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Il libro della giungla

Mercoledì 13 Aprile 2016 21:58 Pubblicato in Recensioni
"Bastan poche briciole" o forse no, non basta solo questo per realizzare la versione live action di un classico Disney che ha incantato due generazioni. Dopo aver addolcito "Maleficent", aver rispolverato fedelmente "Cinderella", questa è la volta de "Il Libro della Giungla". Con la regia di Jon Favreau, il viaggio di crescita e scoperta del piccolo Mowgli diventa un polpettone di CGi e recitazione tradizionale, adattissimo per i gusti dei bambini di oggi meno per quelli di "ieri". Educato dalla pantera Bagheera, adottato dal branco dei lupi sotto la guida del saggio Akela e l'istinto materno di Raksha, successivamente tentato da una vita tranquilla tra pisolini e dolce miele dall'orso Baloo, Mowgli dovrà durante la sua avventura (ricca di incontri bizzarri) difendersi e scontrarsi con la tigre Shere Khan che su di lui vuole riversare tutto l'odio che prova per gli esseri umani. Se per Kipling autore del romanzo di formazione per eccellenza (parliamo del 1894) "la legge della giungla" aveva un forte valore educativo, qui viene sfruttata e definita come uno slogan di "propaganda" di cui non si coglie la vera morale. Gli occhi degli attori umani che danno la voce ai personaggi nalla versione originale (per citarne uno Andy Serkis è Baloo) si fondono con la mocap con i corpi degli animali generati al computer, Weta Digital e Moving Picture Company rispettano la giusta legge del cinema "mai lavorare con gli animali" ottenendo degli ibridi cartoonistici che non hanno nello sguardo né l'onestà delle belve né la forma tangibile dell'uomo. Precisiamo, nessuno avrebbe voluto vedere dei veri animali sfruttati per la pellicola, ma film come Vita di Pi di Ang Lee dimostrano come sia possibile generare qualsiasi tipo di creatura in CGi senza torcere un pelo a nessuno. L'antico detto diceva anche che nello spettacolo non bisogna "mai lavorare con i bambini" cosa che invece qui è avvenuta con successo grazie alla partecipazione di Neel Sethi (13 anni) che interpreta bene il ruolo di " figlio dell'uomo". Il ragazzo ha dimostrato di avere una grande immaginazione considerando che la giungla che ha esplorato sul set era costituita solo da schermi blu e verdi. "Se un cucciolo può farlo allora, non c'è niente da temere" scriveva Kipling, infatti Mowgli è fin troppo coraggioso, non teme nulla, forse solo le punture delle api che lo riempiono di pustole che spariscono con la sola applicazione del miele nella scena successiva (non cerchiamo il realismo in un film con degli animali parlanti ma almeno una coerenza tra una scena e l'altra!). La sorte destinata ad Akela è ingloriosa: oltre ad essere diversa sia dal classico di 49 anni fa sia dal libro è un commiato con lo spettatore totalmente privo di catarsi. Nei film recenti della Disney, troppo spesso per evitare i traumi causati in passato (chi non si è ancora ripreso dalla morte della madre di Bambi? ) si cerca di far evitare ai bambini di conoscere la morte, di questo passo perderemo delle scene memorabili, di ispirazione shakespeariana, che rendevano grandi film come "Il Re Leone".  I fondali, non bisogna negarlo, hanno una qualità eccellente, gli agenti atmosferici cambiano con naturalezza, tutto l'ambiente si percepisce come una proiezione della vera foresta tropicale. Una eco del cartone animato si avverte nella colonna sonora di John Debney: Baloo e Mowgli cantano la celebre canzone "Bare Necessities" che in italiano ha subito dei lievi cambiamenti, Neri Marcoré voce dell'orso, ci dice, durante la conferenza stampa di promozione del film, che è stato lui stesso a decidere queste variazioni per una più coerente corrispondenza con il labiale. Il doppiaggio è ottimo e, dopo quasi 20 anni da quando interpretò il satiro Filottete in Hercules, torna a lavorare ad un film Disney anche Giancarlo Magalli, nel ruolo di Re Louie: "prima una capra ora orango ciccione sceglieranno il doppiatore in base alle fotografie" ha commentato con sarcasmo. L'appeal da videogioco e i colpi di scena decisamente ad effetto, ad una prima visione, così come il rapporto ben giocato tra madre adottiva e figlio di una razza diversa portano l'insieme a funzionare come buon film per le nuove generazioni, intrattiene e porta alla luce i temi della diversità e della tolleranza, ma alla fine (letteralmente) quello che manca è "Lo stretto indispensabile". 
 
