Provincia di Taranto, in un'estate rovente fra splendidi tramonti soffocati dal mostro metallurgico dell'ILVA, sul fiorire degli anni novanta, quando la fine della Prima Repubblica si alterna a "Non è la Rai", forze politiche di dubbio rinnovamento, come Vito Cicerone (Antonio Gerardi), si insinuano sulle traballanti macerie dei vecchi politicanti ormai allo stremo. Veleno (Nicolas Orzella) e Zazà (Luca Schipani) sono due adolescenti uniti dall'amicizia e dal calcio: ma mentre per il primo, ragazzo di buona famiglia, è una passione accessoria, il secondo, fragile nel suo essere spavaldo, è un vero mago del pallone. Il loro rapporto è messo in discussione dalla conoscenza di Annalisa (Aylin Prandi), una ragazza controversa e disperata che tenta il suicidio lanciandosi nel vuoto dal campanile della chiesa. Annalisa è la giovane sposa, i suoi abiti eterei lo ricordano sempre, il suo triste destino si è rivelato nel momento in cui, prossima al matrimonio, il suo compagno ha perso la vita. Consegnatasi ad un piano di pura idealizzazione, staccata emotivamente dalla realtà che la circonda, segna profondamente l'immaginario dei due ragazzi che la identificano come una sorta di figura “mistica”, tappa fondamentale della loro adolescenza. Questo singolare rapporto a tre, teneramente vissuto in uno scenario di emarginazione, oscillante tra amicizia e amore, è al centro del lavoro del trentenne Mezzapesa, che debutta così col suo primo lungometraggio.
Con un curriculum di lavori pluripremiati, sceglie come ambientazione la Puglia, terra dalla quale proviene, in una chiave poetica vicina a quella del collega Edoardo Winspeare, permeata di forte realismo magico.
Prodotta da Fandango, la pellicola è comunque slegata dagli stilemi imposti dalla factory che ha appesantito registi più blasonati come Ozpetek e Ligabue, per nulla esenti dall'onnipresente ingombro di un ghost-director come Procacci. Mezzapesa però non sembra giovarsi di tale indipendenza, pagando invece lo scotto di una sceneggiatura non troppo approfondita e di una mano autoriale ancora acerba per il lungometraggio a soggetto, ma più adatta alla dimensione dell'opera breve e/o documentaria.
Al film nuocciono inoltre un'attenzione troppo minimalista a certi dettagli e la mancanza di ritmo in alcuni passaggi, come se in finale uno straccio di storia, alcuni attori naturali molto dotati e i paesaggi belli e stravolti dall'uomo in quel tacco d'Italia, bastassero a reggere un'opera prima, che rimane irrisolta come i suoi bei personaggi e che non riesce a raccontarsi fino in fondo.
Chiara Nucera