orientale, e coabita con una regia più dinamica ma che conserva uno spirito squisitamente formale e delicato, nei momenti in cui Billi e la sua vita da giovane donna americana fanno capolino sullo schermo. 
Non c’è un climax narrativo. Anzi, l’evento scatenante è anche l’evento che dovrebbe assurgere ad un parossismo emotivo che invece non arriva mai. 
La notizia della malattia di Nai Nai è dichiarata fin dall’inizio e non è la svolta drammaturgica ma l’espediente che permette alla storia di esistere. La volontà della regista è quella di raccontare, infatti, la lotta interiore di Billi con uno stile introspettivo e mai spudorato e questo rende la narrazione a tratti piatta, senza svolte e con un ritmo che fa continuamente aspettare un momento culminante che è volontariamente assente.
Le emozioni non sono mai travolgenti. Sono sempre sopite, sommesse, anche nel momento in cui esplodono sui volti dei protagonisti (nella scena in cui il padre di Billi dichiara alla figlia la volontà di non dire a Nai Nai che le restano poche settimane di vita, i due attori sono addirittura inquadrati di spalle). 
La tematica della mistificazione dei sentimenti e di quello che questi rappresentano è quindi intrecciata a quella della migrazione, anche rappresentata allegoricamente dagli uccelli che sembrano seguire la giovane protagonista, ricordandole la sua natura migratoria e in continuo divenire.
Questo film ci vuole parlare di quello che siamo e che potremmo essere e porta lo spettatore a farsi delle domande più che ad avere delle risposte, rimanendo discreto e formale, nonostante i toni si tratteggino con un’ironia surreale che sottolinea le differenze ma, allo stesso tempo, riesce a valorizzarle. 
 
Valeria Volpini

1917

Giovedì 23 Gennaio 2020 16:40 Pubblicato in Recensioni
Prima Guerra Mondiale, ai due caporali Schofield (Goerge MacKay) e Blake (Dean-Charles Chapman) viene affidato l'incarico di raggiungere un reggimento stanziato al largo della città di Ecoust. Devono consegnare un messaggio contenente l'ordine di fermare l'imminente attacco alle linee tedesche, che stanno preparando una trappola alle truppe inglesi. Un compito che potrebbe salvare la vita di 1600 soldati, compreso il fratello di uno dei due ragazzi.
Liberamente ispirato dai racconti del nonno, che attraversava veramente i campi di battaglia per consegnare missive da un reparto all'altro, per questo film Sam Mendes (American Beauty, Skyfall) decide di avvalersi di un punto di vista particolare.
Sceglie di accompagnare la missione con una serie di piani sequenza opportunamente uniti, simulando uno scatto unico per tutta la durata della pellicola. Un modo per essere ancora piú vicino ai protagonisti nel loro incedere attraverso l'orrore. 
Si è testimoni di tutto, dal timore che dietro il prossimo angolo possa esserci un nemico, alla speranza che gli aerei alleati vincano il duello aereo che imperversa nei cieli, fino alle battute tra commilitoni, che provano in tutti i modi ad alleggerire la sensazione che quelle potrebbero essere le loro ultime parole.
Questa tecnica, recentemente già vista in Birdman, è stata opportunamente elaborata in mesi e mesi di prove con precise mappe per i movimenti degli attori e dispiegamenti lungo il set, e in questo particolare teatro degli eventi conferisce una tensione alla scena assolutamente unica.
La colonna sonora rimane in secondo piano, a tratti cadenzata dall'incedere dei due soldati nella terra di nessuno, un accompagnamento che non distoglie lo spettatore dal focus della narrazione, ma che è anche capace di salire con toni sontuosi in determinate scene ad alta spettacolarizzazione.
Il film procede molto veloce verso il suo obiettivo, con la stessa urgenza che hanno i due protagonisti di consegnare il messaggio, e c'è poco tempo per soffermarsi sulla tragicità degli eventi che si susseguono. La morte si palesa ovunque e bisogna proseguire ad ogni costo, ricacciando dentro le emozioni.
E' forse questo uno dei pochi limiti di questa pellicola, la sceneggiatura è funzionale alla dinamicità della vicenda, e lascia poco spazio per le sensazioni che scaturiscono dalla drammaticità di certi avvenimenti. Le linee di dialogo sono scarne e taglienti, e servono piú che altro a spezzare il ritmo concitato della vicenda.
I personaggi vengono quindi tratteggiati molto poco, si susseguono eterei come fantasmi, consci che potrebbero uscire dalla scena con la stessa rapidità con cui sono entrati. Ciònondimeno assistiamo a una serie di cameo di gran valore, attori del calibro di Colin Firth, Mark Strong e Benedict Cumberbatch, si rendono protagonisti di momenti iconici all'interno degli eventi della missione, ma ovviamente la prova attoriale piú importante è quella dei due caporali, in particolare dal giovane George MacKay. 
La sua è un'interpretazione molto fisica, sporca e di fatica, perfettamente in tono con una produzione del genere ma anche precisa ed accurata, vista la natura della particolare tecnica con cui il film è stato girato.
Impossibile non citare anche la straordinaria fotografia di Roger Deakins, già vincitore due anni fa dell'Oscar con Blade Runner 2049, qua autore di un lavoro eccezionale, che si manifesta, oltre che nella ricostruzione di campi di battaglia in campo aperto e tra le trincee, soprattutto nella messa in scena di una meravigliosa sequenza in notturna all'interno della città bombardata di Ecoust, una delle migliori della pellicola.
1917 è in definitiva un'opera che lascia senza fiato, è un'incursione rapida e tesa nell'inferno di uno degli eventi piú drammatici della storia, avvalorato da una tecnica di altissimo livello. Sebbene passi forse troppo veloce da un dramma al successivo, le sue scene rimangono impresse nella mente come fuoco vivo. Uno dei film di guerra piú riusciti degli ultimi decenni.
 
