Sono due gli elementi che rendono un esperimento cinematografico riuscito e sfaccettato: l’ambizione e il coraggio. Ancora ben pochi film in Italia hanno il pregio di accettare nuove sfide, di mettere in discussione i dettati stilemi della narrazione. Matteo Rovere è uno dei pochi che ha deciso di superare quegli stilemi e di spingersi oltre. Il primo re è il più diretto tentativo di estensione e fusione di nuovi percorsi narrativi. Attingendo ad un’antichissima culla di mitologia e storia, Rovere dirige un film in cui viene raccontato ciò che avvenne prima della fondazione di Roma, prima della nascita dell’impero più vasto e imponente di sempre, ossia quello romano. E’ la storia di due gemelli, Romolo e Remo, che vivono nei pressi del fiume Tevere allevando capre. A seguito di una violenta alluvione, i due si ritroveranno prigionieri sulle rive della città di Albalonga, luogo dei Guerrieri di ferro. Costretti a prendere parte ai tremendi culti della Triplice Dea, Remo e Romolo riusciranno a sfidare la sorte, combattendo contro le guardie e scampando alla morte assieme ad altri fuggitivi. Ma il volere implacabile degli dei riserverà loro un arduo percorso, che avrà fine solo con lo spargimento del sangue fraterno. La narrazione di un racconto mitologico risulta da sempre terreno di difficoltà in virtù dell’enorme quantità di simboli e significati a cui si deve attingere e di cui si deve necessariamente tener conto. Il mondo ricostruito da Matteo Rovere è il risultato di un durissimo lavoro di analisi ed edificazione, messo a punto da un cast tecnico di tutto rilievo. Partendo dai dialoghi, ci si rende conto sin da subito della vastità di sfumature e dell’insormontabilità di una lingua antichissima come il protolatino. Attraverso fonti contemporanee al periodo storico in cui si pensi siano vissuti Romolo e Remo, un gruppo di semiologi dell’Università La Sapienza, ha eseguito un lungo studio sulla lingua fon-dativa, pre-romana. Una sfida complessa che ha poi coinvolto in fase di produzione gli attori protagonisti, alle prese per la prima volta nella loro carriera con un copione in protolatino. Una scommessa vinta sia per Alessandro Borghi che per Alessio Lapice, intensi e coinvolgenti in un quadro scenico che in alcuni momenti ricorda da vicino il viscerale Apocalypto di Gibson. Se infatti vi è un aspetto che più si avvicina al cinema internazionale è proprio quella cura riservata agli scontri fisici nel corso del film. Le scene di combattimento sono rese con rara maestria quasi confondendosi con il cinema hollywoodiano. Ed è un peccato che non siano più presenti nel corso del film, apparendo solo in tre occasioni. Matteo Rovere infatti dirige un’opera selvaggia e spesso cruenta, che avrebbe giovato di più azione e scontri soprattutto nell’ultima parte, che se confrontata con il resto del film risente di penuria di ritmo, accusando una conclusione troppo spedita. La fotografia, impiantata sull’uso della luce naturale, se da un lato restituisce un quadro di impianto naturalistico, dall’altro rende meno vigorosa l’immagine, la quale sovente appare quasi cineamatoriale. Il primo re, in sala a partire dal 31 gennaio, è un film che nonostante alcune debolezze interne, riesce a fondere in modo impeccabile la riflessione sul mito e sull’impenetrabilità del destino, all’azione brutale e feroce. Un lavoro che si lascia apprezzare non solo per il coraggio, ma anche per una spettacolarità ancora aliena nel cinema italiano.
Giada Farrace