“Se vi dovessi parlare di lei, la principessa muta, che potrei dirvi?” con questo incipit ci si immerge nella vasca di emozioni (fortissime) preparata dal regista messicano Guillermo Del Toro. Siamo nel 1962, l’America corrotta (incarnata dal personaggio interpretato da Michael Shannon) solo apparentemente, perfetta e risoluta vuole essere “Grande Ancora” in piena Guerra Fredda. Strickland (di cui sopra) trascina dentro un laboratorio segreto, con l’approvazione del governo, una campana subacquea, contenente una creatura sconosciuta. Un uomo pesce: venerato in Sud Africa come una divinità, viene ridotto alla misera condizione di cavia, diventa un capro espiatorio, l’oggetto della morbosa, atavica frustrazione dell’uomo che impotente, vuole soggiogare dio. Elisa (Sally Hawkins) una donna ordinaria ma sognatrice, orfana accolta nella casa di un anziano pittore fallito Giles (Richard Jenkins), vive con lui una triste condizione di emarginazione: lei è muta, lui è omosessuale, in una società (fin troppo attuale) che non lascia respiro al “diverso”, una condizione che vive anche la sua collega amica e confidente di colore Zelda (Octavia Spencer). Le due sono le ‘invisibili’ donne delle pulizie dello stabilimento segreto. Ed è là che per la prima volta Elisa sperimenta l’amore. Un gesto, uno sguardo ricambiato, le note di un giradischi, una serie di piccoli delicati muti gesti avvicinano la donna alla creatura, specchio di se stessa e della sua realtà. Gli scenari onirici e quelli cristallizzati nel quotidiano d’epoca, sono fatti di luci blu, verdi e poche pennellate di rosso (in technicolor). A dare una connotazione delicata al dramma c’è la colonna sonora firmata dal compositore francese Alexandre Desplat (per questo scherzando Del Toro lo ha definito “il suo film francese”). Il plauso più grande va al trucco tradizionale e a Doug Jones, performer che da più di 20 anni lavora con il regista, sotto la maschera della creatura volutamente senza nome, come spiegatoci in conferenza stampa (durante la 74esima edizione del Festival di Venezia) egli rappresenta la perfezione o il suo contrario come il protagonista di “Teorema” di Pasolini (1968). Siamo difronte ad un film diverso, che genera inquietudine per i temi trattati e ci libera dalla prigione del classico schema mentale per cui il mostro crudele vuole possedere la bella ed è l’eroe a portarla in salvo. Come in Crimson Peak (2015), ancora una volta il regista ha dimostrato con passione meticolosa, ‘studio matto e disperatissimo’ e profondo rispetto per la materia di saper trasformare un genere cambiando le carte in tavola. Nel precedente citato quello della Gothic Romace, dove il matrimonio non rappresentava un lieto fine ma l’esatto contrario, qui allo stesso modo il suo “mostro della laguna nera” (l’originale a cui fa riferimento deliberatamente è del 1954) scambia il suo posto con quello dell’eroe. Ben lontano dall’essere soltanto una “favola” (se non nella sua definizione più pura, quella delle orride e sadiche vicende raccontate dai fratelli Grimm) è la sua pellicola più cruda, forse la più violenta, dopo Chronos (1993) ma conserva la dolcezza de “Il Labirinto del Fauno” (2006 vincitore di tre premi Oscar). In un mondo cinico dove si ha paura di parlare d’amore, Del Toro lo fa secondo il suo gusto personale, “l’amore è la forza più importante dell’Universo” e “la cosa che mi terrorizza di più” - ha detto quello che viene definito dai più anche un ‘maestro dell’horror’- “è il fatto che si abbia paura di parlarne”. Il regista ci riesce ancora, in un film dove anima e cuore, sono più forti delle parole.
