Sono tempi bui per la cultura italiana, tempi in cui, vicini a toccare il fondo, qualcosa deve necessariamente cambiare. La fine del 2010 segna a Roma un po' il momento della svolta, di una nuova energica alzata di testa da parte del mondo dei lavoratori dello spettacolo, uniti tutti dalla forte preoccupazione di vedere sempre maggiormente a rischio i loro posti di lavoro e le specifiche competenze individuali. Il 22 ottobre 2010 è una data importante perché viene dichiarato, a seguito di una lunga assemblea, sotto occupazione permanente, uno dei simboli della cultura cinematografica di Roma, la storica Casa del Cinema di Villa Borghese. A capo della protesta troviamo un collettivo nato dall'associazione di varie sigle, facenti capo al mondo dello spettacolo, che prende il nome di Tutti a Casa dal film di Luigi Comencini.
un film di Ivano De Matteo
con Monica Guerritore, Iaia Forte, Antonio Catania, Giorgio Gobbi, Victoria Larchenko, Myriam Catania, Elio Germano
Grand Prix e CICAE AWARD 2009
Festival Internazionele del Film di Roma (27-31 ottobre 2011) .
LO SGUARDO NON MENTE è un'esposizione fotografica che mette in mostra alcuni degli scatti più significati presenti all'interno del catalogo edito "Drago" con la prestigiosa introduzione di Marco Muller. Una mostra insolita che tenta di spiare gli sguardi più intimi e privati di attori e attrici, ma anche registi e sceneggiatori. Tutti immortalati dall'obiettivo onesto e attento di Riccardo Ghilardi.
L'artista utilizza la fotografia per cogliere l’immediatezza della risposta, in tutta la sua spontaneità.
La pubblicazione del catalogo segna un’ulteriore importante tappa di quello che è stato un vero e proprio evolversi del progetto, una crescita dovuta alle numerose adesioni di attori, registi e professionisti del cinema all’iniziativa.
La mostra Lo sguardo non mente è già stata esposta, infatti, all’Auditorium Parco Della Musica di Roma, Mostra Ufficiale IV Edizione del Festival Internazionale del Film di Roma (15 Stampe); alla B>Gallery P.zza S.Cecilia Roma (21 Stampe); alla Casa del Cinema, Villa Borghese Roma, in occasione della V Edizione del Festival Internazionale del Film di Roma 2010 (24 Stampe); al Teatro Petruzzelli, Grand Hotel Oriente Bari in occasione del BIF&ST, Festival Internazionale del cinema di Bari
Come spiega lo stesso Ghiraldi "è un progetto fotografico, un set con fondali di velluto blu e alcuni set esterni simboli degli argomenti toccati nelle domande. Una poltrona in ferro lavorato a mano che rappresenta un insieme di spirali e punti interrogativi, un po’ come la vita! Ho invitato a sedersi su questa poltrona un certo numero di attori e attrici italiani di diverse generazioni e il gioco è cominciato. Una domanda ogni volta diversa... e via con lo scatto che ferma l’espressione prodotta sul volto dell’ospite.
Ho cercato quel “centoventicinquesimo di secondo” dove lo sguardo non mente”.
Tra i volti in catalogo troveremo : Anita Caprioli, Simona Cavallari, Daniele Cesarani, Marco Cocci, Ugo Conti, Paola Cortellesi, Ninetto Davoli, Ennio Fantastichini, Donatella Finocchiaro, Giuseppe Fiorello, Claudia Gerini, Elio Germano, Marco Giallini, Antonello Grimaldi, Alessandro Haber, Sabrina Impacciatore, Valerio Mastandrea e molti altri.
info: www.dragolab.com
Un progetto che si muove su equilibri faticosi. Un film da mettere tra le buone note d’autore quello di Ivano de Matteo, secondo lungometraggio del regista che purtroppo non ha trovato distribuzione nelle sale italiane; diverso il suo destino in Francia, dove distribuito da Bellissima e premiato in diversi festival fra i quali Annecy, ha riscosso grande successo di pubblico e critica.