Omar Mourad Agha

The Lodge

Giovedì 16 Gennaio 2020 16:05 Pubblicato in Recensioni
Il topos dell’abitazione sperduta in un luogo dalle atmosfere lugubri e minacciose, è quanto di più ricorrente nel cinema horror. Si tratta infatti di quella che viene definita la premessa costante di molteplici trame che hanno come perno il fenomeno paranormale. Il nuovo lavoro diretto da Severin Fiala e Veronika Franz ripropone avvedutamente una trama che ruota attorno al senso di isolamento generato da un luogo capace di dilatare il tempo, generando alienazione ed inquietudine. The Lodge è infatti ambientato in una dimora sperduta nelle lande di un silente paesaggio nevoso, dove la neo coppia formata da Richard e Grace decide di passare alcuni giorni in compagnia dei due figli dell’uomo. Un equilibrio instabile quello dei due bambini, ancora fortemente turbati dalla fresca perdita della loro madre naturale, e che a stento riescono a rapportarsi con la nuova compagna del padre. Ma le cose arriveranno ad una svolta ancor più critica, quando Richard sarà costretto ad assentarsi qualche giorno per motivi di lavoro, lasciando i due bambini assieme a Grace in questo luogo tutt’altro che confortante. La figura di Grace non fa che approfondire quel senso di disagio e ambiguità che si percepisce sin dalle prime battute del film. I due registi, dopo il successo dell’ultimo lavoro Goodnight mommy (2014), tornano a dirigere una storia che ruota attorno a temi cari ai due autori, quali la religione, il paranormale e il rituale, inteso come momento di incontro tra reale e forze oscure. Ma se l’incipit si presenta intrigante e ben disposto a percorrere una strada coerente e tenebrosa, lo sviluppo ha un’andatura incerta e piena di lacune che inevitabilmente pesano sul film fino alle battute finali. Probabilmente un lavoro del genere necessita di una seconda visione per poter essere compreso nelle sue svariate angolature, anche se in questo caso sono proprio le stesse nella loro moltitudine a portare fuori strada la storia nella sua interezza. L’eccesso nel voler creare enigma conduce ad un rallentamento del ritmo e inevitabilmente all’abbassamento della soglia d’attenzione dello spettatore. I 100 min di film  iniziano a farsi sentire soprattutto dalla seconda metà in poi, quando quella suspense che all’inizio procurava un conturbante senso di angoscia e isolamento, perde tono mano a mano che ci si approssima alla fine. Molto interessanti i richiami non soltanto narrativi, ma anche fotografici di stampo Kubrickiano, legati a Shining. The Lodge è un film che se da un lato merita attenzione per lo sforzo e per l’intento di raccontare una storia di stampo psicologico, dall’altro purtroppo non riesce a catalizzare a dovere tutti gli elementi a sua disposizione, restando in un limbo di incertezza. 
 
