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Seberg

Martedì 03 Settembre 2019 20:54 Pubblicato in Recensioni
Nel terzo giorno di Mostra del Cinema di Venezia, il palinsesto offre una biografia sulla carta decisamente accattivante. Protagonista incontrastata è Kristen Stewart, stella in perenne ascesa, sempre ben accolta al Lido da una nutrita schiera di fans. Questa volta la giovane attrice americana interpreta un’icona del cinema francese ed in particolare della Nouvelle Vague: Jean Seberg, nell’omonimo film (Fuori Concorso) diretto dal semi esordiente regista Benedict Andrews. Il film racconta solo una parte della vita dell’attrice, quella del ritorno in America, dopo il successo planetario avuto con Fino all'ultimo respiro (1960) di Jean-Luc Godard. Prima di addentrarci nella trama e nella disamina critica della pellicola, vorremmo soffermarci un attimo sulla one woman show che interpreta Jean Seberg. La Stewart, dismessi i panni della vampira Bella della saga Twilight, si è messa alla prova con registi quotati come Olivier Assayas (Sils Maria e Personal Shopper) e Woody Allen (Cafè Society), dimostrando di essere qualcosa di più di una Biancaneve che va appresso al Cacciatore. Profondità ed adattamento al ruolo ormai gli calzano a pennello. E dopo aver visto Seberg possiamo confermare quanto appena detto, peccato per l’opera in se, che al di là della prova della Stewart, il biopic non esce mai da un piattume figlio di una regia debole e di una scrittura senza mordente.
 
Siamo a fine anni 60 e precisamente nel 1968. Jean torna nella sua amata patria. L’FBI le è perennemente addosso. Gli agenti federali la sorvegliano 24 ore su 24 alla ricerca di legami compromettenti con il leader politico delle Black Panther: Hakim Jamal (Anthony Mackie). Tra l’attivista dei diritti civili e l’attrice nasce qualcosa di più che una semplice amicizia. A questo punto per gli organi di sorveglianza americani la Seberg è una nemica degli Stati Uniti ed ogni uscita pubblica o meno con Hakim Jamal è un buon pretesto per screditarla e denigrarla. Viene anche spesso spaventata ed intimorita. L’opinione pubblica gli rema contro, fino a portarla più volte a tentare il suicidio. Il caso viene affidato all’agente Jack Solomon (Jack O'Connell), per il quale le problematiche si faranno sempre più spinose più si avventurerà nella vita di Jean. Questa bellissima icona del cinema che fu, con i suoi cortissimi ed affascinanti capelli color platino, dovrà abdicare in giovane età. Jean Seberg muore quarantenne il 30 Agosto del 1979.
 
La regia di Benedict Andrews si concentra sui volti di Kristen Stewart, costantemente inquadrata da vicino e lei è sempre pronta a sviscerare la sue gioie, ma soprattutto i suoi tormenti. Qui il film prende un po’ di respiro, riallacciandosi proprio con il cinema francese della Seberg, colmo di primi piani esplicativi. Ma l’opera meritava una più mirata complessità. La sola performer, seppur brava, non può da sola portare a casa il risultato. Tutto il resto è diretto senza approfondimento. Le svolte narrative sono pressoché inesistenti. I momenti più importanti che hanno caratterizzato la sua esistenza sono scene fast food senza un vera esplorazione.
 
Il film, dal taglio più commerciale che d’autore, si limita a rimanere in superficie. 3 days to Quiberon, visto al Festival di Berlino ed. 68, diretto dalla regista Emily Atef ed incentrato su un’intervista a Romy Schneider (per intenderci la famosissima Principessa Sissi) è l’esempio di come una regia intima riesca a farci percepire il vissuto del personaggio, non limitandosi a solo inquadrare, ma anche a raccontare. Tra ricordi e vita reale, la narrazione non si perde nelle sole scenografie, cosa che purtroppo succede in Seberg.
 
