Decidere di andare a vedere il quarto film del regista francese Kechiche è stato per certi versi automatico, consequenziale.
Non lo stesso scriverne il commento che solitamente elaboro poche ore dopo la visione.Ci ho messo circa tre settimane. Non è facile scrivere di questo film che è assolutamente fisico, quasi statico nella sua mancanza di dinamicità, e che ti coinvolge in quanto spettatore, e ti mette spalle al muro in quanto “voyeur” pagante.Dopo la bellezza fresca, vitale, folgorante di “Tutta colpa di Voltaire” e “La schivata” è arrivato “Cous cous” opera matura sull’integrazione familiare-razziale e non solo.Ora il film più “difficile” un biopic particolare, sconosciuto ai più: la storia della giovane Saartjie Baartman, ribattezzata la 'Venere Ottentotta'.
Portata in Europa, fu mostrata come fenomeno da baraccone in Inghilterra, Olanda e Francia. Divenne poi motivo di studio per scienziati e pittori, e fu utilizzata anche come oggetto sessuale dalla ricca borghesia del tempo per poi morire drammaticamente e in solitudine a Parigi nel 1815.Ma non finisce qui: da morta gli scienziati ottengono il suo corpo, ne ricavano un calco in gesso, che verrà osservato e conservato insieme allo scheletro e ai barattoli con il cervello e i genitali in formaldeide per quasi due secoli al Musée de l'Homme e restituiti finalmente al Sudafrica solo nel 2002.
Dicevo prima del coinvolgimento sotto forma di spettatore passivo al dramma sociale che viene narrato dal regista franco-tunisino, ebbene la nostra responsabilità culturale, quella del mondo occidentale intellettualmente evoluto, nel dramma di Saartjie è totale.Non si vede nel film una sola persona che si sottragga al ruolo assunto sia esso di spettatore, che di consumatore o ancora di studioso o artista.Se in “The Elephant man” l’ignoranza della povera gente porta a sfruttare l’attrazione della malformazione vi è per contraltare una classe eletta, culturalmente evoluta che ne percepisce il lato umano, poetico, intelligente: in sostanza “scopre” John Merrick e non “l’uomo elefante” soprattutto nelle figure del Dottor Treves e della Signora Kendal.Qui no. Anzi i dottori se ne accaparrano il lato animalesco e solo a quello sono interessati, così come le ricche e lascive platee da salotto.Il dito puntato di Abdel Kechiche è totale: assenti le trovate cinematografiche che in genere addolciscono la pillola come l’uso di musiche sentimentali o inquadrature ammiccanti.Non ci risolleva nemmeno vedere scorrere nei titoli di coda sulla parte sinistra dello schermo le immagini autentiche del ritorno in Sudafrica dei poveri resti di Saartjie Baartman.Non è affatto liberatorio, ma è l’ennesimo, assordante atto di condanna.Alla fine esco non emozionato ma tramortito, sconfitto.Sconfitto dalla Storia e da chi la racconta senza mediazioni.
Marco Castrichella