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Sacro GRA

Giovedì 12 Settembre 2013 21:43 Pubblicato in Recensioni
Bertolucci voleva essere sorpreso. E Rosi l’ha accontentato. Con un lungo lavoro di ricerca sul campo - il documentario esige un tragitto in solitaria che, col rischio dell’autismo, arriva ad un “prodotto” finale che è una sorta di sintesi di molteplici incontri, sguardi, parole, riflessioni – il documentarista di fama internazionale (lo conoscono forse di più in America che in Italia) crea una pietra preziosa fatta di tante rifrazioni cromatiche quanti sono i frammenti di vita che riprende e restituisce allo spettatore. 
Dopo tre anni passati a circumnavigare il GRA, a mappare emotivamente quel cerchio di traffico che cinge Roma, a conoscere l’umanità palpitante che lo popola, Rosi e i suoi collaboratori (Dario Zonta, preziosissimo direttore artistico e Nicolò Basetti paesaggista-urbanista che inizia l’avventura di scoperta del raccordo), ci regalano dei personaggi autentici attraverso una sperimentazione narrativa imperniata sul togliere. Trasformazione e sottrazione sono le cifre stilistiche di questo lungo lavoro che è, nelle parole di Rosi, “prima di tutto un atto di amore nei confronti dei personaggi”. Privi di una storia che li intreccia, appaiono e scompaiono (dimostrando un’ incredibile capacità di mettersi in gioco, di recitare con naturalezza, dimenticando di essere ripresi) di modo che ogni frammento di vita mostrata rappresenti, in sintesi, l’essenza dei personaggi, in cui risiede tutta la loro forza poetica. Che continua oltre i limiti del tempo del documentario.
La poeticità stabilisce un contatto diretto con la sacralità, che è la cifra del mistero di un luogo e dei personaggi che lo abitano, di cui Rosi dona allo spettatore un’ occhiatina furtiva senza svelare la loro complessità. La sacralità, e al tempo stesso la magia del documentario, consiste nella trasformazione di un luogo piuttosto squallido, scandito dal ronzio continuo delle auto nella piastra rovente di cemento, in uno spazio capace di rendere racconti delle vite ordinarie. Il raccordo si trasforma in un cerchio magico che ci conduce verso altri mondi, nei dialoghi fra un padre intellettuale che intrattiene la figlia studiosa con le sue riflessioni su Durrell, nel camper di due prostitute incasinate con la legge, nei salotti di un principe in cui si incontrano gli attori di un fotoromanzo, nell’ironia coinvolgente di un pescatore d’anguille che legge un servizio sulla pesca delle anguille, in un biologo che registra i suoni delle palme morenti, negli interni barocchi e anche un po’ trash di nobili piemontesi inspiegabilmente finiti ad abitare lì, negli sguardi di altri personaggi che osservano dai finestroni quadrati dei loro palazzi la vista sul raccordo, riuscendo a scorgervi angoli di bellezza.
Contro il mito della velocità degli anni ’60 di cui il raccordo è simbolo, contro quella macchina celibe (felice invenzione di Duchamp per descrivere opere dal funzionamento e l’utilità sconosciuti) che Renato Nicolini intravedeva in uno strumento che, anziché organizzare il traffico da e verso Roma, funzionava solo come cesura nei confronti delle contraddizioni della città, Sacro GRA è il prodotto di una lentezza ontologica e della spinta ad uscire da quella sospensione invisibilizzante attraverso frammenti di esistenze ordinarie che popolano quello spazio. Il documentario, insieme ai suoi personaggi, sospende quella sospensione. E da visibilità alla “città invisibile” costruita intorno allo spazio del raccordo. 
Il leone d’oro a Sacro GRA è un atto di coraggio, fatto da chi crede nel potere rivoluzionario del cinema e nel suo dovere morale di aderenza all’esprit du temps. Che Sacro GRA coglie sia nell’individuazione di una certa crisi identitaria che, più di quella economica, marca le vite delle moltitudini; sia in un movimento che consiste nello spingere sempre più avanti la barriera fra fiction e documentario, nello spostare il lungometraggio fuori da ogni canone di raccontato. 
 
