L’ultimo lavoro di Paolo Genovese (già regista di “Una famiglia perfetta”, “Perfetti Sconosciuti”, “The Place”), intende portare sullo schermo la storia ventennale di una coppia dal punto di vista del tempo che passa e delle sue conseguenza sulla relazione.
Anna (Jasmine Trinca) è una fumettista un po’ confusionaria. Ha il dono dell’estro creativo subitaneo e della limpidezza di spirito, che la rende folle e fragile allo stesso tempo. Figlia di un padre assente e di una madre egocentrica e narcisista, è restia a legami sentimentali che siano duraturi e che abbiano il sapore di un accogliente rifugio familiare. Forse per paura dell’abbandono, per mancanza di abitudine o di riferimenti, o forse per l’idea malsana che un legame possa far ipotecare i propri sentimenti senza possibilità di riscatto.
Marco (Alessandro Borghi) è un fisico dall’aria stralunata. Ha un romanticismo un po’ naif, tipico di chi è abituato a esprime i propri ragionamenti sul terreno assiomatico della scienza, che è insieme il suo habitat naturale e la sua prigione mentale. È un accademico. Un professore geniale e creativo che si fa travolgere dall’impetuosità di Anna e del suo ardore.
Dall’incontro di queste due metà così distanti l’una dall’altra, nasce un amore appassionato, profondo, ossimorico e per questo poetico, che la pellicola racconta nelle sue fasi ascendenti e discendenti. La narrazione segue la coppia nei venti anni della sua storia. Mette in scena le liti, i silenzi, le ansie, le interazioni, i progetti di una coppia che s’incontra per caso e poi sembra destinata a passare la vita insieme nonostante le differenze e le occasioni mancate.
Ogni momento vissuto dai due è affrontato dal regista con la lucidità di chi guarda una vita a due e di chi la studia senza censure. È un’oggettiva riproduzione di quanto e come il tempo possa cambiare l’interpretazione delle intenzioni nelle relazioni. Di come i sentimenti siano malleabili nella forma ma non nella sostanza, quando sono profondi. Di come il tempo, come spesso ripete il protagonista, “non esista” e la distinzione tra passato presente e futuro sia un’illusione, ma di come, contemporaneamente, il tempo porti alla deformazione inevitabile del modo di stare insieme.
La storia va avanti e indietro continuamente sia nella narrazione (passano vent’anni tra l’inizio e la fine del film), sia nel montaggio, che aiuta lo spettatore a confrontare, una scena dopo l’altra, le diverse dimensioni della relazione sentimentale di Anna e Marco.
Il montaggio a singhiozzo è la chiave narrativa che mette in risalto le distanze e le similitudini di un amore che scorre per due decenni. Lo esalta e lo ridimensiona, senza vanificarne il senso profondo che viene sviscerato sullo schermo nella sua quotidianità.
Valeria Volpini
È ancora ben salda la passione per la musica trasposta sullo schermo del regista australiano Baz Luhrmann che sceglie, per il suo ultimo lavoro, di depositare nelle sale la storia della vita e del mito di Elvis Aaron Presley.
Non è facile riuscire a traslare, con i limiti di un medium, tutta la grandiosità di un'icona immortale della musica e, quando un regista sceglie di cimentarsi in tale obiettivo, rischia di scontrarsi con la semiotica dell'idolatria.
Il mito di Elvis è ancora oggi imperituro. Ha pochi eguali nella storia della musica e forse anche dell'arte in generale. Parlare di un personaggio di questo tipo e scegliere cosa rappresentare e come disegnarlo non è quindi una scelta facile.
Luhrmann sceglie un attore professionalmente giovane (August Butler), con pochi film al suo attivo, capace di travalicare la dimensione del tempo e dello spazio e incantare lo spettatore, con un inganno consapevole che rende sfumati i contorni di realtà e fantasia.
La musica è il linguaggio del film, più delle parole della sceneggiatura piuttosto asciutta, in un valzer di due ore e quaranta che il protagonista e la sua arte ballano senza sosta, tra suggestioni pop ed episodi di ascesa e discesa personale della fragile anima del protagonista.
