Fuoritraccia

Newsletter

Messaggio
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Home » News » Info
A+ R A-
Info

Info

E-mail: Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

12 anni schiavo

Domenica 02 Febbraio 2014 15:53 Pubblicato in Recensioni
Quanto è illuminante quel grande monomaniaco di Harold Bloom, il bardolatra per eccellenza, quando parla di Shakespeare!
A lui, in particolare con la creazione di Amleto, attribuisce il merito, fra le altre enormi cose, di rispondere al nostro “bisogno di identità” e a ciò i filosofi attribuivano al Socrate secondo Platone o a Gesù, secondo Marco, un personaggio letterario, venerato come Dio. Amleto, secondo Bloom, è l’autocoscienza dell’occidente e Orazio lo perdona per indefesso amore, noi lo perdoniamo perché sappiamo che potremmo essere come lui, anzi no, una parte piccola di quella grande consapevolezza. Ma potremmo essere anche come Riccardo III che non esita ad ammazzare bambini che si frappongono fra sé e ciò che va fatto.
La consapevolezza di Amleto è quella degli impulsi nietzschiani che straziano l’essere umano fra una trascendenza impossibile e una inaccettabile immanenza. Quella di Riccardo è diversa, è una morale dell’utile che non ci è così lontana: le conosciamo bene quell’avidità, quella bramosia, quella volontà di riscatto, costi quel che costi. Non faremmo (non faremmo?) come lui, ma sappiamo di cosa si tratta, perché la dicotomia buono/cattivo è roba da talk show e la morale, Kant ce lo insegna, è una cosa seria.
“12 anni schiavo” che non ha la grandezza intimista e dolorosa di “Shame” né la forza visiva dirompente dei liquami desadiani di “Hunger”, è però un film profondamente shakespeariano e dunque, come naturale conseguenza, antiretorico, riuscito.
Senza voler dimostrare, McQueen mostra: mostra un uomo nero, ma libero (ciò non è antistorico, ma dipendeva dalla legge dei singoli stati), a cui nulla cale della sorte di uomini neri come lui, ma incatenati. Mostra uomini bianchi nell’atto dello scambiarsi la mercanzia, privi di compassione. E poi, dopo circa un’ora di narrazione, sposta la lente sul vero protagonista del film, anche solo in virtù dell’ennesima gigantesca, mimetica performance di Michael Fassbender, della sua storia di neri: l’uomo che si pensa come bianco, lo schiavista atroce, il vigliacco eugenetico della frusta. Tuttavia lo eleva, lo rende altro da quella crudeltà che sferza, più violenta ancora, nei primissimi piani insistiti, dolenti di Mr. Epps: lo rende umano, simile a noi, fisico e terragno, persino, inconcepibilmente, seducente in quella fisicità ferina.
Non lo assolve, chiaro. Come potrebbe? 
Il cinema di McQueen, del resto, non ha bisogno della lezione morale, dell’enfasi, delle sottolineature drammatiche e neppure dell’overacting, abiurato in nome di una compostezza formale impeccabile, ancor più straziante nella sua limpida dignità: non ce l’aveva quando raccontava le gesta erotiche di Brandon Sullivan e neppure, narrando la salita al laico Golgota di Bobby Sands, colui che temeva la morte, ma non aveva paura di morire.
Ma come quelli ci parlavano, chiaro e forte, Edwin Epps ci parla. Nella sua scissione profonda fra subcultura della razza e natura delle passioni, una divisione che ne acuisce la rabbia, ma, al contempo, il dolore, “12 anni schiavo” racconta un eterno presente, guardandoci dritto negli occhi, non delegando nulla al fuori scena o a qualche rassicurante conversione. La poltroncina sotto il sedere dello spettatore deve bruciare perché non è certo cinema da salotto questo: è piuttosto cinema di urgenze, di conflitti vividi, come il rosso-arancio della fotografia, allo stesso tempo sudata, marcia e splendidamente caravaggesca. 
Cercare qui una trattazione pedissequa sulla schiavitù sarebbe come cercare in “Amleto” solo una disamina sulla corruzione, insita in ogni umano potere, tralasciando i becchini, Orazio, Ofelia. Tralasciando l’essenza vera di Amleto.
E risulta dunque funzionale, quasi doveroso, senz’altro logico, dopo tanto dolore, il discusso deus ex machina, inserito repentinamente a risolvere una “piccola” vicenda biografica: lo faceva anche Euripide, non a caso il più realistico e simpatetico dei classici greci.
Perché le schiavitù invece, lo cogliamo negli occhi splendidi di Solomon (eccellente il raffinato interprete londinese Chiwetel Ejiofor) , e lo sappiamo bene, guardando alla storia, anche a quella del nostro tempo, non sono mai finite.
 
