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Dall' 1 al 3 novembre andrà in scena il festival riminese del cinema breve. Anche quest’anno l’evento si svolgerà al Teatro degli Atti, nel centro storico di Rimini.3 giorni di proiezioni, mostre fotografiche e premiazioni delle quattro sezioni competitive: Amarcort (cortometraggi con durata massima 17 minuti), Gradisca (cortometraggi sotto i 4 minuti), Fulgor (cortometraggi autori romagnoli) e Paparazzo (concorso fotografico).
Questo il programma dei corti finalisti divisi per sezione:
Amarcort
3x3 di Nuno Rocha
A clear intention di David Campbell-Bell
Corti di Angelo Cretella
Disinstallare un amore di Alessia Scarso
Grand Prix di Anna Solanas Marc Riba
Hambre di Mario De La Torre
In fondo a destra di Valerio Groppa
La media pena di Sergio Barrejon
La mirada perdida di Damián Dionisio
Nachtbus di Benjamin Teske
Nazi Goreng di Nathan Nill
Non farai del male di Luca Elmi
Nostos di Alessandro D'Ambrosi
Smile di Matteo Pianezzi
Tapperman di Alberto Meroni
Zinì e Amì di Pierluca Di Pasquale
Gradisca
2° A di Alfonso Díaz
Asesinato en la villa di Carlota Coronado
Bucle di Aritz Moreno
Coriandolo di Scuola Internazionale di Comics di Firenze
Dall'altra parte di Marco Rota
Dimo si di Liceo "Giordano Bruno"
Diversité culturelle di Olivier Martin
Icontroversy di Antonio Prisco
Island di Paola Luciani
It's Just Love di Gruppo "It's just love" Liceo Classico Statale "Francesco Vivona"
Mobi di Michele Cadei
Monotonia di Marco Del Frate
Tengo que matar a María di Manuel Bartual
The farmer di Francesco Zucchi
Tonight is not a good night for dying di Ali Asgari
Fulgor
Perfetto di Corrado Ravazzini
Silenziosa Mente di Alessia Travaglini
Cose Naturali di Germano Maccioni
Quell'estate al mare di Anita Rivaroli e Irene Tommasi
welcHome di Gloria Allegrucci
A wonderful life di Immanuel Casto
Non mancheranno proiezioni di alcuni dei migliori film fuori concorso.
Due ospiti d'eccezione, Enzo De Caro e Sergio Forconi affiancheranno, nella giuria dei corti, Gianfranco Miro Gori (direttore della Cineteca di Rimini) nelle vesti di Presidente di Giuria, Edo Tagliavini (affermato e pluripremiato regista), Marco Leonetti (Cineteca di Rimini) e Francesca Fabbri Fellini quale delegata per la menzione "Fellini".
La manifestazione è interamente ad ingresso gratuito.
Per il programma nel dettaglio e maggiori informazioni consultare il sito http://www.amarcort.it/
In seguito ai tagli che hanno colpito anche i finanziamenti per i progetti per l'integrazione sociale, Ethnicus - Festival delle Culture Migranti è costretto ad emigrare. Per la prima volta dopo sette edizioni svolte in Sardegna, sbarcherà a Roma il 31 ottobre, dalle 19 alle 23 - Centro aggregativo Apollo 11 Via Conte Verde, 51.
Ethnicus nasce nel 2005 da una intuizione di Tore Usai, leader di Pensamentus e direttore del festival. Dal 2008 la direzione artistica del festival è affidata a Rocco De Rosa.
Un appuntamento dedicato alla cultura, alla conoscenza delle differenze e degli incroci tra etnie e tradizioni, che si trasforma nella ricerca delle radici dell'umanità e nel piacere di stare insieme. Questa ottava edizione si preannuncia come una maratona musicale ricca di sorprese; sono già 30 infatti gli artisti di diverse nazionalità che con grande generosità hanno aderito all'appello, lanciato solo 15 giorni fa dagli organizzatori del Festival, e che parteciperanno alla serata offrendo il loro contributo artistico in forma totalmente gratuita.
Grazie a loro, all'impegno di tanti sostenitori e alla collaborazione di Apollo 11 che ospiterà la serata, Ethnicus continua a vivere e per questa insolita edizione romana offrirà al pubblico uno spettacolo fatto di musica (Badara Seck, Andrea Satta, Rocco De Rosa, Miriam Meghnagy, Canio Loguercio, Cantodiscanto, Acustimantico, Madya Diebate, Luigi Cinque), teatro (Teatro di Nascosto), poesia (Lidia Riviello, Giuseppe Boy), danza (Natalia Bonanese), visioni di sabbia (Licio Esposito), illustrazioni (Ehsan Mehrbakhsh) e tanto altro.
Maggiori informazioni www.ethnicus.it
Il rito del passaggio, della presa di coscienza della propria sessualità, è di solito il tema attorno a cui ruotano migliaia di teen movie che costellano l’universo cinematografico mondiale.