La voce narrante è quella del Colonnello Parker (Tom Hanks) storico manager di Elvis, reo di aver sfruttato l’immagine e i guadagni del suo cliente senza alcuno scrupolo, per tutta la vita dell’artista, senza dargli la possibilità di svincolarsi e interpretando il ruolo di un padre putativo dispotico, approfittando del flebile ruolo del padre reale nella vita del re del rock.
La figura dell’antagonista, così profondamente e spregevolmente umana e radicata nella centralità del conformismo americano degli anni 50, identifica la contrapposizione tra l’umano e il divino Elvis, il supereroe. L’amore per i fumetti e la grafica da storyboard, permeano l’immagine del protagonista fin dalle prime sequenze. La rappresentazione di una icona che sfiora l’idolatria divina partendo da una condizione misera e così profondamente terrena è immaginifica e riesce a unire l’aspetto pop e l’aspetto divino, in una coalescenza coerente con la storia personale ed artistica del protagonista.
Il primo incontro di Elvis con la musica è una epifania maestosa: il risultato di un’estasi mistica, una chiamata verso il sacro, il ritrovamento di un’anima e del suo “daimon”, con una danza estatica afroamericana in cui gospel, country, rock, rockabilly, si mescolano grazie alla sua voce e al suo ancheggiare perverso ed erotico.
La rivoluzione culturale che ha innescato la presenza di Elvis sulla scena dell’arte mondiale passa per tematiche di matrice sociale, sessuale, razziale, oltre che naturalmente musicale. L’ascesa e la discesa di un uomo e la nascita di un mito immortale che nell’immaginario collettivo è la matrice di uno stile, oltre che di un genere. E Luhrmann lo sottolinea, lo evidenzia in ogni scena, persino nelle più drammatiche, in un carillon di colori, di sfarzi, di luccichii che accecano lo spettatore ma non lo incantano. C’è, nella voce del Colonnello, la continua sentinella del baratro, il prodromo del exitus, l’inevitabile epilogo per rendere tale il mito. E poco importa se nella scintillante carrozzeria di una cadillac rosa si ha l’impressione di essere felici. Quello che si manifesta come realizzazione di un’ambizione è forse, a volte, il riflesso di chi è il fruitore del talento rivoluzionario di un artista iconico: il disperato bisogno di esprimere e dissetarsi dell’amore del pubblico. Tanto da morirne.
Valeria Volpini
Un godibile giallo è il primo lungometraggio diretto dal regista Tom George, che porta sul grande schermo la verve di una commedia tipicamente anni ‘50 ma dai sapori moderni.
Il film si apre in una sala teatrale, dove sul palco sta andando in scena la centesima replica di “Trappola per topi” di Agatha Christie. Lo spettacolo ha un così clamoroso successo che si sta pensando di farne un film diretto da Leo Kopernick (Adrien Brody) che è anche uno degli illustri invitati alla festa dopo lo spettacolo. Ed è in quell’occasione che, dietro le quinte, viene clamorosamente e misteriosamente ucciso. Toccherà all’ispettore Stoppard (Sam Rockwell) e all’agente Stalker (Saoirse Ronan) indagare sul caso.
Il mistero nel mistero, il gioco cinematografico di virare una ipotesi verso una conclusione e poi renderla inesatta, gestendo le immagini e la trama come un carillon di indizi forniti agli spettatori e ai poliziotti indagatori centellinandoli, rende la pellicola ritmata e incalzante. Il mondo è quello del giallo, del thriller, ma i toni sono da commedia. Leggeri.
Così come i generi si mischiano e si sovrappongono, anche i media si rincorrono: il cinema e il teatro fanno sfoggio di divertenti antinomie, portando sullo schermo continui colpi di scena.
E se il ritmo è incalzante, a volte la narrazione sfugge allo sguardo dello spettatore, che cerca continuamente il filo conduttore delle continue dinamiche che si presentano sullo schermo.
I costumi, i colori, le ambientazioni e anche qualche strumento visivo (come lo split screen) rendono omaggio a un tipo di racconto che ricorda i toni dei film degli anni ‘50, sentendone forse un poco il peso. Questa dicotomia tra comedy moderna e giallo britannico, seppure godibile, è infatti riuscita a metà.