La bella gente è la storia di Alfredo (Antonio Catania), architetto, di sua moglie Susanna (Monica Guerritore), psicologa, della loro famiglia borghese, radicata in un benessere sociale attento ai bisogni dei meno fortunati.
Alfredo e Susanna vivono a Roma ma trascorrono solitamente le vacanze nella villa di campagna. Un giorno Susanna, andando in paese, nota una giovanissima prostituta (Victoria Larkenco) che viene maltrattata e picchiata da un uomo sulla strada. Quell'incontro inevitabilmente scuoterà le vite di tutti i protagonisti, che si intrecceranno, scavalcheranno, si imporranno le une sulle altre nel tentativo di affermare uno status quo, attraverso l'affettazione di valori, ritagliati a colpi di accetta, su un cinico modello classista.
Dalla sceneggiatura di Valentina Ferlan, emergono tematiche forti, con uno stile ironico e scarno, a tratti minimalista, teso a raccontare più per immagini che per sentito dire. Rivelazione di una cultura moralista, che vuole lavarsi la coscienza con plateali gesti di solidarietà, sbandierati per essere recepiti e accolti con enfasi, sfondo di finta purezza.
Una macchina da presa che si muove con discrezione, quella di De Matteo, che spia nell’intimo i personaggi e si mette a totale servizio degli attori.
Non ci sono vittime o carnefici, c'è solo presenza aberrante di mondi incompatibili, non comunicanti, dove i silenzi forse sono più eloquenti di qualsiasi altro gesto o parola. C'è rabbia che emerge per il niente che può rimanere solo tale, per una speranza nata morta, di vite destinate a perdersi non sollevandosi mai.
Colpisce il cinismo eclatante sviscerato dall'ottimo lavoro dell'intero cast, con una direzione che compatta il tutto senza sbavature, attraverso un gioco di specchi che manifesta tutta la superficialità dell'agire umano. I protagonisti si ammirano in un primo momento, infastidiscono in un secondo, perché, come nella vita a volte, è tutto così vacuo e amaro.
Come spiega la stessa Guerritore parlando del suo personaggio “ il problema nasce quando una persona con la sua sola presenza comincia a disgregare i tuoi rapporti familiari, le tue cose, le tue proprietà sia affettive che materiali. Quindi il “graffiante” è proprio questo: che cosa succede quando la persona a cui tu dai comincia a prendere? Allora c’è un fermo, a quel punto dici NO.”
E tutto fila, e scorre senza scosse com'è nella fluidità dei gesti imposti dalla vita, quando anche le ingiustizie più grandi ci vengono somministrate senza battere ciglio. Noi ce lo aspettiamo come possa finire, ma lo stesso proseguiamo sperando in un happy ending immancabilmente disatteso. Triste ma fin troppo reale.
Renilde Mattioni e Chiara Nucera
Pietro (Elio Germano), di notte addetto alla preparazione dei cornetti e di giorno aspirante attore, prende in affitto un appartamento nell'elegante e storico quartiere di Monteverde vecchio, nonostante i dissensi dell'ingombrante e buffa cugina Maria (Paola Minaccioni). Tutto sembra perfetto se non fosse che, durante la ristrutturazione dei locali, Pietro nota la presenza di "particolari" coinquilini, vestiti in abiti d'altri tempi, visibili a nessun altro che a lui. Dopo un primo momento d'impasse, inizia a familiarizzare con loro, scoprendo che si tratta della compagnia teatrale Apollonio, scomparsa in circostanze misteriose nel 1943. Mentre prosegue tra alti e bassi la sua vita, instaura un rapporto intenso con questi stravaganti personaggi, a tal punto che decide di aiutarli mettendosi sulle tracce dell'attrice Livia Morosini, un tempo vedette della compagnia, che ora vive sotto falso nome. Questa ricerca aprirà le porte ad una verità difficilmente confessabile...