David Siena

La verita'

Lunedì 09 Settembre 2019 20:46 Pubblicato in Recensioni
Il regista Hirokazu Kore-eda non è sceso a compromessi. Per il suo La Verité avrebbe voluto l’apertura del Festival di Cannes 2019. Ma proprio dove l’anno scorso è stato premiato con la Palma d’Oro (Un affare di famiglia), ha trovato un muro alto da scalare. Il direttore Thierry Frémaux gli ha negato questo privilegio e Alberto Barbera (direttore della Mostra di Venezia) non ha perso l’occasione per portare il film del regista nipponico al Festival della laguna. Omaggiandolo proprio dell’apertura. La Verité è il primo film del cineasta girato fuori dal Giappone. Ha scelto la Francia e per il suo nuovo lavoro ha voluto una star del calibro di Catherine Deneuve, la quale interpreta Fabienne, un’attrice ormai a fine carriera. E come tutte le dive è narcisista e poco rispettosa verso il proprio sangue. La famiglia per lei è solo un peso. Soprattutto la figlia Lumir (Juliette Binoche) e il marito di questa, l’ex-alcolizzato Ethan Hawke. E’ corretto dire fin da subito che il film non è all’altezza dei lavori precedenti di Kore-eda. Probabilmente non aver lavorato in patria e le grandi differenze culturali tra oriente e occidente hanno influito sul risultato. Il linguaggio dell’autore non si riconosce in pieno, ne scaturisce un’opera poco eterogena, eccessivamente verbosa e in parte didascalica. 
 
Lumir arriva a Parigi con tutta la famiglia in occasione del lancio della biografia di Fabienne. Durante il viaggio da New York ha avuto il tempo di meditare sul tempo che passerà con la madre. Tempo sicuramente colmo di insidie, che probabilmente farà riaffiorare scomodi ricordi. Lumir è una sceneggiatrice. Lavora nel campo del cinema come la mamma, palcoscenico dove prende vita la loro competizione. L’unico punto di unione è la nipote Charlotte (Clémentine Grenier). Ma quest’ultima niente potrà fare per impedire a Lumir di litigare con Fabienne, visto che nella biografia ci sono fatti rielaborati a piacimento dall’attrice. 
Nella villa di famiglia anche i soffitti e le porte conoscono molto bene il clima poco armonioso, che durante gli anni si è istaurato tra madre e figlia: bugie sempre all’ordine del giorno e poco affetto.
Fabienne intanto si sta preparando per un ruolo in un film di genere. E nel particolare deve proprio interpretare una madre.
 
La Veritè è un progetto molto caro a Kore-eda; lo ha diretto, ma anche sceneggiato e montato. Inizialmente era stato scritto per il teatro e l’ambientazione avrebbe dovuto aver luogo in un camerino.
Si vede fin da subito che il regista giapponese non abbandona le proprie riflessioni/ossessioni, che sono il suo marchio di fabbrica. Protagonista principale è il senso di famiglia, che venga dallo stesso sangue o da chissà dove. 
E’ un maestro a muoversi con la macchina da presa negli interni della villa, seguendo le protagoniste e le loro emozioni. Interagisce con il pubblico che cerca anch’esso la verità. Ma tutto questo è perlopiù un déjà vu dell’autore. La diversità culturale, come accennato in premessa, non aiuta nello sviluppo completo dei personaggi: ruoli che abbracciano troppi cliché. Si rimane in superficie, dove purtroppo si apprezza meno meticolosità e distinzione rispetto al modus operandi di Hirokazu Kore-eda. Altra sbavatura è rimarcata dalla non perfetta gestione dei tempi. 
 
Di livello le performance delle due protagoniste: Deneuve è a suo agio in un ruolo che rispecchia in parte il suo vissuto. La forza della sua immagine dona a Fabienne quella giusta aurea di attrice navigata, che sa quello che vuole. Il ruolo di madre vera e propria si vede solo quando recita, attimi in cui la finzione è usata per mettere in scena una realtà mai consumata. Juliette Binoche si immedesima perfettamente in un’anima fragile e non c’è momento in cui questo non si noti, anche negli sprazzi di eccitazione e vigore. Insomma entrambe sono completamente nella parte. Ethan Hawke purtroppo non lascia traccia.
 
David Siena

Sulla piattaforma di Zalab.org inizia il crowdfunding per sostenere la bella iniziativa Eikon FeelMare, festival del cinema itinerante in Apecar diretto da Cecilia Chianese.

Fino al 15 luglio, iscrivendosi su www.zalab.org/il-cinema-vivo si potrà aiutare il progetto a svilupparsi.

L’identità specifica di Eikon – FeelMare (portare il cinema dove non c’è a bordo di un’Apecar) si adatta all’emergenza e porta il suo cinema a tre ruote nei cortili dei condomini del quartiere di Tor Bella Monaca, nelle date: 1-2-3 settembre 2020.
 