Elisa Fiorucci

EL-STOUH (LES TERRASSES)

Giovedì 12 Settembre 2013 21:12 Pubblicato in Recensioni
“Sappiamo che il cinema non può cambiare il mondo, ma sappiamo anche che il cinema può crearlo un mondo”. Si era espresso così Bernardo Bertolucci durante la cerimonia d’apertura di questa 70esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Quella frase conteneva la disillusione seguita a quel ’68 cinematografico da lui vissuto in prima linea, quando era forte fra gli autori (parliamo degli europei, ma soprattutto dei francesi) l’idea che fare cinema fosse, in prima istanza, un fatto politico, libertario, un fatto importante insomma. 
Merzak Allouache, algerino naturalizzato francese, quell’illusione non l’ha persa. Lo ha dimostrato con le dure panoramiche sul suo paese, offerte dai film precedenti (da “L’autre monde” 2001 a “Tamanrasset” 2008), quando vivere l’Algeria con una telecamera in mano significava rischiare in prima persona; ce lo dimostra, oggi, con questo film di fiction che prende spunto dalla realtà sociale algerina e dalla violenza di cui è intrisa.
Les terrasses altro non è che il racconto, e la critica, di una società che, lungi dall’essere sulla strada della ricostruzione (politica, culturale, morale), è intrinsecamente malata, pur non riconoscendosi in quanto tale. Allouache lo sottolinea con le immagini e con le parole “L’algeria sembra paradossalmente serena, ripiegata su sé stessa, quasi indifferente. Ma la realtà è un’altra”.
Dal lungomare di Algeri, che appare nella prima sequenza, la cinepresa si sposta (o meglio, si eleva) per abbracciare i diversi quartieri e narrare cinque storie che si sviluppano in un percorso temporale scandito dai cinque richiami giornalieri del muezzin. La visuale si alza e riprende i personaggi dall’alto di terrazze divenute vere e proprie abitazioni, location scelte come simbolo del cambiamento della vita nella città, luoghi di appropriazione illegale e incontrollata, spazi in cui scoppiano le contraddizioni di una società violenta, caotica, dimentica di un passato rivoluzionario e della sua regale bellezza.
Gli episodi mostrano situazioni al limite, caricate della forza della finzione, volutamente paradossali. Vediamo, quindi, sfilare dinnanzi ai nostri occhi: un vecchio semi-impazzito, rinchiuso in una gabbia, a cui si avvicina solo la nipotina, nella sua giovinezza innocente; una ragazza vittima di violenze domestiche che invia il proprio urlo di dolore alla sua dirimpettaia, la quale sperimenta la forza di un amore omosessuale vietato. Ed ancora: un padrone di casa spietato che non si fa scrupoli a sfrattare una famiglia dalla terrazza che sostiene appartenergli; un sedicente Imam che sfrutta la credulità popolare per estorcere denaro; un omicidio commesso per chissà quale regolazione di conti.
Da queste terrazze, da questi quartieri, già scenario cinematografico del maestro Pontecorvo, si alza la voce di un regista che non ha paura di dichiararsi pessimista, sia in merito alla sua società violenta - prodotto di decenni di forte instabilità politica seguita all’indipendenza - sia in merito ad un cinema che rischia di morire, con la chiusura delle sale e il totale disinteresse della popolazione algerina verso di esso. Eppure il suo pessimismo è motore che muove l’azione del filmare, è atto di resistenza nei confronti di un movimento di violenza e di cancellazione della memoria storica che uccide l’umanità insieme ai quartieri da essa abitati. Pochi, incantevoli sprazzi di luce provengono dallo scambio intimo fra alcuni protagonisti, dalla complicità tra persone sconosciute, dalla musica, allegro collante d’amicizia, a dimostrazione che un residuo di umanità sospeso fra i palazzi ed il cielo permette al mondo di non implodere. 
Un tale atto di responsabilità nei confronti della missione politica del cinema potrà non ricevere alcun premio (come di fatto è stato nella kermesse veneziana che si è appena conclusa) ma rappresenta uno strumento, ben costruito, di indubbio valore sociale e storico, sia per il pubblico algerino che per quello internazionale. 
 