Ilaria Mainardi

American Hustle

Domenica 02 Febbraio 2014 00:47 Pubblicato in Recensioni
Dimentichiamoci gli addominali scolpiti di Batman. Pensiamo a Christian Bale lardoso e con i capelli posticci. Perché così si presenta in American Hustle. Lui, Irving Rosenfeld, coperto dalla sua catena di lavanderie, è in realtà furbo e imbroglione, commerciante di quadri falsi ed esperto in truffe alla povera gente. Affiancato da Sydney Prosser (Amy Adams) sua amante e compagna d’affari dalle scollature mozzafiato. Entrambi finiscono in un giro d’imbrogli più grande di loro, ideato dall’fbi con lo scopo di incastrare mafiosi e pezzi grossi del governo. La manovra è portata avanti dall’agente Richie DiMaso (Bradley Cooper) spesso senza approvazione dei colleghi. I suoi ingressi a petto scoperto e riccioli cotonati lo rendono folle e a tratti incompreso. Sente di avere la situazione in pugno e non recede mai dal passo successivo. 
Il caso coinvolge tutto il resto del cast: Jennifer Lawrence, nei panni di Rosalyn, moglie isterica ed egocentrica, Jeremy Renner, è Carmine Polito, sindaco-eroe di Atlantic City che ha a cuore la gente del suo paese ed agisce per loro, ma non si tira indietro se ha qualche affare sottomano. A sorpresa, nel retro di un casinò, un De Niro in un mini dialogo in arabo. 
Attori effervescenti, come la sceneggiatura, firmata da Eric Singer, che ripercorre il periodo dello scandalo Abscam a New York a metà anni settanta, e fa sconfinare il dramma in pura ironia, le bugie in pura verità.
Ridicolezza ed eleganza si fondono alla perfezione rendendo unico ogni personaggio. Ognuno, a suo modo, contribuisce al delirio dei fatti presentatici. 
E se “l’apparenza inganna” appunto - estensione del titolo inevitabile - l’apparenza è tutto ciò che conta in questo film, che sia dei personaggi o di una farsa scenica, purchè sia apparentemente affascinante.
American Hustle centra in pieno le tematiche di interesse collettivo, coniugandole a humor americano e infiltrazioni italianeggianti.
David O. Russel alterna scene di gangster moderno, a scorci di vita privata al di sotto delle apparenze: rapporti familiari indefiniti, distrazioni in casa, fughe di sentimenti.
Geniale il gioco di truffe che si scompongono a matrioska…e a proposito di bluff, questo film ha tutte le carte in tavola per tenere lo spettatore incollato allo schermo e alla poltroncina.
La maestria di David O. Russell è vincente, fino all’ultimo dettaglio prima dei titoli di coda.
Egli non fa in tempo a respirare dagli apprezzamenti delle ultime due regie precedenti, The Fighter del 2010 e Il lato positivo 2012, che già sforna un nuovo successo. Mantiene stretti i suoi attori favoriti e li ricicla, come le sceneggiature, riadattate ai suoi film e riportate nel contemporaneo, da trame di romanzi e di storie già sentite. Ci mostra altre visioni, trasforma un super eroe in un truffatore e la ragazza di fuoco in una svampita signora, e la Lawrence ci riesce benissimo.
Insomma un O. Russel che pure se agli esordi riesce pienamente a guadagnarsi spazio tra i grandi nomi. Del resto questo mestiere è per chi fa magia e lui, come mago, ci piace.
 
 
Francesca Savoia
 

C'era una volta a New York

Domenica 02 Febbraio 2014 00:38 Pubblicato in Recensioni
1921. Ewa Cybulski (Marion Cotilard) arriva dalla Polonia in America con la sorella Magda. Giunte a Ellis Island, Magda viene messa in quarantena per la tubercolosi ed Ewa si ritrova a Manatthan sola e senza un posto dove andare. Riceverà aiuto da Bruno (Joaquin Phoenix), magnaccia ubriacone, che la spingerà a prostiuirsi con la promessa di farle guadagnare abbastanza soldi per liberare la sorella. 
L’arrivo di Orlando (Jeremy Renner), affascinante illusionista cugino di Bruno, restituirà ad Ewa la speranza di un futuro migliore. 
Fra Bruno e Orlando non corre buon sangue a causa di vecchi rancori e il loro rapporto rimarrà ulteriormente compromesso quando finiranno per contendersi l’amore di Ewa. 
 
