Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) è una persona ai margini della società, in una Gotham City in cui puoi morire sul marciapiede ed essere tranquillamente pestato e scavalcato. Col sogno del cabarettista e maledetto da un'involontaria risata isterica, è convinto di vivere in una perfetta tragedia.
Todd Phillips, regista della trilogia della Notte da Leoni, prende qualche spunto dalle fonti fumettistiche e si ispira a materiale quale Toro Scatenato o Taxi Driver, ma scrive una genesi del Joker prettamente originale, cercando un nuovo modo di raffigurare l'ascesa verso la pazzia e l'alienazione totale.
Con un taglio registico cupo e opprimente, egli si focalizza sulle ossessioni e le psicosi del suo protagonista, in un contesto di degrado mentale e urbano indissolubilmente legati; il Joker incarna la propagazione del caos nelle strade di Gotham City in una esclation sempre crescente di drammaticità.
Il suo percorso da reietto a villain conclamato è senza dubbio uno dei piú riusciti dell'intero contesto fumettistico cinematografico, ed è scandito da momenti di apprensione e inquietudine che arrivano potenti e viscerali. Grazie ad uno sguardo intimo, personale, ma allo stesso tempo diretto e crudo, lo spettatore è investito dalla sofferenza e dalla lotta emotiva del protagonista, e avverte distintamente la sua voglia di un amore mai ricevuto, né in contesti sociali né famigliari.
Ma, come a dare un po' di respiro in uno spettacolo troppo denso di contenuti, assistiamo inaspettatamente anche a situazioni ironiche e inquietantemente divertenti.
Tutto questo incredibile impianto narrativo non sarebbe possibile senza una sceneggiatura scritta eccellentemente, che conferisce spessore ai dialoghi e alle vicende, e usa precise svolte narrative per caricare di tensione la pellicola. Il contesto del film è poco intrecciato con la storia dell'uomo pipistrello, ma alcuni importanti personaggi sono inseriti ottimamente nell'economia della trama, e il pathos verso uno snodo chiave in particolare del passato di Batman è gestito in maniera impeccabile.
Ma il vero motivo dell'encomiabile rappresentazione di questo fantastico Joker è assolutamente l'interpretazione di Joaquin Phoenix. Si può dire senza mezzi termini che il suo protagonista siede allo stesso tavolo del pazzo mascherato di Jack Nicholson e del compianto Heath Ledger, dando un'impostazione personale e ulteriormente diversificata a un soggetto già ampiamente ricalcato. E' stato necessario perdere 20 chili per raggiungere la conturbante forma ossuta e scarna che riveste nel flm, ma il lavoro attoriale è stato arricchito anche da un meticoloso lavoro sulle disturbanti espressioni e sulla già iconica incontrollabile risata. Ed anche da una messa a punto sulle movenze, accattivanti e sinuose. Non c'è alcun dubbio che una prova del genere valga una seria ipoteca sull'Oscar come miglior attore.
Da citare ovviamente anche una splendida parte di Robert De Niro, che cura con la solita estrema professionalità e abilità, dando profondità e grandezza nonostante il limitato minutaggio a sua disposizione.
Impressionante infine la scenografia dei contesti urbani in cui Arthur Fleck è vittima della violenza della città, in una ricostruzione degli ambienti metropolitani tratti da contesti di una New York anni '70, cosí come anche i costumi dell'epoca e il trucco, che conferiscono ulteriore spessore alla già densa atmosfera.
Todd Phillips in sostanza confeziona uno dei migliori cinecomic di sempre, arricchendo un'icona cinematografica di questo calibro con una memorabile interpretazione attoriale e un contesto narrativo straordinario. Un film assolutamente consigliato a chiunque, che trascende il suo universo fumettistico di origine e si confronta con una cinematografia moderna e matura.
Omar Mourad Agha
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In una Gotham ambientata agli inizi degli anni 80 (in particolare nel 1981), evocante una New York dalle tinte noir del cinema di Scorsese, si svolge la vicenda che vede protagonista Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), un aspirante comico dal turbolento passato familiare che sbarca il lunario con un lavoro da clown che gli permette di sopravvivere e di prendersi cura della madre malata.
Quanto la vita possa essere una commedia delle parti e un ambiguo coacervo di paure, incertezze e rivendicazioni è una consapevolezza che rende profondamente umani chi la raggiunge. Tra un complesso edipico malamente sublimato e una improbabile sintomatologia psichiatrica che lo costringe a scoppi di una risata scrosciante e inadeguata, Arthur Fleck sembra arrivare a tale consapevolezza in un momento della sua vita in cui ciò che lo rende umano lo allontana, allo stesso tempo, da ecumenici sentimenti di pietas.
Il viaggio dell’eroe che Todd Phillips racconta in “Joker” è uno spietato viaggio interiore di un personaggio che prima (e qui mai) di essere un cattivo da fumetto è un esempio di una tragica parabola discendente che raggiunge il suo climax nella esaltazione della vendetta. Una mirabolante crescita emotiva che parla, urla, allo spettatore che non può fare a meno di prendere una netta posizione a favore del protagonista in un moto di empatia e protettività che nella storia gli sono continuamente negate.
La crescita emotiva di Arthur, che nella definizione della sua nuova identità diventa Joker, è una discesa agli inferi; uno psicodramma permeato di citazioni (dal cinema muto di Chaplin e Keaton al Joker di Heath Ledger) e che rivolge la sua perturbante evoluzione nel rapporto verso l’altro. Si potrebbe definire una decrescita emotiva che punta la sua direzione verso l’involuzione della società nei suoi lati più avvizziti e spigolosi, nella sua drammatica insofferenza verso la fragilità della diversità.
“Il lato peggiore della malattia mentale è che la gente si aspetta che tu ti comporti come se non l’avessi” dice il Joker di Phillips, il cui fisico emaciato e il cui ghigno sanguinolento sintetizzano la metafora della follia umana ravvisata ancor più che nella malattia mentale del protagonista, nello stato emotivo del ferale e aggressivo universo sociale che lo circonda.
La valenza del film non trova il suo spessore nella trama o nell’azione, che è quasi assente, ma nella capacità di raccontare come si possa rendere diabolico l’umano e umano il diabolico e di come entrambe le dimensioni siano profondamente connaturate con la capacità del singolo di relazionarsi col prossimo e con l’ambiente in cui è immerso (“Ora devono rendersi conto che esisto” dice Arthur).
L’esorcizzazione delle fragilità mentali, le cui espressioni trovano la massima rappresentazione nell’interpretazione magistrale di Phoenix, prendono forma con una violenza iconografica rappresentata con un gusto estetico e una narrazione che alterna momenti di delicata dolcezza ad attimi di puro splatter.
Quello che Philips racconta sullo schermo non è un antieroe da fumetto, né il contraltare del protagonista “buono” da combattere, ma un personaggio che ricorda i tormentati protagonisti delle tragedie di Euripide, con una morale subissata dalle continue vessazioni di una vita ingiusta ma profondamente terrena.
Valeria Volpini