20 luglio 2001. In un torrido pomeriggio edizioni speciali dei telegiornali annunciano la morte di Carlo Giuliani, ventitreenne ucciso da un carabiniere durante l'assalto ad una camionetta. In quei giorni un importante avvenimento ha segnato l'Italia, scuotendola politicamente, facendo aprire brevemente gli occhi su un fervente movimento di oltre 300mila persone, provenienti da ogni parte del mondo, che invade Genova, sede del G8, allo slogan di “un mondo diverso è possibile”. Sotto la cadenza di passi decisi, la città vacilla snervando la falsa armonia di un summit che, facendo il gioco delle multinazionali, annienta i diritti dei singoli.
Un racconto scarno, minimalista, seppur traboccante di pathos, che evita i sensazionalismi non ammettendo giri di parole. Solo i fatti contano e i fatti sono proprio quelli raccolti minuziosamente negli atti giudiziari, nelle inchieste, nelle testimonianze, nei libri fuoriusciti dalla notte della tremenda “macelleria messicana”. È il 21 luglio, è passato un giorno dalla morte di Carlo, e al calar della sera, la polizia spalleggiata da carabinieri e Digos, fa irruzione nella scuola Diaz, una delle strutture adibite a dormitorio che accoglie i manifestanti. Ciò che ne esce è un quadro destabilizzante in cui niente è fuori posto, nulla affidato alla pura immaginazione perché cronaca scrupolosa degli accadimenti, una pellicola di altissimo valore cinematografico ma soprattutto civile, una rivelazione per quanto riguarda lo stesso Vicari che non si era mai spinto tanto lontano. Fitta materia creata attraverso contrasti sincopati, rallenty funzionali a riavvolgere il filo della narrazione per riprenderlo da più punti di vista, ritmi serrati. Una guerra vista coerentemente attraverso lo sguardo di chi l'ha fatta e di chi l'ha subita, nella dilatazione di spasmi di dolore che si prolungano divenendo infiniti, traducendo crudeltà gratuite che si sarebbero riscoperte poi solo a Guantànamo.
È lotta, sangue, ingiustizia è “la più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale”, citando Amnesty International.
E tutto si ferma quando chiudi gli occhi anestetizzato dai colpi del manganello, dopo aver alzato le mani al cielo nel segno di una resa (ma da quale lotta?), sorpreso nell'attesa di un nuovo giorno per esprimere il diritto di affermare i tuoi diritti: il diritto di dissentire.
Di chi sono le colpe? Cosa c'era prima e cosa ci sarà dopo? A Vicari non interessa, vuole solo raccontare il momento, le fasi di quei giorni, il trascendere di una furia umana che ha nuovamente infangato l'integrità del nostro Governo, delle forze dell'ordine che invece di proteggere e tutelare i cittadini si sono rese fautrici di barbarie. A cosa serve, qual'è l'effetto? Forse solo a ricordarci chi siamo e cosa non dovremmo mai essere, non dimenticando, nonostante le prescrizioni processuali e provvedimenti mai presi. Tutto questo non ci viene spiegato con parole ma nella maniera più diretta possibile, facendocelo sentire come un violento pugno nello stomaco. Allo scorrere dei titoli di coda si alternano incredulità, sgomento, smarrimento perché sappiamo bene che non è fiction ma un dramma che ci portiamo dentro. Vorremmo piangere, sprofondiamo in un pesante silenzio, proprio come quando, 11 anni fa, guardammo il corpo esanime di Carlo, riverso sull'asfalto in una pozza di sangue.
