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Verbo

Venerdì 07 Settembre 2012 12:51 Pubblicato in Recensioni

Verso la fine del 2011 esce in Spagna “Verbo”, discussa opera prima di Eduardo Chapero-Jackson. Quasi a distanza di un anno non ci sono notizie di una distribuzione italiana, decido quindi di vederlo e recensirlo per voi.

A metà tra il fantastico e il drammatico, questo racconto di formazione parla di un'adolescente, Sara, per qualche motivo (imprecisato) ai margini della propria vita. Pur essendo di bella presenza, intelligente e curiosa, Sara è priva di amici e priva di veri interessi. Vaga per il proprio quartiere rincorrendo dei segnali che sembrano fatti apposta per lei. Nemmeno la corte di un ragazzo, anch'esso timido e impacciato, sembra smuoverla più di tanto. Vive nel suo mondo, non alza mai la voce e resta passiva agli eventi. Fino a quando compie un gesto all'apparenza folle.

Primo lungometraggio da regista per lo spagnolo Chapero-Jackson e, a mio avviso, anche prima delusione. Già trovatosi a lavorare alla produzione di importanti pellicole come “The Others”, “Lucia y el sexo”, che ha lanciato la carriera di Paz Vega, “Mare Dentro”, pluripremiato lavoro di Amenabar con Javier Bardem, e “Crimen Perfecto”, questa volta decide di continuare un lavoro avviato in precedenza con tre cortometraggi uniti dal tema di situazioni borderline.

Seppur avendo a disposizione un budget cospicuo (due milioni e mezzo di euro), il film presenta molte lacune, partendo dalla sceneggiatura per arrivare alla recitazione. E se per questo punto si potrebbe anche chiudere un occhio, vista la giovane età del cast, per quanto riguarda narrazione e scelte registiche non ci sono scusanti. Verrebbe da dire: Verbo, ok, ed il soggetto!? I personaggi sono tagliati con l'accetta, non hanno spessore e vivono di stereotipi e caratterizzazioni viste in altri film. Così come le situazioni proposte, cliché del genere, e i costumi ripresi, se non copiati, da famosi videogames. Se anche si volesse premiare un certo tipo di messaggio (Bisogna vivere la vita!) il modo in cui viene fatto risulta stucchevole e smielato. O si punta ad un target di bambini di dieci anni, oppure si crede di avere a con un pubblico poco intelligente, tanto risultano banali alcuni spezzoni di pellicola o buoniste alcune scelte di fondo. Unire l'inno alla vita, il messaggio contro il suicidio, l'invito alla lettura (passi interi del Don Chisciotte usati come dialogo principale) e all'espressione delle proprie emozioni, l'ideologia ecologista e il valore della famiglia, il tutto in meno di un'ora e mezza, senza riuscire a cadere nella retorica, in effetti era un grosso azzardo. A questo, forse per attirare il pubblico di teen-ager, è stato aggiunto un carattere da videogioco, assonanze col mondo degli skaters e dei graffittari, richiami a “Matrix” e addirittura ad “Animatrix”, con alcune sequenze girate in animazione. La colonna sonora non poteva che essere a base di rap, forse l'unica cosa che si potrebbe salvare di tutta questa accozzaglia di luoghi comuni sui giovani d'oggi. Anzi no, la vera cosa da salvare in questa pellicola è la fotografia, sempre luminosa e con gran gusto.

In questo caso il regista sembra non trovare alcuna giustificazione soprattutto se si paragona questo suo lavoro a “Scott Pilgrim vs. The World”, film prodotto sempre nello stesso anno e diretto da Edgar Wright, una pellicola giovane, divertente, scanzonata, uno strano mix tra cinema, fumetto e videogame.

Il confronto sarà impietoso...

 

Alessandro Zorzetto

Bed Time

Mercoledì 05 Settembre 2012 11:00 Pubblicato in Recensioni

Tutti noi ci siamo svegliati con la luna storta, per una giornata uggiosa, per un impegno che si vorrebbe assolutamente rimandare, per un litigio della sera prima e ancora da risolvere...

