Giuseppe Tornatore non ha mai nascosto di essere romantico. Com’era stato per “La migliore offerta” lascia gli scenari affollati di Baarìa per dirigere un film da camera con pochi attori. Amy (Olga Kurylenko) è una studentessa fuori corso, che arrotonda facendo la stuntman, giovanissima amante di Ed (Jeremy Irons) professore della sua materia preferita: Astronomia. I due divisi dalla lontananza e dalla loro relazione segreta hanno poco tempo da trascorrere insieme e avviano una lunga corrispondenza, fatta di mail, lettere, pacchetti misteriosi, sms criptici. Nell’aula magna della loro università, Amy, durante una conferenza, apprende una notizia che le cambia la vita e la corrispondenza assume una forma del tutto diversa. L’intera pellicola è una lunga riflessione sul mistero che avvolge l’esistenza terrena, ricevere una lettera non significa necessariamente parlare con il corrispondente, essere amati non vuol dire necessariamente toccarsi, baciarsi, fare l’amore, certe volte basta un segno del proprio passaggio, come le stelle che una volta estinte lasciano dietro di se l’esplosione che genera una supernova. Fa sorridere l’efficienza dei servizi postali della sbandierata “TNT” il famoso marchio di corrieri veloci, che fa da “sponsor” al film. Paradossale è anche l’uso della tecnologia, troviamo CD rom che gettati nel fuoco vengono letti da un Haker-Smanettone improbabile con amici nei servizi segreti, schede di memoria che funzionano dopo essere state gettate in acqua, Videocamere vuote con tracce di “vita” nella memoria, non si esclude che in casi particolari questo possa essere “verosimile” ma non con questa “semplicità” e frequenza. Il Maestro Morricone musica la malinconia e l’aspetto più intimo della vicenda. Delle Location è straordinaria l’isola Piemontese di San Giulio (nel film “Borgo Ventoso”) una italianissima “Mont-Saint-Michel” immersa nell’acqua del lago d’Orta. Astronomia, teoria delle stringhe, Multiversi, lo studio degli astri e delle stelle sono il principale espediente per raccontare questo dramma, che sembra concludersi nel migliore dei modi fino alla discutibile direzione che prende il finale. Romantico e surreale, diverso nella forma dagli altri film del regista, ma contraddistinto dalla stessa tenerezza. Lento, un po’ ingenuo ma nel complesso dignitoso.
Visto dagli occhi di uno dei Sonderkommando il “figlio di Saul” di Làszlò Nemes è un’atroce prospettiva di vergogna per l’intera umanità. Saul Ausalnder (Gèza Rohrig) è un ebreo ungherese costretto forzatamente ad appartenere alla casta dei lavoratori “vip” all’interno del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, ha un’aspettativa di vita di quattro mesi, locali riscaldati dove dormire, un piatto di ceci al giorno, in cambio sono richieste le sue braccia forti per ammassare i cadaveri della sua gente, spalare la polvere di ciò che ne resta una volta fuori dai forni crematori, accompagnare i “morti” ancora vivi alla “soluzione finale”. Attraverso l’orrore scopriamo che un bambino nudo in mezzo a mille altri respira ancora, il corpicino innocente, soppresso nel giro di pochi minuti dal “medico” del campo, accende in Saul la voglia di tornare a sentirsi umano. Laddove non si può essere un “eroe” il suo bisogno primario diventa quello di seppellire quel ragazzo, “suo figlio” dice lui, nel più sacro dei modi, assolvere al comandamento universale di “vestire chi è nudo, sfamare chi è affamato, seppellire chi è morto”. Non si accontenta delle preghiere clandestine dei suoi compagni, cerca un Rabbino nel profondo girone dei dannati innocenti arrivati al campo e la sua ricerca, inosservata dai carnefici, attira le attenzioni dei ribelli pronti a fare un blitz per cercare di fuggire e raccontare al mondo la verità. La regia, spiega Rohrig presente alla conferenza stampa tenutasi a Roma per l'uscita del film, per evitare sguardi “pornografici” si avvale di un operatore che segue solo il protagonista, i suoi occhi stanchi che hanno visto troppo, la sua nuca mentre cammina tra inquadrature sfocate e grida agghiaccianti. Il sonoro, ottenuto con cinque settimane di sessioni per i rumoristi, è un espediente riuscitissimo per “sentire” la Shoah con rispetto e senza indugiare su aspetti gratuitamente macabri. Deve dichiaratamente molto agli scritti di Primo Levi. Non sorprende che nonostante sia stato girato in soli 28 giorni, con un budget bassissimo, abbia già vinto moltissimi premi come il Gran Prix Speciale della Giuria alla 68°esima edizione del festival di Cannes, il Golden Globe come “Miglior Film Straniero” e la nomination all’Oscar nella stessa categoria. Nonostante questo, il film non è stato fatto a tavolino da una Major di Hollywood ma con modestia da una casa indipendente, la Laokoon Filmgroup. Il 27 Gennaio ricorre la Giornata della Memoria, è molto importante non dare per scontato, in un mondo fatto anche di negazionisti e giovani fascistelli ignoranti, che tutto questo è accaduto. I nazisti non era mostri di un altro pianeta, erano esseri umani e gli uomini che fanno la guerra attraverso il lavoro sporco degli altri, esistono ancora. Oggi forse un olocausto lo progetterebbero con l’aiuto dei droni. Un film così dovrebbero vederlo tutti. Questa pellicola è la dimostrazione che il cinema non è solo intrattenimento, è uno strumento potentissimo che può svegliare le coscienze di molti.
Il rivoltante accostamento Jane Austen e morti viventi, è un idea di Seth Grahame-Smith autore del best seller PPZ:Pride Prejudice and Zombies oggi film diretto da Burr Steers per lucrare sulle orde di adolescenti alla ricerca di nuovi cult. La signora Bennet deve maritare le sue tre figlie, Elizabeth (Lily James), la secondogenita, ha preferito studiare le arti marziali dai monaci Shaolin in Cina (piuttosto che frequentare le altezzose scuole giapponesi delle sue coetanee) e non ne vuole sapere di smettere di uccidere Zombie per la patria Inghilterra in cambio di una vita modesta da moglie, fino a quando non incontra Mr. Darcy (Sam Riley) che da subito (fin troppo “da subito”) stuzzica la sua curiosità e duella con lei in quel gioco di sguardi, diverbi e cappa e spada, che finirà per dividerli prima e unirli dopo per sempre felici e contenti. Abominevole come Lizzie sia stata privata del suo carattere pungente e della sua forte personalità e ridotta ad un eroina scialba come (quasi) tutte le ragazze super forti dei film per ragazzi, rivisitare una storia o, come in questo caso, un classico letterario sembra essere un’impresa sempre più ardua, perché la buona propaganda femminista (di cui questo film è un esempio perfetto) di mettere un'arma in mano ad una donna e renderla così “sexy e invulnerabile” toglie a gran parte delle protagoniste la forza interiore, quella vera di cui davvero le donne sono capaci e che ha incantato generazioni di ragazze. Tanto Orgoglio e Pregiudizio nella sceneggiatura e pochissimi sporadici ridicoli zombie, un’occasione bruciata di vedere un'orda di barbari mangia cervelli vestiti in stile regency, quelli che ci sono hanno un buon trucco da “zombie walk” ma risultano meno minacciosi e meno numerosi (almeno per tre quarti di film) di quelli visti nelle lunghe stagioni della serie The Walking Dead e non suscitano nessun dubbio morale su “la vita e la non vita”. La scelta del cast è discutibile, ne esce bene solo l’attore inglese Matt Smith, che interpreta una ancora più caricaturata versione imbellita del Reverendo Collins, spasimante senza speranza di Lizzie, di per sè parodia dei rappresentati del clero anche nell’originale, strappa qualche sorriso facile per la sua goffaggine teatrale. Lily Collins, la protagonista, (fu Cenerentola per Branagh) sembra non credere a quello che fa, e non si prende sul serio (come potrebbe?) e il Mr Darcy con un acconciatura di capelli ridicola è messo in ombra dall’avvenenza del suo compare Mr.Bingley (Douglas Booth), scelta non voluta e paradossale. I costumi sono di buona fattura ma la scenografia a basso budget fa pensare ad una consapevolezza di scadere nel trash come la neve finta sul finale. Una nota positiva sono le musiche di Fernando Velázquez (esperto compositore di colonne sonore di moltissimi horror) e i titoli di testa “ritagliati” come un libro. Tanto imbarazzo, non abbatte i pregiudizi e non rende orgoglioso nessuno, tantomeno i fan dei due generi.