Francesca Tulli
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L’immagine che sicuramente non dimenticheremo dell’edizione 74 del Festival di Venezia è il grande e grosso regista messicano Guillermo del Toro (Il labirinto del Fauno, 2006), che stringe tra le mani il Leone d’Oro del Miglior Film. Si perché è riuscito, con la sua personale versione del Mostro della Laguna nera (1954), a salire dalla categoria B a quella A, regalandoci un film poetico di forte impatto visivo. Ha stregato la giuria del Festival, che contro ogni previsione lo incorona Re del Lido. Potremmo dire: “Venezia osa più dell’Oscar!”. Il Leone d’Oro ad un fantasy. La forma dell’acqua del titolo rimodella un premio che negli ultimi anni aveva perso un po’ del suo smalto e di questo l’Academy dovrebbe farne tesoro. Uscire dal conservativismo e portare il premio cinematografico più prestigioso del mondo nel nuovo millennio.
The Shape of Water ci riporta negli anni 60’ della Guerra Fredda tra Stati Uniti ed Unione Sovietica, all’interno dei complotti e delle manovre segrete delle due super potenze. Un uomo pesce (Doug Jones, che interpretò il Fauno nel film del regista messicano) viene catturato dagli americani per essere studiato. Nascosto in una struttura governativa, non sfugge però allo sguardo di Elisa (Sally Hawkins, Blue Jasmine - 2013), donna delle pulizie muta. I due, in un primo momento si studiano, poi si innamorano. Ne scaturisce una romantica storia d’amore tra diversi. Una sorta di Bella e la Bestia per adulti. Non mancano neppure gli aspetti drammatici e quelli classici della spy-story, e il tutto è sorprendentemente equilibrato. Assistiamo così ad un film, che in se porta la vera essenza del cinema, intrattenere con magia e con quel giusto pizzico di impegno, che ci fa dimenticare per 2 ore (la durata del film) tutti i nostri acciacchi quotidiani.
Forma e sembianze umane dell’acqua sono impresse su pellicola dal visionario regista Del Toro, che qui crea anche soggetto e sceneggiatura. La sua messa scena è capillare, da vero artigiano. Incredibilmente minuziosa e di qualità. Regia dinamica e frizzante, ne è testimone la vorticosa presentazione iniziale, dove avvolgenti e musicali carrellate dall’alto verso il basso portano la macchina da presa nelle case dei protagonisti fino al cinema nostalgico del primo piano. Regia che allo stesso tempo diventa morbida, in grado di avvicinarsi al volto di Elisa con dolcezza carpendo le mutazioni del suo cuore. Non dimenticandosi mai dell’acqua: la vera protagonista. Una direzione artistica emozionata, che porta lo spettatore a vivere in prima persona le scene sullo schermo. Il dizionario creato dell’autore dà vita ad un linguaggio concreto e comunicativo, accessibile a tutti. Un esempio lampante è l’uso del colore: le scarpe rosso fuoco di Elisa sono la metafora del calore e dell’amore che porta all’interno della sua anima.
Il tema di fondo è quello delle diversità; abusato al cinema, ma qui non banalizzato. Un diverso burtoniano, il mostro che cela dolcezza e umanità dietro la sua sudicia facciata, ma i veri mostri sono le persone normali. L’universo creato da del Toro è l’antidoto contro il male. E’ una favola per reagire ai mostri contemporanei e alle assurdità del razzismo, sessismo e della politica assolutistica, tutti temi sviscerati nel film.
I personaggi sono completi e curati. Hanno tutti una forte caratterizzazione ed una tangibile storia alle spalle. Base che fa da trampolino per un pregevole sviluppo narrativo, fatto di storie nella storia. Sally Hawkins è superba nel portare in superficie l’anima incontaminata di Elisa. Una sola espressione del suo volto vale più di mille parole, per non parlare dei movimenti del corpo, armonici e musicali. La sua è una persona vera ed attuale.
Tra le eccellenze tecniche del film si segnala la piovosa fotografia di Dan Laustsen (Crimson Peak, 2015) e la colonna sonora del maestro Alexandre Desplat. Un commento musicale che si sposa con il romanticismo del film, ma capace anche di zone oscure.
The Shape of Water è una storia personale, nella quale incontriamo un diverso che è in grado di cambiare le vite delle persone che incontra. Una creatura senza nome che ha significati differenti per ognuno dei protagonisti. Guillermo del Toro, al suo decimo film, realizza la sua opera più matura. Una favola gotica che è anche cinema puro. Completo sotto tutti gli aspetti. In grado anche di omaggiare con gusto le pellicole e i musical dell’epoca.
David Siena