Chiara Nucera
In questo clima distopico, purtroppo reale, dove la presenza di un virus influenzale potenziato all’ennesima potenza sta mettendo in ginocchio la vita di tutti i giorni e l’economia mondiale, anche il mondo del cinema deve arrendersi e chiudere le sue porte. O almeno chiuderle in parte, visto che in questi giorni, in poche sale esce Volevo Nascondermi di Giorgio Diritti (David di Donatello 2010 per l’Anno che Verrà), dopo il successo ottenuto all’ultimo Festival di Berlino appena concluso. Hidden Away, così è stato presentato alla Berlinale edizione 70, letteralmente significa “nascosto”. E forse cade proprio a pennello questo titolo. Stiamo tutti belli nascosti nelle nostre case in attesa di un miglioramento della situazione sanitaria. Celati, coperti e latitanti come il protagonista del film Antonio Ligabue (Elio Germano - Palma d’oro come migliore attore al Festival di Cannes 2010 per la sua interpretazione ne La nostra Vita), pittore e scultore italo (l’Emilia è la sua vera casa) svizzero famoso per la sua arte naif. Ma al contrario dell’artista noi siamo convinti che le cose miglioreranno, per lui nascondersi è stato un obbligo per tutta la sua vita. Elio Germano per la sua performance ha vinto l’Orso d’Argento alla Berlinale. Il film sta tutto nella prova one man show dell’attore romano. Che a noi è sembrata un po’ sopra le righe. Ricade troppo spesso nell’overacting. Il film non giova di questo e con l’andare del tempo la pellicola rimane solamente rinchiusa nelle smorfie di dolore del protagonista; non riuscendo fino in fondo a farci capire quanto l’arte di Ligabue lo rendesse intimamente felice e l’importanza che ha avuto per i posteri. Non si scorge mai un barlume di luce.
Antonio Ligabue (1899-1965), chiamato Toni e successivamente “El Tudesc”, fin dalla giovane età ha una crescita incolore, colma di solitudine ed amarezze famigliari. Il colore, al massimo della sua saturità’, ci penserà lui ad usarlo assiduamente nei suoi dipinti. L’infanzia la vive in Svizzera in affidamento ad una coppia con la quale non ha molto dialogo. Fin tanto da attaccare fisicamente la madre adottiva. Cacciato dalla nazione elvetica trova rifugio sulle rive del fiume Po’. Vive di stenti ed incute timore alla gente dei poderi limitrofi. In lui pervade sempre un senso di smarrimento. L’unico modo per sperare ed evadere da pensieri attanaglianti è quello di dipingere. I suoi quadri hanno come protagonisti animali selvaggi della foresta, che aggrediscono quelli più in basso nella catena alimentare. Ma la vegetazione non è quella lussureggiante dei tropici, è la natura della cosiddetta “bassa” fatta di fitti boschi e pianure, sempre con il suo amato fiume Po’ presente. Quando incontra Renato Marino Mazzacurati la sua vita cambia e capisce che il suo sostentamento può arrivare dal suo modo di concepire l’arte. Il suo aspetto fisico non lo aiuta ad interagire con il mondo. In più la sua vita gitana e paranoica non collima con gli ambienti degli intellettuali, ma riesce comunque a far breccia e a guadagnare palate di denaro. Soldi tutti spesi in motociclette, la sua vera passione oltre la pittura. Non si toglierà mai, anche dopo la fama, quell’aurea di diverso.
Giorgio Diritti questa volta non è riuscito appieno a convincere. Non solo la direzione del film non è fluida ed accattivante, ma anche la scrittura ha dei problemi di fondo (scritto con l’aiuto di Tania Pedroni). Il registro è sempre mono corda. L’intensità narrativa non decolla mai e l’atmosfera è piatta. Interessante, come sempre nei film del regista bolognese, rimane la messa in scena dei luoghi in cui si svolge la vicenda. Ottima la ricostruzione degli ambienti rurali in cui ha vissuto Ligabue. I cascinali, dove al loro interno si consuma la vita di campagna con la pasta fatta in casa e il formaggio sempre fuori pronto per essere grattugiato, portano lo spettatore in quell’epoca fatta di luoghi e costumi genuini ed incontaminati. Il supporto della scenografa Ludovica Ferrario è stato fondamentale. Questo è un particolare del film, che riesce a far sentire a proprio agio lo spettatore.
Il vero difetto di Volevo Nascondermi è quello di non approfondire l’arte del grande artista. Non che si voglia che ci vengano spiegati i quadri, ma soffermarsi soltanto sullo stato instabile di Ligabue è assolutamente riduttivo. Al film manca decisamente una spinta emotiva. Filo ricattatorio perché non esce mai dalla rappresentazione di un Ligabue malato e problematico. Puntare il riflettore sulla diversità intesa come genio avrebbe dato alla pellicola la giusta forza e quel grado di approfondimento corretto, che avrebbe innalzato la figura del pittore e del film stesso.