James Gray mette in scena un melodramma post-moderno, contaminato da quelli che sono i temi trainanti del suo cinema: la famiglia e il labile confine fra bene e male. Così facendo stravolge il genere di riferimento (come già fece in Two Lovers, liberamente ispirato a Le notti bianche di Dostoevskij); mentre nel melodramma classico infatti i personaggi sono tratteggiati in modo netto e sono quasi sempre suddivisi in modo manicheo tra buoni e cattivi, in questo film sono caratterizzati, spesso un po’ superficialmente, da un’ambiguità di fondo che la piega degli eventi porterà a galla.
Marion Cotillard non patorisce una “performance sublime” nonostante abbia imparato a parlare il polacco, anzi, il suo personaggio, nella seconda metà del film, è costretto a riciclare sempre le medesime frasi (nei medesimi intenti) ripetute a pappagallo come se fossero lo “spiegone” di una soap opera. 
Joaquin Phoenix, ormai attore feticcio di Gray, dimostra sempre un’intensità grandiosa nella ruolo del tozzo ubriacone. 
La suggestiva fotografia di Darius Khondji, ispirata ai dipinti di Everett Shin e a quelli di George Bellows, scava nella sporca realtà di un basso varietà itinerante, creando un’atmosfera mitica e al tempo stesso austera. Per il resto però il film fa fatica a colpire, nonostante segua fedelmente uno dei tratti peculiari del melò: mirare ostinatamente a commuovere il pubblico. 
Il vero difetto del film di Gray non sono tanto i dialoghi stucchevoli, la totale inadeguatezza di Jeremy Renner nel contesto degli anni Venti, le artificiose trovare strappalacrime e nemmeno l’incapacità di seguire un fil rouge fino alla fine (l’illusorietà del sogno americano? La religione?), ma il suo svolgimento essenzialmente troppo noioso. 
Come se non bastasse, l’utilizzo della incipit fiabesco “C’era una volta ” in omaggio ai capolavori di Sergio Leone, non aiuterà gli incassi del film, come pensano furbamente i distributori italiani. Anzi, favorirà solo le crescenti critiche di Hypster incazzati che rivendicheranno il titolo originale (The Immigrant), vedendo la traduzione come un’associazione inadeguata e un compromettere la stessa opera, messa in scena poco riuscita dell’illusorietà del sogno americano con tanto di morale francescana in chiusura. 
 
Angelo Santini 
 

Sangue

Sabato 18 Gennaio 2014 15:26 Pubblicato in Recensioni

Trasuda storia, amore, amicizia e arte la nuova pellicola di Pippo Delbono, “Sangue”, un documentato in cui l’attore e il regista italiano mette allo scoperto anima e corpo.

L’ultima opera del regista di “Amore Carne” può essere ‘analizzata’ e guardata da diversi punti di vista. 
In primo luogo è un viaggio di apertura e di riscoperta di se stessi: Delbono racconta l’amicizia nata con Giovanni, un ex brigatista, finito in carcere per più di vent’anni.
Ad accomunarli l’amore per due donne: Margherita, la madre di Delbono, e Anna, l’amante di Giovanni, un amore lungo una vita. 
Dal loro incontro nascono lunghe chiacchierate, nuovi progetti e idee. 
La chiave di svolta, il punto più alto ed intenso dell’incontro tra il regista e l’ex brigatista, è la morte delle due donne – avvenuta quasi in contemporanea – che lascia nei due uomini un profondo vuoto, buttandoli in una sorta di crisi esistenziale. 
“Sangue” cattura l’attenzione per un altro tema, quello delle brigate rosse: è interessante ascoltare la testimonianza di un uomo che ha vissuto in prima persona ciò che è stato narrato per anni sulle prime pagine dei giornali. 
Vengono alla luce emozioni, ricordi, pensieri e aneddoti mai raccontati.   
“Sangue” è anche quello versato sulle macerie de L’Aquila (la pellicola si apre con immagini della città abruzzese), ancora disastrata dal terremoto del 2009, una città simbolo di un disperato bisogno di rinascita e di ritorno alla vita. 
La caratteristica principale del documentario è una sorta di ‘continuo divenire’, un’opera in continua crescita e trasformazione.
Questo aspetto si riflette appieno nello stile registico e nel montaggio: per quanto plausibile, l’utilizzo della macchina da presa a volte disturba e distoglie l’attenzione.  
Una seconda revisione nel montaggio avrebbe migliorato la resa finale della pellicola.
 
Silvia Marinucci