La ricompensa del Gatto è uno dei film d’animazione “minori” dello Studio Ghibli (famoso grazie al nome del suo fondatore Hayao Miyazaki) del 2002. La regia questa volta è di Hiroyuki Morita che adatta il manga “Baron: Neko no Danshaku” per il grande schermo. Il fumetto e il film raccontano la storia della liceale Haru che passeggiando con la sua amica per le strade del Giappone salva coraggiosamente un gatto da un violento impatto con un camion buttandosi nel bel mezzo della strada. La ragazza viene sorpresa nei giorni successivi da mille attenzioni “non richieste” (come dell’erba gatta altissima nel giardino della sua abitazione e topolini impacchettati sul fondo del suo armadietto a scuola), il tutto le sembra assurdo fino a quando non scoprirà che il gattino è in realtà il principe di un regno parallelo abitato da gatti e che questo gesto la rende degna di tutti gli onori agli occhi del grasso re felino a capo della comunità che la vuole maritare proprio con suo figlio. Sarà compito dell’affascinate ed elegantissimo Barone Baron Humbert Von Gikkingen (un soprammobile a forma di gatto che ha preso vita grazie ad un sortilegio) e dal suo fido secondo ciccione il gatto Muta (“mucca”) salvarla dal suo destino inesorabile. Dietro a questo film ci sono diverse citazioni che sfuggono agli occhi di chi non è appassionato del genere, nel precedente film “I sospiri del mio cuore” del 1995, Baron compare in un contesto del tutto diverso, come statuetta antropomorfa nel negozio di un anziano signore Shiro Nishi e diventa il soggetto del romanzo che scriverà la protagonista che racconta di come il barone abbia perso la sua amata e di come da quel giorno abbia dedicato la sua vita alla sua ricerca. Questo personaggio è diventato così popolare in giappone da giustificare la realizzazione di questo “sequel”. L’animazione che vanta i colori tipici dello Studio è più “povera” rispetto a capolavori come Il castello errante di Howl, La città incantata o la principessa Mononoke ma lascia quella stessa soddisfazione all’occhio per metterlo una spanna sopra a tanti altri film d’animazione giapponese. Le musiche non sono di Joe Hisaishi (storico compositore delle colonne sonore di molti lungometraggi Ghibli) ma di Yuji Mori che scrisse i pezzi per “I sospiri del mio cuore” (di cui sopra). Una nota bisogna farla sull’adattamento italiano: i film dello studio sono stati affidati dalla Lucky Red a Gualtiero Cannarsi, appassionato conoscitore della lingua, che purtroppo per essere “troppo fedele” traduce da qualche anno a questa parte letteralmente dall’originale rendendo certi dialoghi indigesti e altri addirittura ridicoli. Nostalgia, dolcezza e una frivola ventata di freschezza per chiunque, il target dei film d’animazione giapponese spesso è adulto, questa volta anche i bambini possono apprezzarlo e immergersi in una favola bizzarra imparando che l’amore è la più imprevedibile delle emozioni.