Prendere l’esempio da un riuscitissimo film come ll mio piede sinistro di Jim Sheridan. L’handicap in questo caso non è solo portatore di distacco dalla vita, ma il premio Oscar Daniel Day Lewis viene descritto come coraggioso e innamorato di quello che la vita gli offre: la sua pittura. Nel film di Diritti questo modus operandi più edificante non è presente.
David Siena
E’ sempre appianato il percorso di chi decide di narrare una pagina spinosa della storia del nostro paese appellandosi agli stilemi del classico racconto drammatico, rifacendosi magari alla vecchia scuola del cinema d’indagine. Meno facile è invece portare sullo schermo quello stesso fatto di cronaca partendo dal basso, dal dramma individuale, scegliendo quasi i toni della commedia. Perché con Palazzina Laf Michele Riondino supera il varco del genere drammatico e anche quello della ricostruzione analitica, dispiegando una storia di difficile nomenclatura per la sua natura di ibrido tra commedia amara e dramma ironico. I presupposti fermandoci anche soltanto all’impianto narrativo ci sono tutti per convincere della riuscita di questo piccolo film(che piccolo poi non lo è affatto) e delle capacità registiche di Riondino. La vicenda è ambientata negli anni novanta, più precisamente in quel delicatissimo momento in cui l’Ilva di Taranto, dopo la privatizzazione passò in gestione ai Riva. Attraverso la storia di Caterino La Manna (Michele Riondino), uno dei tanti operai all’acciaieria, si ripercorre quella pagina tormentata e dolorosa all’interno della fabbrica, un momento storico che lasciò un segno indelebile per le vite di chi vi lavorò e per tutti quelli che finirono per ammalarsi fatalmente a causa delle inalazioni di amianto. E’ una Taranto che fa solo da sfondo quella raccontata da Riondino, dove non c’è spazio per il colore, per il mare o la spensieratezza. Ingaggiato da un insidioso dirigente (Elio Germano) per tenere d’occhio e spiare tutte i movimenti sindacalisti nel ventre della fabbrica, La Manna finisce per fare carriera e conquistarsi (come molti) una promozione ai piani alti, arrivando alla Palazzina Laf. Ma, qui c’è poco spazio per l’entusiasmo, dal momento che La Manna approda in un non luogo, nella fattispecie un edificio realmente esistito in cui venivano confinati tutti gli operai aventi un profilo altamente specialistico. Un ricatto ad opera della direzione (prima forma ufficiale di mobbing sul luogo di lavoro in Italia) la quale stabiliva chi fosse sgradito. Da quel momento in poi le alternative per chi finiva nella lista nera erano due: accettare di fare gli operai senza alcuna formazione oppure finire in un’ala dello spazio siderurgico adibita a pseudo ufficio dove passare le ore di lavoro senza uno scopo preciso, in un perenne stato di inattività logorante. L’oblio, il fardello della noia, rendevano la vita di queste persone insostenibile tanto da farli precipitare in una spirale di alienazione e smarrimento. Ma come ogni cosa, anche questa situazione ai limiti dell’assurdo conoscerà la parola fine con l’arrivo di controlli e ispettorato del lavoro grazie ad una soffiata in procura. E’ un’Italia che conosciamo purtroppo molto bene, le cose in fondo non sono poi tanto cambiate nel corso degli anni, ma la maggiore consapevolezza verso temi così scottanti e pericoli irreparabili per la salute dei cittadini, hanno portato a dibattere e lottare per la chiusura di realtà di un sistema malato e carnivoro. Riondino punta la lente d’ingrandimento sul profitto del singolo e su quanto esso abbia pesato a discapito del benessere della collettività. Una tragedia quella dell’Ilva che si perpetrò negli anni senza concludersi definitivamente dopo il processo, ma lasciando stigma profonde in tutti coloro che si ammalarono fisicamente e psicologicamente. Palazzina laf è una riflessione toccante e originale, su vita e lavoro, non di meno sul valore sociale che riveste il mezzo cinematografico quale strumento di analisi e conoscenza per le generazioni attuali e future.
Giada Farrace