Elisa Fiorucci

Oblivion

Mercoledì 04 Settembre 2013 00:13 Pubblicato in Recensioni
Oblivion è l'ennesima proposta che l'odierna Hollywood ha da offrire: un altro cinecomic.
La storia di base non l'idea più innovativa o strabiliante che ci sia ma, ragionevolmente, funziona.
Il film meno: il director e con lui Tom Cruise stesso, che ha voluto riscriversi personalmente il proprio prsonaggio, presentano uno scenario di deprimente futuro prossimo, ovattato, monocromatico nelle invasive sfumature di grigio, scandito da un io narrante ed appiattito (anche tridimensionalmente) dai postumi di un evento apocalittico.
Per molta parte del film si rimane insopportabilmente immobili vittime di pause riflessive, inquadrature sommese, molti (troppi) primi piani di attori con lo sguardo sofferente ma, ancor più, perso nel vuoto.
Sembra ingenuità da cineasta ma fa sospettare, piuttosto, un tentativo di dare al film un profilo, almeno estetico, vicino alla fantascienza kubrickiana.
L'obiettivo non è raggiunto:tra dialoghi piatti, cloni spaesati nel deserto, pause di mutismo interrotte da battute evitabili, il film prosegue e quasi termina senza smuovere nulla nello spettatore accompagnandolo deludentemente fino al termine senza rivelargli realmente nulla.
Tutto è edulcorato e privato di carattere: Cruise si perde in flashback scontati peggiori che in Solaris e vaga in ambienti design asettici ed eleganti ma niente affatto fantascentifici in quasi assenza di commento musicale ed anche le scene "d'azione" sono compassate e stantie. Sarebbe bastato poco per ottenere qualcosa di molto più convincente.
 
Luciano Sorace

Senza Pace

Martedì 03 Settembre 2013 23:48 Pubblicato in Recensioni
Lorenzo (Max Pica), aspirante pittore e pony express part-time, conosce Lena (Roberta Bizzini), ragazza belga in fuga da una storia d'amore finita male. Tra Lorenzo e Lena nasce una travagliata, seppur breve, relazione, alla quale fanno da sfondo situazioni grottesche e personaggi contraddittori. Nella totalizzante location del Pigneto, periferia romana multietnica, eppure ancora così chiusa e piena di rabbia, i due protagonisti si rincorrono per poi perdersi ogni volta,  separati, come in una delle scene finali, da una sottile lastra di vetro che per loro sembra invalicabile. 
 
Terza opera del collettivo Cinematografo Poverania, Senza pace è un film che si impone come uno spaccato della realtà, pur non entrandoci mai veramente dentro. Il distacco dei personaggi da quel mondo è fortemente marcato dall'uso di effetti digitali; gli attori hanno recitato per buona parte delle scene davanti a un green screen allestito all'interno del Forte Fanfulla (noto punto di ritrovo della movida romana) e raramente hanno calpestato i marciapiedi di quel quartiere, che, da protagonista diventa solo uno sfondo distante e sfocato. Gli spezzoni di dialoghi (alcuni vere perle nazional-popolari) raccolti (pare) direttamente da quelle strade e sparsi nella sceneggiatura non bastano a rendere il film un ritratto generazionale, se poi è questo che vuole essere, e le intenzioni degli autori finiscono col diventare contraddittorie come il quartiere descritto (fingere la realtà o raccontare la finzione?).
 
I registi Fabio Morichini, Matteo Sapio, Enrico Tacconelli confezionano un'opera acerba, che naufraga in un costante pressappochismo estetico, a volte consapevole della sua amatorialità, a volte meno. 
 
Un film che combatte i luoghi comuni attraverso altri luoghi comuni. Il pregio sta forse nel fatto che i luoghi comuni di cui gli autori si avvalgono siano del tutto nuovi per il cinema italiano. Senza pace taglia infatti il cordone ombelicale con uno stucchevole cinema nazionale e si allontana anni luce da quell'ormai fiacco meccanismo autorial-produttivo, che altro non fa se non propinarci isterici drammi familiari di borghesucci annoiati. Qui i protagonisti sono persone ruvide,  di quelle con la ruggine addosso, che cercano di trovare gratificazione nella mediocrità in cui sono destinate a vivere. Ottima la colonna sonora, composta dai musicisti che da sempre frequentano il Forte Fanfulla, la quale, con la sua rabbia, riesce a spargere pathos lì dove le immagini non ne sono in grado. Ma tutto questo non basta a spacciare un film piccolo per un piccolo film.
 
Angelo Santini