La prima proiezione della sezione Orizzonti di Venezia 69 è Gli Equilibristi di Ivano de Matteo che sorprendentemente si aggiudica dieci minuti di applausi dalla platea della Sala Grande. De Matteo con una storia particolare alle spalle, fortemente penalizzato dalla mancata uscita italiana di La Bella Gente, suo penultimo lavoro, distribuito invece in Francia dove è stato a dir poco un successo, ora trova forse una sua rivincita personale nel poter essere conosciuto anche dal grande pubblico di casa non solo per la fama televisiva. Il film infatti sarà distribuito a partire dal 14 settembre. Qualche giorno prima della kermesse siamo riusciti ad incontrare il regista perché ci raccontasse il suo lungo cammino per arrivare ad uno dei festival più importanti al mondo e quale sia la sua filosofia di vita, racchiusa in tutti i suoi lavori.
Quali sono stati i tuoi primi passi e com'è avvenuto il passaggio da attore a regista?
Ho iniziato nel '90 facendo l'attore in Eurocops, una serie tv che andava in onda su Rai Uno, con Diego Abatantuono e Chiara Caselli, ero il protagonista di una puntata assieme ad Alessandro Gassman, lì ebbi modo di conoscere il direttore della fotografia, premio Oscar, Pasqualino de Santis che mi spronò a iniziare, in seguito mi iscrissi alla scuola teatrale di Perla Peragallo. L'esperienza didattica fu per me importantissima per il tipo di lavoro che affrontavamo, contemporaneamente ci trovavamo a dirigere e ad essere diretti dai compagni di scuola. Ricoprendo entrambi i ruoli, ho capito quanto ci sia di fondamentale nel mio mestiere. Proprio per questo curo con particolare attenzione il lavoro sugli attori, facendo un training intensivo con loro, solitamente di un mese, prima della lavorazione del film.
Un'altra esperienza, tra le molte che ho fatto, fondamentale a farmi crescere è stata quella passata a girare documentari, lì ho dato sfogo ad un forte desiderio di esprimermi attingendo direttamente dalla realtà, senza mezzi termini, tentando di descriverla senza troppi fronzoli, nella maniera più concreta possibile.
Ho avuto modo di lavorare in diverse occasioni anche per la televisione, avendo riscontri soddisfacenti. Ho anche diretto un episodio di Crimini, scritto da Carlo Lucarelli, andato in onda sulla Rai, che mi ha portato un buon riscontro di critica, con dei passaggi a festival internazionali.
Da Ultimo Stadio, il tuo primo lungometraggio basato sul mondo del calcio, a Gli Equilibristi come sei cambiato?
Credo sia cambiato un po' tutto: è come quando fai l'amore la prima volta con una donna che non sai bene come comportarti, quindi segui molto l'istinto e così nel mio primo film ho cercato di mettere tutto ciò che amavo e mi stimolava particolarmente, mi sono anche emozionato a rivederlo, dopo un bel po' di anni. Stavo cercando di trovare una mia identità, ero acerbo. Essendo molto critico con me stesso, nonostante pensi che Ultimo Stadio (2002) sia una buona opera prima, che risente molto della mia provenienza teatrale e delle mie esperienze con i documentari, essendo girato anche in maniera sperimentale, con uso di camera a mano. Con gli anni ho cercato di trovare un compromesso bilanciando il mio stile, con La bella gente (2009) credo di aver raggiunto una mia maturità, mi sentivo più rilassato nel confrontarmi col lavoro rispetto a quel primo film. Nell'opera prima si tende spesso ad ingigantire mettendoci tutti i vezzi che vorresti, poi col tempo inizi a scremare ritrovando in molte meno cose un tuo equilibrio stilistico e tecnico.
Sono passato attraverso vari generi, con Crimini ad esempio, mi sono dato all'action movie, genere per me desueto, mentre La bella gente è più nelle mie corde, essendo un film intimista.
Come definisci il tuo stile?
Onesto con me stesso. Io penso che il cinema sia un mezzo di rappresentazione della realtà imperfetto paradossalmente. Puoi utilizzare ad esempio elementi come le ellissi per raccontare, io sfrutto questi stacchi temporali per mandare un mio messaggio. Con quelle io posso romperti i coglioni, creando dei dubbi, ti dico che in quel momento poteva succedere questo avvenimento piuttosto che un altro, dipende da ciò che voglio inserirvi, posso giocarci molto, insinuandoti il mio punto di vista su un certo argomento. Credo di aver una mia onestà nel raccontare le storie, rimanendo sempre fedele al mio gusto e a ciò che cerco, ritengo che si crei una specie di paradosso se ti fai muovere dalla volontà di accontentare il pubblico a 360° perché alla fine l'unico che rimane scontento sei proprio tu. Io mi metto solitamente molto in gioco prendendo decisioni anche drastiche, che a volte potrebbero risultare controproducenti pur di rimanere fedele a me stesso e alle mie linee guida. Io non amo accontentare tutti quanti con i miei film, cerco solo di esporre i miei contenuti per poter riflettere su quello che siamo.