Giada Farrace 
 

Richard Jewell

Martedì 14 Gennaio 2020 11:50 Pubblicato in Recensioni

Il dono della narrazione è un privilegio raro e riservato a pochi nomi della Hollywood  odierna. La spasmodica ricerca dello spettacolare al cinema, la quale tuttavia non sempre genera prodotti eccelsi, pone ancor di più in evidenza quei narratori che imperterriti seguono il loro fulgido cammino. Ebbene Clint Eastwood a quasi 90 anni, è uno dei grandi veterani che ancora oggi pone come cuore della sua missione narrativa l’essere umano, e talvolta l’eroe. Il regista di Gran Torino, decide ora di raccontarci la vicenda accaduta realmente a Richard Jewell, un giovane americano travolto da un’inarrestabile polverone di eventi disastrosi sollevato dalla bulimica invadenza dei media.  Tutto ha inizio il 27 luglio del 1996, quando durante i giochi olimpici di Atlanta, Richard, in veste di guardia di sicurezza dell’evento, scopre uno zaino sospetto. Il giovane riesce a lanciare l’allarme in un tempo ridotto, mettendo in salvo molte vite prima dell’esplosione, e tentando di limitare il numero dei lesi. Dopo giorni intensi e gloriosi, in cui Richard viene considerato all’unanimità un erore, arriva il colpo basso da parte dei mass media, i quali diffonderanno la notizia che il ragazzo risulta per l’FBI il primo sospettato dell’esplosione. Da qui ha inizio ufficialmente il frustrante calvario di Jewell, ritenuto ingiustamente un individuo psicolabile e pericoloso, nonchè un fanatico in cerca soltanto di attenzione. Clint Eastwood rimane colpito da questa vicenda e decide di raccontarcela come soltanto lui sa fare con tali fatti di cronaca, ossia con assoluta minuzia e grande umanità. Nella seconda parte del film, la ricostruzione del fatto in sè viene poi seguita dall’esplorazione dei rapporti che intercorrono tra i vari protagonisti e questo avviene con molta naturalezza senza cedere il passo ad eccessi di sentimentalismi. Perchè il cinema di Eastwood non si limita mai a riportare una vicenda nella sua fredda linearità, ma abbraccia anche quel piano intimo e profondo che rende tutti i personaggi delle sue storie più vicini a noi. Una lode speciale va agli interpreti, da Sam Rockwell, che restituisce il ritratto sincero e ironico dell’avvocato, a Kathy Bates madre dell’eroe alla gogna, arrivando infine al protagonista Paul Walter Hauser, perfetto in ogni istante nel suo ruolo. Richard Jewell è sicuramente un film molto diverso dal precedente The Mule, poichè viaggia su un binario emotivo differente, ma non per questo meno incline a coinvolgere. Certo è che, di registi come Eastwood non ce ne sono e mai ce ne saranno, pertanto questa sua impronta unica, capace di colpire il bersaglio senza sbavature resta di fatto il suo tratto principale, quello che rende i suoi film dei grandi momenti di cinema. 

 

Giada Farrace