Gli attori portano sullo schermo personaggi credibili e caratterizzati, facilitando lo spettatore a riconoscerne la personalità che non sembra importare alla narrazione ma la rende espediente per veicolare la trama verso i continui indizi che si presentano sullo schermo. Anzi, i personaggi sono quasi bidimensionali, funzionali al caso d’indagine.
Nonostante i difetti di fruizione, il film non annoia e l’epilogo è inaspettato e risponde alle regole del giallo, più della storia lo precede.
Valeria Volpini
La regista di Chocholat mette in scena una storia semplice ma dai tratti cupi e frenetici, come cupi e frenetici sono i desideri reconditi degli innamorati.
Sara (Juliette Binoche), una conduttrice radiofonica che si occupa soprattutto di integrazione razziale, convive da dieci anni con Jean (Vincent Lindon) un ex giocatore di rugby con un passato non ben definito di carcerato. Abitano in un moderno appartamento parigino, piccolo e luminoso; set delle scene principali della pellicola e metafora dell’interiorizzazione e dell’intimità dei sentimenti messi in scena dalla regista.
Un giorno, per caso, la protagonista incontra Francois (Gregoire Colin), l’uomo che aveva lasciato per il suo attuale compagno e responsabile lui stesso di averli fatti incontrare anni prima.
Viene, da subito, messa in scena la routine quotidiana dei due innamorati: una coppia solida, centrata, con poche ombre; se non quelle personali che s’intravedono ma non si manifestano mai sullo schermo.
La svolta narrativa avviene quando Francois propone un lavoro a Jean e lui lo accetta, costringendo Sara a fare i conti con una parte che credeva abbandonata della sua vita passata e svelando, al contempo, una ipostatica rappresentazione dei suoi desideri.
L’apertura della scena è in una fresca località marittima in cui i due protagonisti trascorrono- s’intuisce- una vacanza. Questo preludio, leggero e rilassato, si tuffa voracemente nel grigiore cittadino; tra i tetti di asfalto prospicienti il terrazzo vetrato dei due protagonisti.
La città rende l’uomo più solo. Vestito solo dei propri sentimenti e delle proprie relazioni più intime. Non lascia spazio alle esplosioni artificiose del sentimentalismo urlato e privo di intimità. E nella pellicola della regista francese Claire Denis l’intimità è il sottopancia che segue ogni scena. La camera entra sui corpi e sui volti degli attori come a volerne cogliere i sentimenti più raccolti, quelli che disarmano e umiliano, ma non vuole portare a compimento il compito. E’ discreta e insieme invadente. Insiste sui particolari delle facce, dei profili, dei corpi degli attori ma s’insinua dolcemente, senza perversioni.
E lo stesso fa la sceneggiatura, che si fa strada nel percorso filmico riuscendo a esplicarsi nei non detti, più che nei dialoghi palesati. I sentimenti sono introiettati e prendono corpo facendo lo slalom tra i clichè dei menage amorosi che riguardano i terzetti cinematografici. Le paure dei protagonisti vagolano tra le parole che sono misurate e centellinate, anche nelle scene più impetuose.
L’aspetto pruriginoso del tradimento femminile e del senso di colpa e d’impotenza che ne consegue viene qui messo da parte. C’è il tentativo di fare capolino in una storia comune, fornendo allo spettatore solo il tramite del presente. Pochi esterni, pochi riferimenti al passato dei protagonisti e solo pochi altri personaggi che escono dalla cerchia ristretta dei principali. C’è, per esempio, il figlio problematico di Jean, che vive con la nonna e che non riesce ad avere un rapporto sereno col padre, ma è più funzionale alla costruzione del personaggio principale che elemento dinamico della narrazione.
E se la sceneggiatura, le inquadrature, la fotografia, i movimenti di macchina, le performance degli attori, la colonna sonora, forniscono l’esempio di un cinema elegante, autentico, senza fronzoli artificiosi; sfugge un po’, agli occhi e alla mente dello spettatore il senso finale dell’intenzione registica che resta una fuoriclasse nelle storie familiari ma si affaccia troppo dolcemente su uno scenario che avrebbe bisogno di svolte emotive più utili al racconto che ne vuole trarre.