E una volta svegli e fuori casa, a tutti noi è capitato di trovare l'individuo più insopportabile che ci si poteva immaginare: una persona Felice. L'inguaribile romantico, innamorato della vita e pronto ad affrontare una nuova giornata di sole (anche se piove) con il sorriso a 36 denti. E intanto lo guardi e pensi che almeno un paio, di denti, glieli faresti saltare volentieri. Lo guardi e ti tieni tutto questo per te, mentre ricambi, forzatamente, il sorriso.
Lo stato d'animo del protagonista di “Bed Time” è esattamente questo. Nella sua vita non esistono belle giornate, non si spiega il perchè, forse per problemi psicologici. Si deduce ben presto che qualcosa, nella sua testa, non va. Eppure passa inosservato nel suo “piccolo mondo antico”. 
Cesar (interpretato da un ottimo Luis Tosar, fisicamente un incrocio tra Javier Bardem ed Elio delle Storie Tese) è un comunissimo portiere di un normalissimo palazzo di Barcellona. Affabile, gentile, solitario. Accudisce i condomini con lo stesso amore con la quale accudisce la madre malata in ospedale. Ovvero con apparente amore. Dietro questa maschera c'è ben altro. Sotto sotto si annida un altro mondo, tetro, arido, privo di luce (tutto questo egregiamente rappresentato anche dal parallelismo tra il posto di lavoro e il proprio alloggio...)
Cesar non sta bene, il mondo è troppo felice per lui e l'emblema di tutta questa vitalità sta nel sorriso di Clara (interpretata da Marta Etura, bella e brava attrice spagnola già vista in “Eva” e , sempre con Luis Tosar, in “Cella 211”), coinquilina giovane e attraente, sua vera ossessione.
Durante tutta la pellicola assisteremo all'inquietante piano di Cesar: rendere infelici più persone possibili. Senza destare mai un sospetto. Se ci pensate, è più facile del previsto...
Il regista, Balaguerò, noto per il low budget del 2007 “Rec”(diventato poi “Quarantena” nel remake Hollywoodiano), fin dalle prime opere si è fatto apprezzare per la sua visione personale del genere horror: mai troppo splatter o troppo fisico, preferisce creare visivamente e mentalmente la tensione nello spettatore. Aiutato da un'ottima fotografia, sempre pulita e ricercata, anche nei momenti più bui e “sporchi”, e da una colonna sonora che valorizza tutte le scelte stilistiche, ha conquistato un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo.
Eppure, proprio questa tensione sembra sparata a salve in Bed Time.
Il crescendo preparato dal regista arriva al culmine e poi viene disperso da quel che tutti si aspettano, perdendo quindi la forza emotiva che un colpo di scena avrebbe giustamente esaltato.
Il film resta senza dubbio molto ben fatto, a conferma di un cinema iberico vivo e in costante crescita. Gli attori danno il meglio, costumi, scenografia e fotografia non hanno nulla da invidiare alle onerose produzioni americane, eppure, a mio avviso, manca quella sferzata finale alla sceneggiatura per rendere il tutto indimenticabile.
Resterà il ricordo di questo strano figuro, incazzato con il mondo, che ci tornerà in mente in qualche triste mattinata d'inverno, quando la pioggia ci rovinerà il risveglio e qualche vicino di buon umore sarà fuori luogo col suo sorriso e la sua gentilezza...
 
p.s. : se questa volta il lavoro fatto dal doppiaggio è ottimo, la traduzione del titolo è quantomeno discutibile...
 
Alessandro Zorzetto

Nazi-Zombies alla riscossa!

