Nella Polonia del dopoguerra e della Guerra Fredda (dalla fine degli anni ’40 ai primi anni ’60) è molto difficoltoso rialzarsi. Ma in qualche modo bisogna reagire e per riportare la gente a credere nello Stato si organizza una compagnia di canto, con tanto di balli popolari. Dal folklore si cerca di restituire al popolo quelle sensazioni, ormai perdute, di amore per la patria e di voglia di ricominciare, che però sotto sotto sanno tanto di propaganda. Durante le audizioni per entrare a far parte della Mazurek Ensemble, l’affermato pianista Victor (Tomasz Kot) si invaghisce della proletaria Zula (Joanna Kulig). Ne nasce un amore passionale, ma tormentato. La loro storia prenderà, dapprima, la strada verso l’occidente, per poi ritornare a casa base. Parigi, città dove il musicista trova la sua dimensione ideale, lontano dal regime, non sta bene a Zula. Ma il loro amarsi è come poter respirare dopo anni di apnea forzata: è vitale. Si rincorrono di città in città senza mai veramente fare famiglia. Sono sempre ostacolati da qualcosa: di matrice diplomatica o da cause che riguardano la sfera interiore. Questa impossibilità di amarsi è sviscerata tramite una mise-en-scène originale, composta da diverse cartoline in movimento, momenti emblematici della loro esistenza. Punti di svolta focali contraddistinti da romanticismo, tensione e da un senso di annullamento perfettamente incastonati in un bianco e nero, tanto affascinante quanto nebuloso.
Pawlikowski torna nella sua Polonia, dopo averci ambientato anche il precedente Ida (Oscar 2015 come Miglior film straniero). L’autore ha dichiarato apertamente che per la realizzazione del film si è ispirato alla vita dei propri genitori. Cold War, in concorso al Festival di Cannes 2018, vince (meritamente) la Palma per la Miglior Regia. E se ci fosse stato un premio per la fotografia sarebbe andato a Lukasz Zal, fido collaboratore del regista (nomination Oscar per Ida). Le sue luci e i suoi bui portano lo spettatore lì, a vivere pienamente quel periodo storico.
In questo melodramma colpisce l’estetica (fiore all’occhiello del regista). Una bella, nel senso più aggraziato della parola, regia. Il fascino delle immagini, in contrasto con l’argomento trattato, è il vero punto di forza di Cold War. Opera ipnotica, concentrata e marmorea. Pawlikowski dimostra lucidità nel dirigere e narrare. Il film ha i giusti tempi e la lunghezza ridotta, marchio di fabbrica dell’autore, calza a pennello con lo sviluppo narrativo: ago di una puntura che entra ed esce con estrema rapidità (ma il suo compito lo svolge appieno), lasciando indelebilmente una sensazione di dolore acuto, sia per l’impossibilità di amare, sia per il dolore che subisce una Polonia depressa e smarrita. A Pawlikowski gli si potrebbe imputare di non essere completamente empatico nello sviscerare i sentimenti più caldi; questo suo modus operandi, dal climax tenuto sotto zero, non è per forza sinonimo di deficit. Anzi è una peculiarità, che lo accomuna ad un altro grande cineasta contemporaneo: David Fincher (Seven, Gone Girl).
Con questo film il regista avvalora il suo amore per la patria, messo in scena con intermittenza, ma mai interrotto. L’amore tra Viktor e Zula, che subisce ripetute tamponate di cloroformio, è un desiderio anestetizzato, non per questo meno profondo ed essenziale. E’ l’icona perfetta per dire allo spettatore che l’amore per la propria terra non muore mai, ma può vivere momenti di sbandamento.
Vedendo Cold War sembra proprio di sfogliare un album di fotografie di una vita di coppia martoriata. Critica non troppo velata al partito comunista di quella Polonia stretta in una gelida morsa. E probabilmente, dopo la visione del film, che non dovete perdere, capirete anche l’attuale e marcata disapprovazione verso le istituzioni dei giorni nostri, prive di tangibili e benevole speranze.
David Siena