Data questa enorme mole di pellicole è veramente difficile immaginare qualcosa di nuovo che deve fuoriuscire faticosamente dai sentieri già battuti. Generazioni di registi, muovendosi tra alberi di mele e graffiti americani, hanno continuato a seminare in questo terreno sempre fertile e fecondo, abituandoci ad un certo tipo di scenario che risulta sempre più visto e rivisto.
Lais Bodanzky è l’autore di questo ennesimo tentativo di raccontare la quotidianità dell’adolescenza attraverso l’adattamento della serie di libri di successo “Mano”, sul grande schermo.
“Le cose migliori del mondo” è un viaggio che ci catapulta nel mondo di Mano, un adolescente che vive a San Paolo in Brasile, e tramite i suoi occhi assistiamo al suo processo di maturazione che passa attraverso la disintegrazione della famiglia borghese moderna.
Il padre di Mano è un professore universitario che ha scoperto l’omosessualità a 50anni, la madre del ragazzo reprime (farmacologicamente e non) i propri sentimenti in nome della religione laica dell’etica, del “buon senso comune”, il fratello del ragazzo tenta il suicidio per futili motivi sentimentali, il tutto sullo sfondo di un microcosmo scolastico tormentato da episodi di bullismo e sovraesposto alla gogna mediatica a colpi di cellulari, blog e social media.
Mano si ritrova al centro di questa discesa agli inferi, ponte generazionale tra l’infanzia e la maturità, scoprendo la sessualità, il valore dell’amicizia e della tolleranza, ma tutte queste esperienze si rivelano effimere e pervase da un senso di estrema superficialità che come una cappa si staglia su ogni fotogramma del film.
La regia di Bodasky è pulita e quasi “scolastica”, la macchina si muove pochissimo, i personaggi estremamente bidimensionali percorrono gli stretti confini della scena e ogni cosa risulta a suo posto, ogni cosa è illuminata artificialmente ma appunto per questo nulla riesce a brillare di luce propria.
Certamente questo lavoro ha un certo peso specifico se confrontato con i classici del cinema sentimentale nostrano degli ultimi anni ma, nonostante questo, non spicca nel panorama internazionale.
Nick Zurlo
Cadenas, ovvero Il cinema che racconta il lavoro, quello invisibile, sottopagato, quello delle guarda-barriera sarde che, ereditando il mestiere di generazione in generazione, continuano la tradizione tutta al femminile di quest’occupazione ormai soppiantata dal passaggio a livello. Nelle campagne sarde, tra la Trexenta, il Campidano e il Gennargentu, la chiusura del passaggio per il transito dei treni viene ancora affidato al presidio di donne in giubbino fluorescente, custodi delle catene che chiudono l’accesso ai binari e del silenzio immenso in cui sono immerse.
Francesca Balbo posiziona la cinepresa alla loro altezza, facendo parlare i pochi gesti routinari di queste lavoratrici, le lunghe attese, gli scambi con le generazioni che prima di loro svolgevano lo stesso lavoro, le rivendicazioni di diritti e tutele.
Quello che si costruisce con la giustapposizione di questi elementi è un racconto sottovoce di vite ai margini, intrappolate in una dimensione spazio-temporale lontana dalle società opulente e dai ritmi frenetici della città, scandite solo dagli orari dei treni e dal saluto del macchinista che sfreccia via.
“Quando sono salita sul treno il tempo si è dilatato, lo spazio si è aperto. Quando mi sono fermata con le guarda-barriera, il tempo è diventato un interstizio tra i passaggi del treno e lo spazio è stato costretto tra due catene” spiega la regista, includendo in questa sua affermazione tutta la trama poetica di questo documentario dal moto contrapposto: il movimento del treno associato all’immobilità delle “ragazze della Ferrovia”. Una vita, la loro, sospesa in uno spazio magico, che custodiscono con cura e devozione, coscienti del ruolo residuale della loro attività.
Se durante l’iniziale scorrere lento e silenzioso delle immagini lo spettatore percepisce uno spaesamento rispetto ai tempi accelerati a cui l’industria cinematografica lo ha abituato, occorre uno sforzo maggiore per osservare un mondo tanto lontano dalla nostra realtà quanto tangibile e pesante. Pesante nella sua descrizione senza pathos di una normalità poco luccicante, attaccata ad una terra difficile. Il territorio si fa co-protagonista del racconto, accanto alle figure principali di cui la telecamera fissa sottolinea espressioni e vissuto. “Raccontare le guarda-barriera della Sardegna significa raccontare una normalità complicata in cui la giornata si compone come un puzzle, cercando ogni giorno di mettere insieme i pezzi giusti. La loro forza e’ pari soltanto alla loro tenerezza” (Francesca Balbo).
Elisa Fiorucci