Mercoledì 05 Settembre 2012 10:15 Pubblicato in News

Anni fa, non chiedetemi il perchè, il cinema nord-europeo e non solo sembrava aver riscoperto una tematica dura e scottante ormai relegata al vecchio filone dei film di guerra: il nazismo. Nel giro di poco tempo furono sfornate pellicole sul pericolo del neo-nazismo (“L'onda”), sul vero volto del Fuhrer (“La Caduta”), sul falso volto del Fuhrer (“La Veramente Vera verità su Adolf Hitler”), sulla resistenza ai fronti (“Defiance”) e la “resistenza” interna (“The Reader”), su attentati non riusciti (“Operazione Valchiria”) e attentati mai avvenuti (“Bastardi senza Gloria”). Poi, tutto questo interesse svanì. Anzi no, dimenticavo. 
 
Nell'innevata e quasi emarginata Norvegia ci fu chi colse al balzo l'occasione e sfornò una chicca passata, chissà perchè, abbastanza in sordina fra il grande pubblico. Si trattava di “Dead Snow” pellicola del 2009 di Tommy Wirkola, commedia fra l'horror e lo splatter, presentata addirittura al Sundance Film Festival, narra le vicende di un gruppo di ragazzi che si trova ad affrontare, nell'ospitale clima scandinavo, un plotone di soldati nazisti zombie. 90 minuti di pazzia cinematografia, diretta in modo appena sufficiente ma con pessimi effetti visivi. Ora, la cosa particolare e stupefacente, allo stesso tempo, era riuscire a credere che qualcuno avesse finanziato una pellicola che parlava di Zombie-nazisti.
Ok, era una piccola produzione. Ok, era un esperimento indipendente. E ok, il successo non ha ripagato.
Allora perché, a pochi anni di distanza, mi trovo a parlarvi di tutto questo, vi starete chiedendo?

Semplice.
Giusto il tempo di attraversare la Svezia, ed eccoci in Finlandia, dove, tra il 2011 e il 2012 sono stati prodotti due film che ricordano abbastanza "Dead Snow".Il primo si intitola “War of the Dead (Stone's War)” del 2011 di Marko Makilaakso, è costato 1.3 milioni di dollari e alle spalle ci sono anche Usa, Lituania e (guarda un po'!) Italia! Durante 85 interminabili minuti si narrano le vicende di un gruppo scelto di soldati Finlandesi e Americani, spediti in territorio russo durante la Seconda Guerra Mondiale per distruggere un non ben definito bunker. Non vi dirò chi si troveranno ad affrontare ma scommetto vi 
siate già fatti un'idea! Storia a parte, la regia porta qualche nota positiva, almeno si spinge a provare qualche soluzione nuova. Per il resto è una tragedia, con una pochezza recitativa imbarazzante e una serie di situazioni cliché immotivate.
 
Non contenti, utilizzando ben 7,5 milioni di dollari, Finlandia, Germania e Australia realizzano nel 2012 “Iron Sky”, una commedia di Timo Vuorensola in bilico tra fantascienza e demenziale (anche se questo secondo aspetto probabilmente non è troppo volontario...)
Ci troviamo nel 2018 e durante un'improbabile missione spaziale si viene a scoprire che nel lato oscuro della Luna si trova rifugiata una colonia nazista, fuggita alla sconfitta del '45, ora pronta a ritornare a bordo di una nave spaziale per conquistare la Terra. No comment.

Pur facendo leva su alcuni spunti comici, tutto il prodotto risulta troppo assurdo e al massimo può far sorridere per l'aria naïf  col quale affronta l'argomento nazista.
A differenza delle altre pellicole trattate, il cast non sfigura (citiamo giusto per la cronaca Udo Kier, già visto in molti film, videoclip e addirittura videogames) e pure la parte tecnica sembra all'altezza: i sette milioni e mezzo di dollari si possono apprezzare nei costumi, nella fotografia 
e in parte di scenografia. Di certo per gli effetti speciali non sono molti e si vede...
La domanda che sorge spontanea è: se ne sentiva il bisogno?! Per assurdo, l'incasso di “Iron Sky” supera, seppur di poco (8 milioni) le spese. Quindi, ahimè, un pubblico di nicchia apprezza film del genere. Quale sarà il prossimo passo quindi?! Nazisti Alieni? Alieni Zombi? Un clone di Hitler che sconfigge gli alieni?! Ai posteri l'ardua sentenza...
 