Ciò che emerge dai tuoi lavori è una società protagonista e malata, in cui si ritrovano situazioni di degrado, emarginazione, storie di persone con forti problematiche, storie esteme..
Io racconto storie in equilibrio tra lo stare in piedi e il cadere, perché un po' mi ci riconosco. Mi riconosco nella concezione di squilibrio. Io sono già fortunato a fare questo lavoro però comunque è sempre un lavoro in equilibrio. Mi può capitare un momento di guadagnare abbastanza per riuscire ad avere una certa tranquillità ma poi se non mi metto a lavoro puntando su nuovi progetti mi ritrovo nella precarietà. Sono cresciuto in una famiglia normale, con delle difficoltà come in molte famiglie, però riuscivamo sempre a tenerci a galla, a farci forza gli uni con gli altri, cercavamo di aiutarci reciprocamente sentendoci protetti in questa struttura ben codificata, e questo può avere molti pro ma anche troppi contro. Ora la mia riflessione si spinge su coloro che non hanno questa unità di base, persone che si ritrovano a vivere nella precarietà anche e soprattutto dal punto di vista dei valori individuali, degli affetti, quando prevale uno scollamento tra dimensione famigliare e società. Quando manca un equilibrio sociale, con un riconoscimento di un ruolo ben preciso che magari fino al momento prima è sempre stato indiscusso e definito, e quando ci sono anche forti problemi economici il disagio si va a ripercuotere in primis sugli affetti. Per questi motivi a me non interessava fare un film sul divorzio, sulla separazione, ma mi interessa indagare sugli aspetti umani di una vicenda, su tutto ciò che è precario. Anche da qui parte il mio sguardo critico sulla società, non critico a priori ma nel tentativo di analizzare, cercando di capire il perché di certe dinamiche. Noi viviamo in una società dove ci fanno credere che stiamo tutti bene ma in realtà non è così, è solo una parvenza, un virtuale, decisamente irreale.
Ho trovato una frase di uno dei tuoi protagonisti in Codice a sbarre, documentario sul carcere del 2005, che dice: “dentro il penitenziario si vive e non solo si vive a volte si respira aria più pulita perché fuori è inquinata”, praticamente riassume un po' il senso di quello che hai appena affermato...
A volte sembro un pessimista, ma io credo di essere solo un gran realista, nel riflettere sulla nostra condizione di individui imperfetti, che poco abbiamo a che fare con la bontà e l'idealizzazione del bene, io cerco di intaccare questo falso buonismo e perbenismo della morale. Credo che la gente tenda molto a giustificare le proprie mancanze, rincarando la dose sugli errori altrui. Io ho cominciato un'autocritica innanzitutto personale con La bella gente, cercando di intaccare la concezione che ho di me stesso. Ho messo in scena il dramma di una giovane ragazza dell'Est finita a prostituirsi e “r”accolta durante un'estate da una cosiddetta famiglia della borghesia illuminata che, dopo essersi stufata di lei, la rimanda sulla strada. Ho iniziato a pensare io cosa avrei fatto al posto della famiglia e chi ero veramente per poter giudicare questa ragazza, è prevalentemente quello che ho voluto mettere in questo film, senza alcun intento moralizzatore. Non è una critica esclusiva ad un'élite, come inizialmente nasce il film, è un qualcosa in più che si spinge anche su altre riflessioni e contenuti, anche se i personaggi ne escono molto male. Ho sempre pensato che l'altruismo fosse una forma estrema di egoismo, che tutti si debbano in qualche modo sentire buoni per forza, compiendo azioni che per la morale comune, rappresentano “le buone azioni” e questo si vede molto ne La bella gente. Il concetto d'amore è labile e soggetto a mille interpretazioni e sfaccettature, spesso amore e odio si confondono, rappresentando due facce della stessa medaglia, probabilmente la più grande dimostrazione che noi abbiamo nei confronti di chi amiamo sta anche nella sopportazione. Ci sono dei momenti in cui le persone che amiamo, come ad esempio i nostri figli, si rendono davvero difficili da sopportare, a volte ironizzo dicendo che l'amore sta nel non buttarli dal balcone quando mi fanno impazzire! C' è pudore a raccontare i propri sogni reconditi, spesso si ritengono inconfessabili, per me invece bisognerebbe ammetterli senza ipocrisie, poi ovviamente la differenza sta nell'attuare o meno certi comportamenti dannosi.