Francesca Tulli

Il cacciatore e la regina di ghiaccio

Lunedì 04 Aprile 2016 14:24 Pubblicato in Recensioni

Il primo film di questa saga, Biancaneve e Il Cacciatore (di Rupert Sanders, 2012), è una rivisitazione abbastanza imbarazzante della fiaba con protagonista Kristen Stewart di Twilight, nei panni di una  Biancaneve in armatura, che incantava gli animaletti in CGi e inciampava su ogni ramo del bosco. Il cacciatore e la Regina di Ghiaccio del regista esordiente Cedric Nicolas-Troyan, sequel e allo stesso tempo prequel del precedente, svincolato dall'ombra ingombrante della favola originale, è un soggetto nuovo, un fantasy per adolescenti che ammicca ad altri classici, decisamente più riuscito. La crudele Regina Ravenna (Charlize Theron) era stata sconfitta, dopo un lungo periodo di pace il suo specchio magico (quello delle sue "brame") torna a esercitare il suo oscuro potere e viene rubato. Sarà compito del buon cacciatore Eric (Chris Hemsworth) in compagnia di due nani (non sono più sette ma ci sono) recuperarlo in una lunghissima quest per i boschi. Durante una rissa da bar, quando il cacciatore sta per avere la peggio, una misteriosa donna viene in suo soccorso, Sara (Jessica Chastain) un'altra "cacciatrice" addestrata fin dall'infanzia insieme a lui nell'esercito personale della Regina di Ghiaccio Freya (Emily Blunt). I due, legati dal destino, hanno ben più dei ricordi di infanzia in comune. Al centro della vicenda c'è il lato oscuro del rapporto fra sorelle, l'invidia e la gelosia, quello che manca nel Frozen della Disney, a cui questo film strizza l'occhio più di una volta: quando la regina di ghiaccio entra sulla scena è impossibile non pensare alla canzone "Let It go". La camminata regale, l'abito imponente, il castello, i suoi poteri sono riconducibili ad una versione dark della Elsa amata dai bambini, sembra infatti che il figlio di Charlize Theron durante le riprese abbia detto a sua madre "mamma non sederti sul trono di Elsa" e questo la dice lunga. Chris Hemsworth con i capelli lunghi conserva il look vincente di Thor, il dio nordico che lo ha reso celebre nei cinemacomic della Marvel, e brandisce la sua ascia da cacciatore come il martello Mjolnir. Colleen Atwood, la costumista di moltissimi film di genere (spesso coinvolta nei film di Tim Burton) dà il meglio di sé nell'opulenza dei costumi delle donne: pietre, argento e dettagli finissimi, piume che sembrano scaglie d'oro, una goduria per gli occhi. Lo stesso merito ce l'ha Enzo Mastrantonio, il famoso make up designer di numerosi film e serial Tv italiani e internazionali  ( innumerevoli da Montalbano e Gomorra-la Serie a Moulin Rouge!  Titanic e Avengers: Age of Ultron ). Il dipartimento artistico ha plasmato (in computer grafica) delle creature inusuali, una bella sfida ad altri film con pretese ben più alte come (l'orrendo) Maleficent della Disney, nonostante molte delle persone coinvolte siano le stesse. L'intera pellicola è una eco dei miti nordici e di film già visti, azzardando un paragone esagerato, gli appassionati penserebbero a Labyrinth (1987) se gli descrivessero un fantasy dove c'è una ragazza di nome Sara che viene spiata attraverso gli occhi di un gufo, cercando la città dei Goblin, ma è proprio per questo gusto retro che, spostandosi dalla fiaba riveduta e corretta per adolescenti, fa acquistare a questo film l'aspetto di una avventura per ragazzi senza pretese ma di ottima fattura. 