 
Alessandro Zorzetto
 

Ivano De Matteo. Inseguendo un equilibrio precario.

Sabato 01 Settembre 2012 16:10 Pubblicato in Interviste

La prima proiezione della sezione Orizzonti di Venezia 69 è Gli Equilibristi di Ivano de Matteo che sorprendentemente si aggiudica dieci minuti di applausi dalla platea della Sala Grande. De Matteo con una storia particolare alle spalle, fortemente penalizzato dalla mancata uscita italiana di La Bella Gente, suo penultimo lavoro, distribuito invece in Francia dove è stato a dir poco un successo, ora trova forse una sua rivincita personale nel poter essere conosciuto anche dal grande pubblico di casa non solo per la fama televisiva. Il film infatti sarà distribuito a partire dal 14 settembre. Qualche giorno prima della kermesse siamo riusciti ad incontrare il regista perché ci raccontasse il suo lungo cammino per arrivare ad uno dei festival più importanti al mondo e quale sia la sua filosofia di vita, racchiusa in tutti i suoi lavori.

 

Quali sono stati i tuoi primi passi e com'è avvenuto il passaggio da attore a regista?

Ho iniziato nel '90 facendo l'attore in Eurocops, una serie tv che andava in onda su Rai Uno, con Diego Abatantuono e Chiara Caselli, ero il protagonista di una puntata assieme ad Alessandro Gassman, lì ebbi modo di conoscere il direttore della fotografia, premio Oscar, Pasqualino de Santis che mi spronò a iniziare, in seguito mi iscrissi alla scuola teatrale di Perla Peragallo. L'esperienza didattica fu per me importantissima per il tipo di lavoro che affrontavamo, contemporaneamente ci trovavamo a dirigere e ad essere diretti dai compagni di scuola. Ricoprendo entrambi i ruoli, ho capito quanto ci sia di fondamentale nel mio mestiere. Proprio per questo curo con particolare attenzione il lavoro sugli attori, facendo un training intensivo con loro, solitamente di un mese, prima della lavorazione del film.

Un'altra esperienza, tra le molte che ho fatto, fondamentale a farmi crescere è stata quella passata a girare documentari, lì ho dato sfogo ad un forte desiderio di esprimermi attingendo direttamente dalla realtà, senza mezzi termini, tentando di descriverla senza troppi fronzoli, nella maniera più concreta possibile.

Ho avuto modo di lavorare in diverse occasioni anche per la televisione, avendo riscontri soddisfacenti. Ho anche diretto un episodio di Crimini, scritto da Carlo Lucarelli, andato in onda sulla Rai, che mi ha portato un buon riscontro di critica, con dei passaggi a festival internazionali.

 

Da Ultimo Stadio, il tuo primo lungometraggio basato sul mondo del calcio, a Gli Equilibristi come sei cambiato?

Credo sia cambiato un po' tutto: è come quando fai l'amore la prima volta con una donna che non sai bene come comportarti, quindi segui molto l'istinto e così nel mio primo film ho cercato di mettere tutto ciò che amavo e mi stimolava particolarmente, mi sono anche emozionato a rivederlo, dopo un bel po' di anni. Stavo cercando di trovare una mia identità, ero acerbo. Essendo molto critico con me stesso, nonostante pensi che Ultimo Stadio (2002) sia una buona opera prima, che risente molto della mia provenienza teatrale e delle mie esperienze con i documentari, essendo girato anche in maniera sperimentale, con uso di camera a mano. Con gli anni ho cercato di trovare un compromesso bilanciando il mio stile, con La bella gente (2009) credo di aver raggiunto una mia maturità, mi sentivo più rilassato nel confrontarmi col lavoro rispetto a quel primo film. Nell'opera prima si tende spesso ad ingigantire mettendoci tutti i vezzi che vorresti, poi col tempo inizi a scremare ritrovando in molte meno cose un tuo equilibrio stilistico e tecnico.