Valeria Volpini
L’opera seconda del giovane regista Gianluca Mangiasciutti è un thriller ambientato nella provincia nordica di una Italia cupa, grigia, isolata. Eterea e allo stesso tempo profondamente concreta, con le sue fabbriche e i suoi tir.
La storia si spande su tre dimensioni temporali: la prima narra l’antefatto che sarà anche l’espediente narrativo per lo svolgimento del corpo della trama nella parte centrale, a cui farà seguito l’epilogo.
In un bosco di una imprecisata provincia nordica Irene, una bambina di otto anni, sta raccogliendo funghi con il papà che, improvvisamente, viene investito mortalmente da una macchina. La bambina accorre sulla scena ma il volto del guidatore è nascosto dal riflesso del finestrino alzato che le fa solo intravedere i lineamenti sbiaditi per pochi istanti, prima della fuga dell’omicida.
Questo evento traumatico porterà la bambina, poi diciottenne (Aurora Giovinazzo), a rendersi prigioniera di una vicenda da cui non riuscirà a scollarsi e che le comporterà l’alterazione del suo modo di relazionarsi con gli altri e con il resto della famiglia. Irene, invasa dal senso di colpa per non ricordare nettamente il volto di chi le aveva portato via il padre, non riesce ad esprimere le proprie emozioni senza trasformarle in sferzate rabbiose di manifestazioni emotive. Implacabili e verso tutto e tutti: in piscina, verso l’avversaria durante la gara di nuoto; in casa, verso la sorella minore, figlia del nuovo compagno della madre e verso la madre stessa che, a un certo punto, decide di mandarla via proponendole di trovare un lavoro. Irene si trasferisce allora a casa della zia, proprio nello stesso paese che, dieci anni prima, era stato lo scenario dell’incidente mortale di suo padre.
E il lavoro che trova è, per uno strano gioco del destino, come operaia nella fabbrica il cui proprietario è Michele, quello stesso pirata della strada il cui volto sfocato era rimasto incastonato nella testa della giovane protagonista che lo ricercherà per dieci anni in tutti gli uomini che si troverà di fronte, imprimendolo su un blocco da disegno e cercandone i lineamenti più definiti.
Michele (Lorenzo Richelmy) è il contraltare della rabbia cieca e adolescenziale della protagonista femminile. E’ invorticato in una vita che non avrebbe voluto ma che sceglie di condurre per scontare una pena che, scappando, aveva eluso. E’ consapevole di non essere più padrone della propria esistenza, accompagnata costantemente dal senso di colpa che si tramuta in possibilità di redenzione quando incontra Irene, che lui sa essere la figlia dell’uomo che, dieci anni prima, ha indebitamente ucciso a causa dell’incoscienza dei suoi 20 anni.
I due protagonisti sono abitati ognuno dal proprio senso di colpa che entrambi custodiscono come un oggetto da sublimare. Quando Michele inizierà a seguire, controllare Irene, come una figura protettiva che la possa salvare dallo stesso destino beffardo che lo aveva reso protagonista della sua condizione di orfana, la sua vera anima sopita comincerà a riemergere dalle acque profonde della sua identità fantoccio. Le stesse acque che per Irene rappresentano, con il nuoto, una immersione nella sua adolescenza turbata dal trauma. Michele incoraggerà infatti Irene a non abbandonare il nuoto, l’unica dimensione dove la ragazza riesce ad esprimere le proprie emozioni e dar loro sfogo senza una rabbia disfunzionale.
Il regista riesce a rendere credibile, grazie soprattutto all’interpretazione dei due bravi protagonisti, l’esegesi psicologica dei due personaggi, senza approfondirla più del necessario funzionalmente alla storia raccontata. La regia è asciutta e i colori delle scene grigi, freddi s’inoltrano tra le crepe delle loro anime tormentate. La misura c’è e salva la pellicola che finisce per risultare un thriller che scimmiotta lo stile dello stesso genere oltreoceano: nel linguaggio, nei personaggi, nella scrittura, in alcuni set. E dove l’imitazione prende il posto dell’omaggio, chi ne fa le spese è l’autenticità dell’opera che viene un po’ sacrificata per far posto a delle velleità non necessarie.