 
Francesca Tulli

Batman v Superman: Dawn of Justice

Venerdì 25 Marzo 2016 22:01 Pubblicato in Recensioni

Batman e Superman creati rispettivamente nel 1939 e nel 1933, sono i pilastri della DC Comics. Sono gli "eroi" dei "supereroi" ancora prima che la concorrenza prendesse il nome di Casa Marvel come la conosciamo oggi. Senza di loro il nostro mondo, la nostra stessa cultura occidentale sarebbe diversa. Sfido chiunque a trovare una persona in casa che non li abbia mai sentiti nominare. Per questo, a distanza di decenni, il cinema sente il bisogno richiamarli, di innalzare il batsegnale nel cielo e di invocare il salvatore Kal-El di Krypton come fosse un dio. Lo stesso fanno gli abitanti di Metropolis nell'ultimo lavoro di Zack Snyder, ormai famoso nel campo dei cinemacomics . L'idea di mettere i due l'uno contro l'altro sulla carta stampata dei fumetti  era già stata sviluppata moltissime volte (Kingdom Come e The Dark Night Returns per citare  due titoli famosi), Snyder lo fa però in maniera diversa. Dopo vent'anni di scontri, in cui Clark Kent (Henry Cavill) si trova a dover togliere gli occhiali neri da giornalista sfigato terrestre, per vestire i panni di Superman e andare in soccorso della amata Lois Lane (Amy Adams), l'umanità si interroga sul bisogno di avere un eroe e conta i morti che inconsapevole si porta sulle spalle l'uomo d'acciaio solo per essere stato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nel buio della ricca e ultramoderna Bat Caverna, Bruce Wayne (Ben Afleck), l'uomo pipistrello affiancato dal fido maggiordomo Alfred (questa volta Jeremy irons!)  vuole vederci chiaro e sfidare l'alieno che ritiene responsabile per le catastrofi di cui è spettatore. Alle loro spalle ride (come il Joker)  Alexander (Jesse Eisenberg), il rampollo milionario di casa Luthor, che si fa chiamare come il padre Lex. Egli passa i giorni a trovare il modo di infangare e uccidere Superman, vuole battere il nuovo "dio" e mettere le mani sulla Kryptonite, l'unica materia in grado di sconfiggerlo. Seguono un'ora di flashback e interrogativi, incomprensioni e apparizioni a sorpresa, confusione e filosofia per giungere al fatidico scontro del titolo (dove Batman, fateci caso, sradica un lavandino per colpire l'avversario, sanitario che suppongo sia di Kryptonite perché non si sbriciola). Debole come la sua prova d'attore è l'antagonista. Si fa chiamare Lex Luthor ma non è Lex "padre". E' caratterizzato come il clown di Gotham, per cercare forse una eco che mescoli il tutto. Non fa paura, non genera inquietudine é un ragazzino che pesta i piedi e fa i capricci come oggi chiede il pubblico di adolescenti. Diversamente il tanto criticato Affleck ci regala un Batman da manuale. Il budget utilizzato per creare la messinscena si vede ma visivamente ci si chiede se il mostro Doomsday (altro alfiere nella scacchiera dei protagonisti) poteva essere più simile all'immagine dei comics e ricordare meno un incrocio digitale tra il Troll di caverna de Il Signore Degli Anelli e Abominio del tanto odiato reboot su Hulk. Se le battute comiche dei film Marvel sono spesso criticate e non troppo riuscite, qui sono decisamente fuori luogo. Annunciato come il film che farà la storia del cinema al Comi-Con di San Diego, sta riscuotendo pareri discordanti: non si trova un equilibrio tra i fan entusiasti che gridano al miracolo e i delusi che ne vedono i difetti più evidenti e chiedono giustizia per i due eroi. Lento e prevedibile, cattivo e celebrativo, fanatico e commerciale, genera confusione e divide come i due protagonisti.