Sono passato attraverso vari generi, con Crimini ad esempio, mi sono dato all'action movie, genere per me desueto, mentre La bella gente è più nelle mie corde, essendo un film intimista.

 

Come definisci il tuo stile?

Onesto con me stesso. Io penso che il cinema sia un mezzo di rappresentazione della realtà imperfetto paradossalmente. Puoi utilizzare ad esempio elementi come le ellissi per raccontare, io sfrutto questi stacchi temporali per mandare un mio messaggio. Con quelle io posso romperti i coglioni, creando dei dubbi, ti dico che in quel momento poteva succedere questo avvenimento piuttosto che un altro, dipende da ciò che voglio inserirvi, posso giocarci molto, insinuandoti il mio punto di vista su un certo argomento. Credo di aver una mia onestà nel raccontare le storie, rimanendo sempre fedele al mio gusto e a ciò che cerco, ritengo che si crei una specie di paradosso se ti fai muovere dalla volontà di accontentare il pubblico a 360° perché alla fine l'unico che rimane scontento sei proprio tu. Io mi metto solitamente molto in gioco prendendo decisioni anche drastiche, che a volte potrebbero risultare controproducenti pur di rimanere fedele a me stesso e alle mie linee guida. Io non amo accontentare tutti quanti con i miei film, cerco solo di esporre i miei contenuti per poter riflettere su quello che siamo.

 

Ciò che emerge dai tuoi lavori è una società protagonista e malata, in cui si ritrovano situazioni di degrado, emarginazione, storie di persone con forti problematiche, storie esteme..

Io racconto storie in equilibrio tra lo stare in piedi e il cadere, perché un po' mi ci riconosco. Mi riconosco nella concezione di squilibrio. Io sono già fortunato a fare questo lavoro però comunque è sempre un lavoro in equilibrio. Mi può capitare un momento di guadagnare abbastanza per riuscire ad avere una certa tranquillità ma poi se non mi metto a lavoro puntando su nuovi progetti mi ritrovo nella precarietà. Sono cresciuto in una famiglia normale, con delle difficoltà come in molte famiglie, però riuscivamo sempre a tenerci a galla, a farci forza gli uni con gli altri, cercavamo di aiutarci reciprocamente sentendoci protetti in questa struttura ben codificata, e questo può avere molti pro ma anche troppi contro. Ora la mia riflessione si spinge su coloro che non hanno questa unità di base, persone che si ritrovano a vivere nella precarietà anche e soprattutto dal punto di vista dei valori individuali, degli affetti, quando prevale uno scollamento tra dimensione famigliare e società. Quando manca un equilibrio sociale, con un riconoscimento di un ruolo ben preciso che magari fino al momento prima è sempre stato indiscusso e definito, e quando ci sono anche forti problemi economici il disagio si va a ripercuotere in primis sugli affetti. Per questi motivi a me non interessava fare un film sul divorzio, sulla separazione, ma mi interessa indagare sugli aspetti umani di una vicenda, su tutto ciò che è precario. Anche da qui parte il mio sguardo critico sulla società, non critico a priori ma nel tentativo di analizzare, cercando di capire il perché di certe dinamiche. Noi viviamo in una società dove ci fanno credere che stiamo tutti bene ma in realtà non è così, è solo una parvenza, un virtuale, decisamente irreale.

 

Ho trovato una frase di uno dei tuoi protagonisti in Codice a sbarre, documentario sul carcere del 2005, che dice: “dentro il penitenziario si vive e non solo si vive a volte si respira aria più pulita perché fuori è inquinata”, praticamente riassume un po' il senso di quello che hai appena affermato...