 
Gli spettatori potranno richiedere una proiezione gratuita, contattando l'associazione. La visione sarà organizzata in base alle misure presenti al momento dell’evento: platea “verticale” affacciandosi dal proprio balcone o dalla propria finestra con proiezione dall’Apecar / platea “orizzontale” con proiezione sull’Apecar e distanziamento tra gli spettatori sotto casa, senza prevedere spostamenti ma senza rinunciare alla gioia dell’incontro e delle stelle come soffitto.
 
L’associazione culturale Eikon si occupa di promozione culturale e cinematografica partendo dalla concezione della fruizione cinematografica come essenziale aggregatore sociale e da una specifica sensibilità di genere, essendo le socie tutte donne.
 
Se il pubblico in questo momento non può entrare in sala, Eikon porterà la cultura a casa loro a bordo di un mezzo legato alla tradizione italiana, l’Apecar. Coerentemente con il concept di Eikon – FeelMare, che consiste nel portare il cinema “sotto casa delle persone”, l’associazione propone una breve rassegna itinerante che si svolga all’interno di tre cortili condominiali del quartiere di Tor Bella Monaca, dove saranno organizzate proiezioni tramite l’utilizzo dell' Apecar, munita di schermo cinematografico sul suo cassone, oppure, a seconda del contesto specifico (la tipologia dei cortili) e delle normative vigenti, proiettando su un muro condominiale. 
 
 

E' per il tuo bene

Venerdì 10 Luglio 2020 20:49 Pubblicato in Recensioni

A distanza di tre anni Rolando Ravello torna dietro la macchina da presa per dirigere un’altra commedia sulla scia del suo precedente lavoro, La prima pietra, sempre a metà strada tra l’eccesso di vivacità e riflessione sull’accettazione del diverso. E’ per il tuo bene,  ora disponibile on demand su Amazon Prime, è il remake di una fortunata pellicola spagnola del 2017 intitolata Es por tu bien. Come nel film di Carlos Theròn, anche qui abbiamo a che fare con tre famiglie in piena crisi di nervi, travolte dalle scelte sentimentali delle proprie figlie, scelte a loro avviso piuttosto discutibili e spiazzanti. Annebbiati dal disappunto e dalla volontà di proteggere la vita delle ragazze, i tre padri, amici da sempre, decidono di escogitare insieme un improbabile e folle piano per allontanare le proprie figlie dai rispettivi partner. Precede l’uscita una bagarre scatenata da una locandina errata che ha mandato su tutte le furie vari movimenti femministi anche stranieri e ha fatto parlare del film su varie testate. Il manifesto riportava esclusivamente i nomi del cast maschile, rispettivamente quelli di Giallini, Salemme e Battiston, omettendo totalmente quelli invece del cast femminile, composto da Claudia Pandolfi, Isabella Ferrari e Valentina Lodovini. Una provocazione molto feroce in un momento di attivismi, che ha suscitato non poche polemiche, ognuna delle quali ferocissima nel boicottaggio di questo lavoro a tal punto che il distributore, Medusa, è intervenuto scusandosi pubblicamente per l'errore di stampa, assolutamente involontario e causato dalla fretta. Tornando invece ad un’analisi della pellicola di Ravello, la si potrebbe definire tiepidamente spiritoso, in virtù di quel respiro scanzonato che i tre protagonisti sono capaci di donargli. Ma se si mette da parte questo aspetto non resta altro che consuetudine, noiosissima e ripetitiva consuetudine. Ed è principalmente questo il tarlo che divora molte commedie italiane, quell’eccessiva attenzione rivolta al connubio tra il politicamente corretto e l’intemperanza di situazioni sopra le righe, nonché la riproposizione di quei temi masticati e rimasticati nel corso degli anni. Vediamo quindi riaffacciarsi alcuni topoi cinematografici che tanto piacciono alle storie italiane, tra cui l’incomprensione, la mancata accettazione del diverso e le onnipresenti crisi di nervi dei radical chic (con relative esplosioni litigiose e attacchi d’ira). Ma dovessimo rintracciare il peggior difetto probabilmente esso non figurerebbe nella riproposizione di storie già trattate, piuttosto in un’assenza di carattere e di imprevedibilità del lavoro. C’è troppa retorica nei personaggi, nelle loro storie e persino nei loro dialoghi ed è proprio questa ridondanza ad allontanare lo spettatore dall’empatia. Il risultato è un quadro eccessivo, mosso da un motore improbabile e poco convinto, che finisce per rendere poco salienti anche i saparietti più accattivanti. A questo punto ci si chiede se davvero il cinema italiano si stia rinnovando o se tenti solamente di ripercorrere vecchie strade, imbrigliando il tutto nella camicia di forza del politically correct.

Giada Farrace