 
Francesca Tulli 
 
 
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Cantami, oh diva, dell'orfano Bruce l'ira funesta...
Batman v Superman, in fin dei conti, è una sorta di lunghissima elaborazione di un lutto quasi atavico, di un ritorno, via via più consapevole, fondativo, alla tragedia, intesa nella sua ineluttabile necessità di far convivere spirito apollineo e spirito dionisiaco, istinto vitale e pulsione di morte. 
È da quando, da Socrate in poi, l'uomo ha tentato di riportare il caos a un impossibile senso ultimo che, secondo Nietzsche, l'umanità inganna se stessa, imbastendo la trappola più letale nella ricerca di un'entità natura superiore che ordini il disordine: Dio, qui incarnato nell'alieno/altro che fluttua nell'aria con i suoi tratti vagamente inquietanti, capace di gesti eroici e di furie da vecchio testamento, poiché come sostiene Lex Luthor, senz'altro ludi magister sinistro e “jokeresco”, ma dosato in modo intelligente, nell'essenza stessa dell'onnipotenza è racchiusa anche la crudeltà.
Nella contesa fra le tensioni dell'animo, fra l'uomo che volle frasi (semi)dio e dio che volle farsi uomo, è chiaramente quest'ultimo a dover suggellare il passaggio definitivo (ma fino a quanto/quando?) dalla sostanza eterea alla carne. Ma è il percorso che conta e questo vede l'uomo, Bruce, molto più rilevante, col suo dolore e la sua rabbia cieca, molto umana, del proprio alter-ego mascherato, scagliare Dio, con la quale, per allegoria, condivide la “madre”, giù dallo scranno, portarlo a fare i conti con le proprie responsabilità ontologiche, come se davvero si trattasse di un Dio biblico, di una qualunque concezione di Dio.
È il percorso umano, inverso, per un certo senso, ma anche assimilabile a quello alieno/divino, che fa scaturire una più ampia riflessione sulla responsabilità, individuale, prima di tutto, e collettiva, in seguito: “cosa posso fare io?” di fronte all'ignoto, a ciò che mi sembra ostile, a ciò che, banalmente, mi rifiuto di indagare per paura, ma anche di fronte alla realtà quotidiana, con il suo carico, ineliminabile, poiché vitale e necessario, di “indiscreta alterità” culturale, religiosa, sociale. 
Nel film di Snyder, con una prima e un'ultima parte folgoranti, qualche digressione di troppo e vari intoppi, tutto sommato perdonabili, nella lunga parte centrale, “bene” e “male” non sono concetti manichei e il regista dimostra uno sguardo lucido e visionario, al tempo stesso. Non c'è nessuna presenza ultraterrena che sgravi l'essere umano dalla necessità di scegliere fino a che punto spingersi per quello a cui tiene, per quello a cui crede o anche per ciò che brama, questioni queste che sottendono una letteratura che pare non avere nulla a che fare con i fumetti, ma che si rivelano basilari per una riflessione post-umanista sensata, mai così importante, tra l'altro, come risulta essere in questi poco umani(sti) tempi. 
Interessante, parimenti, la dicotomia solo apparente fra passato e futuro. 
I ruderi di casa Wayne si intravedono, quasi totemici, in mezzo agli arbusti del parco all'interno del quale è edificata la nuova casa del milionario di Gotham City, casa questa volta di vetro, ispirata a villa Farnsworth (ringrazio l'architetto lucchese Leonardo Benedetti per la consulenza), completamente trasparente, alla mercé degli sguardi come l'animo scoperchiato del supereroe che fu, e che, adesso, è qualcosa di molto diverso: un uomo disincantato, furibondo e violento, tormentato da visioni che hanno l'aspetto di tremendi incubi.
Non è dall'oblio del passato che è possibile rinascere. Il passato è piuttosto una traccia mnestica sulla quale l'uomo nuovo, un Bruce nuovo, finalmente pacificato coi propri demoni interiori, coi propri lutti, può ri-edificare il proprio futuro e, per estensione, un futuro tout court.
Dopo il lavoro esemplare di Christopher Nolan, con la raffinatezza e la precisione tecnica di Bale, come Bruce, e con la creazione filmica di alcuni caratteri memorabili, non era facile portare a casa il risultato. Zack Snyder ce la fa, grazie anche al suo nuovo eroe, il molto osteggiato, ai tempi del casting, Ben Affleck, perfettamente in parte e valore aggiunto del film. Per merito dell'attore di Berckley, Bruce Wayne acquisisce infatti un'inedita maturità, intesa anche come desiderio introspettivo, e uno charme dalle venature sensuali, presagio di un cambiamento che, mi auguro, si delineerà con maggiore chiarezza nei lavori a venire. 
 