A volte sembro un pessimista, ma io credo di essere solo un gran realista, nel riflettere sulla nostra condizione di individui imperfetti, che poco abbiamo a che fare con la bontà e l'idealizzazione del bene, io cerco di intaccare questo falso buonismo e perbenismo della morale. Credo che la gente tenda molto a giustificare le proprie mancanze, rincarando la dose sugli errori altrui. Io ho cominciato un'autocritica innanzitutto personale con La bella gente, cercando di intaccare la concezione che ho di me stesso. Ho messo in scena il dramma di una giovane ragazza dell'Est finita a prostituirsi e “r”accolta durante un'estate da una cosiddetta famiglia della borghesia illuminata che, dopo essersi stufata di lei, la rimanda sulla strada. Ho iniziato a pensare io cosa avrei fatto al posto della famiglia e chi ero veramente per poter giudicare questa ragazza, è prevalentemente quello che ho voluto mettere in questo film, senza alcun intento moralizzatore. Non è una critica esclusiva ad un'élite, come inizialmente nasce il film, è un qualcosa in più che si spinge anche su altre riflessioni e contenuti, anche se i personaggi ne escono molto male. Ho sempre pensato che l'altruismo fosse una forma estrema di egoismo, che tutti si debbano in qualche modo sentire buoni per forza, compiendo azioni che per la morale comune, rappresentano “le buone azioni” e questo si vede molto ne La bella gente. Il concetto d'amore è labile e soggetto a mille interpretazioni e sfaccettature, spesso amore e odio si confondono, rappresentando due facce della stessa medaglia, probabilmente la più grande dimostrazione che noi abbiamo nei confronti di chi amiamo sta anche nella sopportazione. Ci sono dei momenti in cui le persone che amiamo, come ad esempio i nostri figli, si rendono davvero difficili da sopportare, a volte ironizzo dicendo che l'amore sta nel non buttarli dal balcone quando mi fanno impazzire! C' è pudore a raccontare i propri sogni reconditi, spesso si ritengono inconfessabili, per me invece bisognerebbe ammetterli senza ipocrisie, poi ovviamente la differenza sta nell'attuare o meno certi comportamenti dannosi.

 

..e il mondo delle carceri invece, perché ne sei così attratto?

 

Uno dei miei lavori è appunto Codice a sbarre, progettato per esser sviluppato in 3 step: un'installazione all'aperto all'interno del Rione Trastevere di Roma, una performance artistica e un documentario. Ciò che ne è uscito è stato un esperimento sociologico mo

lto forte. Ho deciso di ricreare le condizioni carcerarie in pubblica piazza, così che tutti potessero vedere. Mi hanno aiutato in questo quattro uomini, due ex detenuti e due in semilibertà, e una vera guardia carceraria. Uno dei quattro detenuti, Giulio Colelli, era un mio caro amico che ora non c'è più, con moltissimi problemi ma sempre con il sorriso sulle labbra, che ha avuto una vita molto dura ma non si è mai pianto addosso, l'ho voluto ricordare dando il suo nome al personaggio interpretato da Valerio Mastandrea ne Gli EquilibristiGiulio l'ho conosciuto da bambino, fece con me anche il documentario Barricata San Callisto, sullo storico bar trasteverino e su tutti i personaggi che gli hanno sempre gravitato attorno.

Codice a Sbarre ha avuto una bella risosanza, è stato candidato nella categoria documentari ai David di Donatello ed è stato proiettato anche alla Camera dei Deputati...

Ho pensato: se non posso girare dentro al carcere, prendo il carcere e lo porto fuori. Mi hanno aiutato in questo persone che il carcere lo conoscevano bene per averlo vissuto da dentro. Anche la ricostruzione della cella è stata fedelissima, tutti i materiali che ho utilizzato erano direttamente presi dal carcere. Abbiamo girato per un'intera giornata, mostrando ai passanti cosa non avrebbero mai potuto osservare in altri modi. Al progetto ci tenevamo particolarmente, è stato infatti interamente autofinanziato, gli stessi detenuti hanno messo dei soldi.