..e il mondo delle carceri invece, perché ne sei così attratto?
Uno dei miei lavori è appunto Codice a sbarre, progettato per esser sviluppato in 3 step: un'installazione all'aperto all'interno del Rione Trastevere di Roma, una performance artistica e un documentario. Ciò che ne è uscito è stato un esperimento sociologico mo
lto forte. Ho deciso di ricreare le condizioni carcerarie in pubblica piazza, così che tutti potessero vedere. Mi hanno aiutato in questo quattro uomini, due ex detenuti e due in semilibertà, e una vera guardia carceraria. Uno dei quattro detenuti, Giulio Colelli, era un mio caro amico che ora non c'è più, con moltissimi problemi ma sempre con il sorriso sulle labbra, che ha avuto una vita molto dura ma non si è mai pianto addosso, l'ho voluto ricordare dando il suo nome al personaggio interpretato da Valerio Mastandrea ne Gli Equilibristi. Giulio l'ho conosciuto da bambino, fece con me anche il documentario Barricata San Callisto, sullo storico bar trasteverino e su tutti i personaggi che gli hanno sempre gravitato attorno.
Codice a Sbarre ha avuto una bella risosanza, è stato candidato nella categoria documentari ai David di Donatello ed è stato proiettato anche alla Camera dei Deputati...
Ho pensato: se non posso girare dentro al carcere, prendo il carcere e lo porto fuori. Mi hanno aiutato in questo persone che il carcere lo conoscevano bene per averlo vissuto da dentro. Anche la ricostruzione della cella è stata fedelissima, tutti i materiali che ho utilizzato erano direttamente presi dal carcere. Abbiamo girato per un'intera giornata, mostrando ai passanti cosa non avrebbero mai potuto osservare in altri modi. Al progetto ci tenevamo particolarmente, è stato infatti interamente autofinanziato, gli stessi detenuti hanno messo dei soldi.
Perché senti così vicini certi argomenti?
Io sono nato in un quartiere abbastanza duro, a Trastevere più di 40 anni fa, che di certo non è quella di ora, con i turisti e i numerosi locali per divertirsi. La realtà era abbastanza differente, più complicata, mi è capitato di perdere molti amici, da sempre perciò sono legato a quella che può essere chiamata subculture. Visioni troppo romantiche tendono ad idealizzare la gente che vive per strada come più vera: un falso mito, in strada si trova di tutto. Il tuo risultato personale dipende dal modo che hai di utilizzare le esperienze che vivi, a me sono servite molto, me le porto dietro come un grande bagaglio, a volte pesante, e costantemente si ripercuotono nell'immaginario dei miei lavori, attingo spesso da ciò che ho visto e vissuto. La gente ha un'attenzione voyeuristica per le realtà al limite, tutti abbiamo la curiosità di guardare dal buco della serratura, considerando il carcere una specie di giardino zoologico. Vorrei si riuscisse a guardare all'interno di certe realtà però con la giusta misura senza nemmeno cadere negli eccessi di pietismo o nel voler contestare a tutti i costi certi regimi detentivi. Mi sembra un po' un discorso senza senso quello di chi estremizza affermando che le carceri andrebbero abbattute, perché anche nel volersi collocare nella sponda opposta c'è una forte ipocrisia, probabilmente la stessa che si ritrova nello spirito censore.
Quindi tu tenti di creare con il tuo lavoro un'apertura maggiore nel modo di pensare delle persone?
Io ritengo che l'essere umano abbia una percentuale fisiologica di ipocrisia che è necessaria per difendersi, se non hai l'esperienza dalla quale poi necessariamente scaturiscono dei giudizi, non ti riesci a rapportare al mondo esterno, ma ci deve essere sempre differenza tra opinione e pregiudizio. Noi siamo dal basso i primi che alimentiamo le forme di un vivere ipocrita. Tutti ci lamentiamo dei mille mali dell'Italia, il clientelismo, il nepotismo, le raccomandazioni.. ma poi nel nostro piccolo siamo i primi a fomentarli. È questo su cui vorrei far riflettere. Credo che fare un outing sia un passo avanti importanti che potrebbe aiutare a non ripetere più certi atteggiamenti. Io vorrei creare dei piccoli cortocircuiti dentro di me, dentro di tutti. Del resto l'essere umano è un animale malato e imperfetto e credo sia molto più interessante parlare di questo perché dei buoni ne hanno parlato tutti. L'intelligenza di cui siamo dotati è il fattore fondamentale per discernere individualmente e per uscire da un percorso chiuso di comportamenti “moralmente accettabili” nell'accezione negativa del termine.
