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The Counselor

Sabato 18 Gennaio 2014 14:55 Pubblicato in Recensioni

“Indurirono il cuore come un diamante per non udire la legge e le parole che il signore degli eserciti rivolgeva loro mediante il suo spirito, per mezzo dei profeti del passato”, recita Zaccaria, nel testo biblico.

E dall’acquisto di un diamante, di pregiata caratura e taglio antico, si dipana la complessa sceneggiatura di Cormac McCarthy, una sorta di rarefazione, in forma drammatica, delle istanze presenti nella cosiddetta “trilogia della frontiera” e ancor prima, con personaggi senza nome (come lo stagnino in “Il buio fuori”) e le radure desertiche, inospitali, site al confine fra il Messico e gli Stati Uniti (“Cavalli selvaggi”, “Oltre il confine”). 
Entro il limes tra terre incolte e civiltà corrotte e alienanti, si muovono dei personaggi spaesati, soli, ognuno dissonante rispetto all’altro, quasi fossero tratti dalla piece beckettiana “Finale di partita”: l’avvocato, abiti impeccabili, ma unghie sporche (straordinario Michael Fassbender che  traccia la propria inevitabile caduta con magistrale adesione emotiva, nudo, ancora una volta, di fronte al peccato di esistere), e nessun nome per lui, sembra quasi incapace di sedersi o lo fa per brevissimi istanti, quasi sempre sulla parte distale della seduta o, comunque, con un’energia propria di chi si sta muovendo. I personaggi che lo circondano sembrano, di contro, incapaci di abbandonare le oasi nelle quali sono rintanati e, se lo fanno, si tratta di un viaggio senza ritorno. Essi sono cassandre dell’ineluttabile, ma allo stesso tempo forieri del dubbio che non consentirà loro di salvarsi, in una spirale di cupidigia, amore immaturo, carnalità senza corpi, fantasmatica, come la prima scena ci suggerisce iconicamente.
E, come nel testo di Beckett, fra di essi si gioca una partita a scacchi il cui svolgimento, fino a quel punto, ci è dato sapere solo per piccoli frammenti, presto inessenziali, come una storia torbida della quale a nessuno, in fondo, importi più. La posta in gioco è un’altra: la sopravvivenza, una sopravvivenza ferina, quella del ghepardo che rincorre la preda, ma che a sua volta, troppo furbo per diffidare della propria eternità di predatore, soccombe di fronte all’uomo che gli mette al collo uno scintillante guinzaglio. 
E per l’uomo stesso – o per la donna, non ludi magister, ma ingranaggio inconsapevole e fallace, come il ghepardo - abbandonato da dio, ricusato o cercato invano, resta il lupo della celebre locuzione di Erasmo, “homo homini aut deus aut lupus”.
Sopra tutti un fato imperscrutabile che detta la legge dell’essere con il proprio lunatico umore: del diamante, del quale si conosce l’inizio e non la fine, non basta sondare la purezza, la trasparenza, la durezza, neppure il taglio. Va scorto il difetto impercettibile all’occhio superbo, quella particella microscopica che è forse il vero capitale umano. E non vale niente.
La mano registica di Scott, al servizio di un testo tanto denso e stratificato, risulta composta, ritmata, ma mai intrusiva. Nelle mani di David Cronenberg questo ottimo film sarebbe probabilmente risultato un capolavoro.
 
Ilaria Mainardi

Venere in Pelliccia

Sabato 11 Gennaio 2014 20:34 Pubblicato in Recensioni
Vanda, prosperosa attricetta, arriva in ritardo all’audizione per il ruolo di protagonista nell’adattamento teatrale del romanzo erotico di Von Sacher Masoch, che dà anche il titolo alla pellicola. Nel teatro è rimasto solo Thomas, regista e adattatore dello spettacolo, il quale, raggirato dall’invadenza della donna, le concede senza troppe aspettative un’audizione fuori tempo massimo. Vanda si rivela perfetta per la parte già dalle prime battute. Thomas ne rimane ammaliato e mentre fuori urla la tempesta, anche lui si rende conto di non essere così diverso dal protagonista maschile del suo adattamento.
 
Le vicende si svolgono interamente in un teatro. Il palcoscenico è ancora allestito dal precedente spettacolo. Un adattamento musicale di Ombre Rosse, specifica un po’ stizzito Thomas.
E’ lì che si muovono i due protagonisti, fra le macerie di kolossal hollywoodiani che hanno depauperato il teatro della sua identità.
 