Valeria Volpini
L’ultimo lavoro di Alessio Cremonini, regista del precedente “Sulla mia pelle” che raccontava il celebre caso di cronaca di Stefano Cucchi, sposta ora la propria attenzione sul terreno bellico della Siria (già esplorato con il precedente “Border”), al tempo della presa di Kobane da parte dei curdi contro l’esercito del’ISIS, nel 2015.
Lo schermo si illumina con il primo piano della protagonista: Sara Canova (Jasmine Trinca), seduta su un pavimento di una stanza che sembra essere un bagno. S’intuisce poco dell’ambiente ma la camera si sofferma sul suo viso piangente, disperato. Ecco quindi che la scena cambia e ci mostra un flashback di 105 giorni prima, quando la donna che poco prima avevamo visto disperarsi in quel primo piano struggente e senza soluzione, sta intervistando una giovane combattente curda che le mostra fiera i motivi della sua militanza con queste parole: “Combatto per i curdi, per la libertà e per le donne. Perché noi donne siamo il principale nemico dell’Isis. Ma l’Isis non è l’unico problema. In Medio Oriente, se sei una donna, devi imparare a difenderti il prima possibile. Qui, la maggior parte dei regimi è basata sulla sottomissione, sull’oppressione delle donne. È per questo che le uniche persone che possono cambiare questa mentalità sono le donne”.
Si apre, con queste parole, calme, serafiche espresse con la freddezza fiera di una militante risoluta ma al tempo stesso consapevole, uno dei filoni principali della pellicola di Cremonini: il femminile nell’accezione antitetica di una occidentale e una estremista asservita al Califfato islamico.
La narrazione prende forma quando, mentre sta lavorando e sta esplorando una chiesa cristiana abbandonata e semidistrutta, la giornalista viene rapita dall’Isis che ne fa un ostaggio da lì per i successivi 141 giorni. Ma Sara non può abitare nello stesso luogo in cui sono presenti degli uomini, così viene ospitata da Nur (Isabella Nefar), una foreign fighter cresciuta a Londra che ha sposato, oltre che la causa del califfato, anche un mujahidin che la sottomette al suo volere e di cui è perdutamente innamorata.
Le due donne iniziano una convivenza che ne mette in risalto le differenze. Da una parte c’è il femminile occidentale: duro; con un forte senso di riscatto. Indipendente e concreto, che identifica la propria spiritualità senza dover passare necessariamente per il canale della religione.
Dall’altra parte c’è il femminile islamico. Anzi, estremista: asservito all’uomo che è considerato “un essere superiore”. Devoto e manicheo, che non ammette sfumature di confine sulla condotta morale (religiosa): propria e degli altri, a cui non è data possibilità di scelta.
C’è nella pellicola un continuo sguardo divino: la camera scruta dall’alto i personaggi come un Dio inflessibile che mostra il proprio volere senza restrizioni: un infedele decapitato, il sogno della conversione, le preghiere verso la Mecca, sono scene osservate dall’occhio rigoroso del regista che ne esplicita sullo schermo il senso ieratico senza orpelli ma con disincanto. Con discrezione ma autorevolezza.
L’uomo è sopraffatto e lo spettatore si sente parte di questa sopraffazione: la guerra, la punizione divina, il vacillare della speranza della liberazione dalla prigionia, il senso d’impotenza per la spietata uccisione di altri ostaggi... E questa sopraffazione non ha risoluzione, né per i personaggi, né per lo spettatore.
Il regista non vuole necessariamente giungere a una qualsivoglia conclusione. Vuole raccontare, informare senza giudicare- usando le parole della protagonista- un mondo di antinomie e di contraddizioni, in cui la donna è protagonista pur restando nell’ombra sgualcita di un ideale che nulla o poco ha a che vedere con lo stereotipo di genere o con un’appropriazione culturale facilona.
Valeria Volpini