Questo è un film molto attuale. Parte con una separazione consensuale, poi lo sguardo cade su ciò che capita a quest'uomo. Prima di cominciare a girare mi sono documentato parecchio per alcuni mesi, ho incontrato molte persone che vivono in condizioni di forte disagio, alcuni che fanno parte della Comunità di Sant'Egidio, due di loro in particolare, a cui mi sono ispirato, hanno vissuto la stessa situazione che ripropongo nel film. Ho girato molto anche negli uffici municipali visto che il protagonista lavora in un municipio. Non parlo di realtà romanzate perché i dati ISTAT sono abbastanza sconcertanti: l'11% delle famiglie versa in uno stato di povertà relativa con 1100 euro al mese e poi c'è la povertà assoluta che è il 5% che sta sotto questa soglia, si parla di 3milioni di persone, quelli che si separano sono circa 500mila di cui 300mila tornano a casa ma si ritrovano in condizioni di convivenza coatta, gli altri 200mila vanno letteralmente allo sbando, e 200mila non sono pochi per niente. Il mio protagonista guadagna 1200 euro al mese essendo un impiegato di una pubblica amministrazione, sua moglie fa mezza giornata guadagnando 500 euro. Con simili entrate e due figli arrivi al limite e se ti succede qualcosa non hai alcun salvagente, ad esempio una visita medica non puoi affrontarla privatamente e le liste di attesa del servizio pubblico sono di molti mesi. Perciò dopo la separazione, quest'uomo si ritrova letteralmente allo sbando, i soldi non bastano più e comincia il suo calvario. Nel film cito La casa dei papà, una struttura del Comune di Roma che accoglie 20 padri, ora ne hanno aperta un'altra per altri 10 padri. É una casa di accoglienza per chi ha queste situazioni di emergenza in cui trovi ricovero per 1 anno, pagando una retta di 200 euro mensili, ma devi avere un reddito di 7000 euro annui, senza figli e 9000 con i figli. Giulio però vive in un paradosso allucinante, una specie di limbo dove è troppo ricco per accedere a questo servizio e troppo povero per poter vivere dignitosamente. Da qui nasce il gap, quando viene messa in crisi la propria individualità, quando ci si chiede ma allora chi sono?
..e la scelta di Mastandrea e della Bobulova?
Questo film è tragicomico in alcuni punti, perché a tratti ci troviamo a ridere del dramma, per me il termine che meglio può definire questo lavoro è quello di “commedia drammaticamente amara”, e Valerio, che aveva già lavorato con me nel 2002 per Ultimo Stadio, si prestava perfettamente per questa interpretazione essendo una maschera, sia drammatico che ironico allo stesso tempo, ideale per un tipo di ironia amara. Inoltre lo stimo molto professionalmente e ritengo sia molto cresciuto col tempo. Barbora la trovo perfetta nel suo essere algida, una fredda e composta donna del nord che rimane all'oscuro della situazione.
Cosa pensi di questa sezione Orizzonti?
Sono molto contento, per me è un po' una rivincita personale per i problemi che ho incontrato con La bella gente, per via della mancata distribuzione. La cosa che mi ha portato bene è che i problemi con il film precedente e il grande successo nei cinema francesi ne hanno un po' fatto un caso. Ci si chiedeva come mai un film fatto con soldi italiani e rimasto nelle sale francesi per 4 mesi consecutivi in Italia non venisse neppure distribuito. Grazie al successo in Francia sono riuscito anche a creare un ponte per questo film, la stessa produzione Babe Film (che in La bella gente si chiamava Bellissima) si è proposta di coprodurre, assieme a Rodeo Drive, anche Gli Equilibristi. Al momento La bella gente è in attesa che un giudice deliberi sullo sblocco distributivo del film cercando di rescindere dal contratto con il vecchio distributore, che ha tenuto per anni il film impantanato. Quindi siamo in attesa ora. Per questo per l'Italia sono una specie di neofita mentre in Francia già attendono con ansia questo mio ultimo lavoro.
A chi ti ispiri?
Non ho riferimenti particolari, questa ricerca è un mio tarlo personale che forse mi porterò dentro fino alla fine. Probabilmente io morirò forse senza aver capito inseguendo un'utopia che però mi serve per andare avanti, una frase a cui sono molto affezionato di uno spettacolo teatrale scritto dalla mia compagna Valentina Ferlan, con la quale scrivo tutti i miei lavori. Trincerarsi nella via di mezzo è quello che fa star tranquille alcune persone, l'incasellarsi entro modelli culturali moderati, creando una corazza che ti rende difficilmente vulnerabile, io vorrei scalfire quella corazza, per questo a me non piacciono i cliché e ciò che è precostituito. Il film è sicuramente autoriale, curo tutto in ogni particolare, sono dell'idea che siccome è mio lo debba fare come piace a me.
Chiara Nucera