Se ai suoi albori il cinema veniva considerato da molti intellettuali una pratica di serie B rispetto alle altre arti, Venere in pelliccia sbandiera virtuosamente l’emancipazione dell’arte cinematografica. La fotografia e i movimenti di macchina allontanano il film dai fallimentari esempi di teatro filmato. 
Ogni elemento si presta a molteplici chiavi di lettura: l’enorme cactus sul palcoscenico è prima un elemento del deserto culturale in cui si muovono i protagonisti (reduce dal musical Ombre Rosse), poi un rimando all’architettura greca, infine una dominante forma fallica. Il palcoscenico stesso è sia teatro che inconscio, dove si celano i desideri rimossi di Thomas, i quali verranno fuori una volta abbattute le barriere fra persona e personaggio durante la lunga audizione.
Lui e Vanda entrano ed escono continuamente dai personaggi che interpretano sul palco; quei personaggi che sono sia scudo che chiave delle rispettive perversioni sessuali.
 
La figura dell’attrice e quella dell’autore finiranno quindi con il confondersi, così come schiavo e padrona, realtà e finzione, teatro e cinema, in qualcosa che somiglia in parte ad un abbozzo di realismo ontologico; un realismo di tipo strutturale, interno al linguaggio, ottenuto attraverso un processo di sottrazione lontano da qualsivoglia spettacolarità (il film ha un’unica location) e da istanze veriste/naturaliste. 
 
 
Il cinema prende vita grazie allo spazio teatrale e il teatro fa lo stesso grazie al dispositivo cinematografico: durante l’audizione, l’assenza degli oggetti di scena nella partitura fisica dei protagonisti viene accompagnata da effetti sonori che ne compensano l’assenza stessa (il rumore della tazzina di thè e quello della penna che scorre sul foglio di carta). Ed ecco come il metodo delle azioni fisiche senza accessorio teorizzato da Stanislavskij si arricchisce di efficacia estetica attraverso un intelligente uso dell’audiovisivo.
Venere in pelliccia è un film che riflette sulla messinscena come gioco dell’artificio e sul rapporto tra arte, finzione e inconscio. L’unica assenza incolmabile è quella del pubblico, senza il quale il teatro non vive (l’incontro dei protagonisti non basta a restituirne l’essenza) rimanendo irrimediabilmente confinato nell’anticamera di se stesso. Nonostante questa macchia, Polanski sembra cogliere comunque il punto nodale dello stile moderno nel cinema, creando un legame imprescindibile fra riflessioni metalinguistiche e consapevolezza del mezzo cinematografico.
 
Angelo Santini

Lacune Binarie. Il restauro dei film e le tecnologie digitali

Martedì 07 Gennaio 2014 13:47 Pubblicato in News
 
Un discorso analitico sui modi e i caratteri del restauro digitale (...) con una competenza che va dall’esperienza concreta in laboratorio alle questioni teoriche relative al restauro. (...)
E nell’attraversamento di modalità operative sostenute dalle grandi potenzialità delle nuove tecnologie, il libro di Rossella Catanese apre al sogno di ogni appassionato di cinema:  ricuperare nella sua integrità tutto il patrimonio cinematografico.
 
Così Paolo Bertetto, professore ordinario di cinema nel Dipartimento di Storia dell’Arte e Spettacolo de La Sapienza, introduce il lavoro di Rossella Catanese, uscito nel novembre 2013 per la collana Cinemaespanso di Bulzoni Editore.
 
Lacune binarie nasce come ricerca sul panorama del restauro cinematografico, tra essenza analogica e innovazione digitale. Esplora uno degli aspetti più importanti del dibattito attuale nell’ambito dei Film Studies: il problema della conservazione del materiale cinematografico, nella sua duplice istanza estetica e storia, patrimonio dell’umanità e parte della memoria collettiva. Un lavoro introdotto dall’esplorazione delle due principali linee interpretative nel discorso sul digitale, tra innovazione radicale ed evoluzione.
Lo studio dell’analisi del film diventa così la base concettuale di una ricerca svolta direttamente sul campo, nel dialogo con le tecnologie del settore. 
 
 
Rossella Catanese (Reggio Calabria, 1981) è dottore di ricerca in Tecnologie digitali e metodologie per la ricerca sullo spettacolo, nonché tutor del master in Restauro Digitale Audio-Video presso la Sapienza - Università di Roma. Attualmente insegna Italian Cinema and Society all’Università Lorenzo de' Medici Institute di Firenze. Ha pubblicato vari saggi e partecipato a numerose conferenze internazionali tra Madrid, Glasgow, Roma, Copenaghen, Firenze, Napoli e Gorizia.

Scadenza Bando:  26 febbraio 2014

 
Il concorso è gratuito ed aperto a cortometraggi italiani e a cortometraggi stranieri realizzati da autori italiani. Sono ammesse opere di fiction a tema libero, senza restrizioni di genere,compresa l'animazione e il documentario. La durata delle opere non deve superare i 22 minuti (titoli inclusi) e l'anno di produzione non deve essere antecedente al 2012. La manifestazione avrà luogo nel mese di aprile.
 
 
Per partecipare consultare www.bibbienafilmfestival.it