 

Perché senti così vicini certi argomenti?

Io sono nato in un quartiere abbastanza duro, a Trastevere più di 40 anni fa, che di certo non è quella di ora, con i turisti e i numerosi locali per divertirsi. La realtà era abbastanza differente, più complicata, mi è capitato di perdere molti amici, da sempre perciò sono legato a quella che può essere chiamata subculture. Visioni troppo romantiche tendono ad idealizzare la gente che vive per strada come più vera: un falso mito, in strada si trova di tutto. Il tuo risultato personale dipende dal modo che hai di utilizzare le esperienze che vivi, a me sono servite molto, me le porto dietro come un grande bagaglio, a volte pesante, e costantemente si ripercuotono nell'immaginario dei miei lavori, attingo spesso da ciò che ho visto e vissuto. La gente ha un'attenzione voyeuristica per le realtà al limite, tutti abbiamo la curiosità di guardare dal buco della serratura, considerando il carcere una specie di giardino zoologico. Vorrei si riuscisse a guardare all'interno di certe realtà però con la giusta misura senza nemmeno cadere negli eccessi di pietismo o nel voler contestare a tutti i costi certi regimi detentivi. Mi sembra un po' un discorso senza senso quello di chi estremizza affermando che le carceri andrebbero abbattute, perché anche nel volersi collocare nella sponda opposta c'è una forte ipocrisia, probabilmente la stessa che si ritrova nello spirito censore.

 

Quindi tu tenti di creare con il tuo lavoro un'apertura maggiore nel modo di pensare delle persone?

Io ritengo che l'essere umano abbia una percentuale fisiologica di ipocrisia che è necessaria per difendersi, se non hai l'esperienza dalla quale poi necessariamente scaturiscono dei giudizi, non ti riesci a rapportare al mondo esterno, ma ci deve essere sempre differenza tra opinione e pregiudizio. Noi siamo dal basso i primi che alimentiamo le forme di un vivere ipocrita. Tutti ci lamentiamo dei mille mali dell'Italia, il clientelismo, il nepotismo, le raccomandazioni.. ma poi nel nostro piccolo siamo i primi a fomentarli. È questo su cui vorrei far riflettere. Credo che fare un outing sia un passo avanti importanti che potrebbe aiutare a non ripetere più certi atteggiamenti. Io vorrei creare dei piccoli cortocircuiti dentro di me, dentro di tutti. Del resto l'essere umano è un animale malato e imperfetto e credo sia molto più interessante parlare di questo perché dei buoni ne hanno parlato tutti. L'intelligenza di cui siamo dotati è il fattore fondamentale per discernere individualmente e per uscire da un percorso chiuso di comportamenti “moralmente accettabili” nell'accezione negativa del termine.

 
 
Come mai gli Equilibristi?