Ilaria Mainardi

Un momento di Follia. Intervista a Vincent Cassel

Sabato 19 Marzo 2016 20:02 Pubblicato in Interviste

Un momento di follia di Jean-François Richet (Nemico Pubblico), remake dell’omonimo film del 1977 di Claude Berri, tratta con onestà e ironia un tema attuale e dibattuto: la relazione tra l'intraprendente diciassettenne Louna (Lola Le Lann) e il cinquantenne divorziato e amico di famiglia Laurent (Vincent Cassel). Senza peli sulla lingua, l’attore protagonista, durante la promozione del film (nelle sale italiane dal 24 marzo), non sfuggendo soprattutto alle domande personali, ci ha raccontato il suo punto di vista riguardo alla questione. 

 
 
Con un italiano fluente commisto al francese e un’espressione di sfida, carico di una disarmante sincerità posiziona il vero punto nodale del film, il vero tema “scabroso” della vicenda, nel tradimento della fiducia da parte di Laurent nei confronti del migliore amico e padre della giovane, interpretato da François Cluzet. Infatti per Cassel la rottura di una bella amicizia, appare come l'elemento compromettente della storia, facendo diventare marginale la questione della grande differenza d'età nei rapporti di coppia. “Le ragazze di 17 e 18 anni ci provano con me” ha continuato ridendo “è perfettamente normale”. In questa versione Louna ha 17 anni e mezzo ed è interpretata da una 18enne e questo particolare, che sembra lieve, per Cassel e il regista è invece stata una scelta ben ragionata: era importante trovare un'età che mettesse pace tra i moralisti mantenendo il senso della storia originale, se Louna fosse stata più giovane avrebbe creato discussioni ma “non avrebbe scandalizzato il produttore” ha puntualizzato ancora l'attore. 
“Cosa faresti tu al posto del protagonista?” a questa domanda si sbottona  “ le donne sono in generale più mature degli uomini, controllano la creazione. Noi siamo sterili. Siamo ancora come bambini a cinquant’anni.” e continua assicurando “La figlia di un mio amico nemmeno la guardo. O almeno, ci provo.”  
“Cosa faresti se tua figlia uscisse con un cinquantenne?” “Non lo so, non vorrei reagire come il padre (vendicativo) del film”.
 L’attore ha continuato spiegando perché crede che non ci sia nulla di male se un uomo di cinquantanni va con una donna più giovane sottolineando “il contrario invece sarebbe più inappropriato per una questione fisiologica: potrebbe rappresentare un problema nel caso di una gravidanza”. Il regista ha evidenziato che a tirare le fila della relazione c’è proprio la cocciutaggine della ragazza, è lei che tiene “placcato” Laurent perché “a diciassette anni una donna sa perfettamente cosa vuole ed è inarrestabile” ha continuato Cassel sentendo già come la discussione poteva facilmente essere fraintesa. Aveva premesso che “in questo mondo di moralisti ad oggi non si può più esprimere un pensiero su nulla, non si può più parlare di nulla né di diversità né tantomeno di sesso (o come lo ha pronunciato lui “sexsò!”) “Perché ogni frase può essere estrapolata da un contesto e strumentalizzata all’interno di un articolo vacuo e inutile”. 
Non è mancato un riferimento ad un altro remake del film ad opera degli americani “Non l’ho visto” ha dichiarato il regista, “non ci interessava, lo abbiamo rifatto ancora perché volevamo! chissenefrega” ha continuato Cassel e poi “era brutto” come è stato fatto notare all’attore che ha confessato “ecco sì, non volevo dirlo”. Non sono mancate le lodi alla partner “Penso che vedere un’attrice emergere sia molto più importante che vedere un personaggio famoso e professionista che lavora da anni e cazzate varie! Lei ha insegnato qualcosa a me. In “Partisan” del 2015 ho lavorato solo con donne e bambini persone comuni che non sono davvero del mestiere e mi sono reso conto che sapevano fare cose che un professionista non sa fare.” Vincent Cassel con ironia e leggerezza ha dimostrato la sua onestà e noi, in questo, lo abbiamo apprezzato. 
 
Francesca Tulli