Questo è un film molto attuale. Parte con una separazione consensuale, poi lo sguardo cade su ciò che capita a quest'uomo. Prima di cominciare a girare mi sono documentato parecchio per alcuni mesi, ho incontrato molte persone che vivono in condizioni di forte disagio, alcuni che fanno parte della Comunità di Sant'Egidio, due di loro in particolare, a cui mi sono ispirato, hanno vissuto la stessa situazione che ripropongo nel film. Ho girato molto anche negli uffici municipali visto che il protagonista lavora in un municipio. Non parlo di realtà romanzate perché i dati ISTAT sono abbastanza sconcertanti: l'11% delle famiglie versa in uno stato di povertà relativa con 1100 euro al mese e poi c'è la povertà assoluta che è il 5% che sta sotto questa soglia, si parla di 3milioni di persone, quelli che si separano sono circa 500mila di cui 300mila tornano a casa ma si ritrovano in condizioni di convivenza coatta, gli altri 200mila vanno letteralmente allo sbando, e 200mila non sono pochi per niente. Il mio protagonista guadagna 1200 euro al mese essendo un impiegato di una pubblica amministrazione, sua moglie fa mezza giornata guadagnando 500 euro. Con simili entrate e due figli arrivi al limite e se ti succede qualcosa non hai alcun salvagente, ad esempio una visita medica non puoi affrontarla privatamente e le liste di attesa del servizio pubblico sono di molti mesi. Perciò dopo la separazione, quest'uomo si ritrova letteralmente allo sbando, i soldi non bastano più e comincia il suo calvario. Nel film cito La casa dei papà, una struttura del Comune di Roma che accoglie 20 padri, ora ne hanno aperta un'altra per altri 10 padri. É una casa di accoglienza per chi ha queste situazioni di emergenza in cui trovi ricovero per 1 anno, pagando una retta di 200 euro mensili, ma devi avere un reddito di 7000 euro annui, senza figli e 9000 con i figli. Giulio però vive in un paradosso allucinante, una specie di limbo dove è troppo ricco per accedere a questo servizio e troppo povero per poter vivere dignitosamente. Da qui nasce il gap, quando viene messa in crisi la propria individualità, quando ci si chiede ma allora chi sono?

 

..e la scelta di Mastandrea e della Bobulova?

Questo film è tragicomico in alcuni punti, perché a tratti ci troviamo a ridere del dramma, per me il termine che meglio può definire questo lavoro è quello di “commedia drammaticamente amara”, e Valerio, che aveva già lavorato con me nel 2002 per Ultimo Stadio, si prestava perfettamente per questa interpretazione essendo una maschera, sia drammatico che ironico allo stesso tempo, ideale per un tipo di ironia amara. Inoltre lo stimo molto professionalmente e ritengo sia molto cresciuto col tempo. Barbora la trovo perfetta nel suo essere algida, una fredda e composta donna del nord che rimane all'oscuro della situazione.

 

Cosa pensi di questa sezione Orizzonti?

Sono molto contento, per me è un po' una rivincita personale per i problemi che ho incontrato con La bella gente, per via della mancata distribuzione. La cosa che mi ha portato bene è che i problemi con il film precedente e il grande successo nei cinema francesi ne hanno un po' fatto un caso. Ci si chiedeva come mai un film fatto con soldi italiani e rimasto nelle sale francesi per 4 mesi consecutivi in Italia non venisse neppure distribuito. Grazie al successo in Francia sono riuscito anche a creare un ponte per questo film, la stessa produzione Babe Film (che in La bella gente si chiamava Bellissima) si è proposta di coprodurre, assieme a Rodeo Drive, anche Gli EquilibristiAl momento La bella gente è in attesa che un giudice deliberi sullo sblocco distributivo del film cercando di rescindere dal contratto con il vecchio distributore, che ha tenuto per anni il film impantanato. Quindi siamo in attesa ora. Per questo per l'Italia sono una specie di neofita mentre in Francia già attendono con ansia questo mio ultimo lavoro.

 

A chi ti ispiri?

Non ho riferimenti particolari, questa ricerca è un mio tarlo personale che forse mi porterò dentro fino alla fine. Probabilmente io morirò forse senza aver capito inseguendo un'utopia che però mi serve per andare avanti, una frase a cui sono molto affezionato di uno spettacolo teatrale scritto dalla mia compagna Valentina Ferlan, con la quale scrivo tutti i miei lavori. Trincerarsi nella via di mezzo è quello che fa star tranquille alcune persone, l'incasellarsi entro modelli culturali moderati, creando una corazza che ti rende difficilmente vulnerabile, io vorrei scalfire quella corazza, per questo a me non piacciono i cliché e ciò che è precostituito. Il film è sicuramente autoriale, curo tutto in ogni particolare, sono dell'idea che siccome è mio lo debba fare come piace a me.

 

Chiara Nucera