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Doc/It Professional Award

Lunedì 22 Ottobre 2012 22:55 Pubblicato in News

Al via la terza edizione del Doc/it Professional Award, premio attribuito dalla categoria professionale al miglior documentario dell’anno.
Una giuria composta da più di 100 professionisti del settore avrà la possibilità, da lunedì 22 ottobre fino a sabato 1 dicembre, di visionare e votare direttamente on-line i migliori documentari italiani dell’anno.
Le opere potranno essere viste e giudicate in streaming ad alta qualità tramite il sito www.italiandoc.it.
Il Doc/it Professional Award, del valore complessivo di 3.000€, verrà assegnato, nell’arco di una serata di gala, al termine di un ciclo di proiezioni, tra gennaio e febbraio 2013 all’interno del Mese del Documentario organizzato presso la Casa Del Cinema di Roma e vedrà protagonisti i migliori cinque titoli votati dall’Academy. I cinque film finalisti del Doc/it Professional Award verranno inoltre promossi da Doc/it in tutte le occasioni professionali dei successivi 12 mesi.

I documentari che si contenderanno il Doc/it Professional Award 2012 sono stati selezionati, a partire dai 74 titoli candidati tramite bando di concorso, da un comitato scientifico composto da professionisti del settore.

FILM FINALISTI DOC/IT PROFESSIONAL AWARD 2012
 
• 148 Stefano. Mostri dell'inerzia (2011)
• Bad Weather (2012)
• Cadenas (2012)
• The Dark Side of the Sun (2012)
• L' Estate di Giacomo (2011)
• Ferrhotel (2011)
• Formato ridotto. Libere riscritture del cinema amatoriale (2012)
• FreakBeat (2011)
• Hit the road, nonna (2011)
• Isqat al Nizam - Ai confini del regime (2012)
• Italy Love it or Leave it (2012)
• Lasciando la Baia del Re (2011)
• Mare Chiuso (2012)
• Mi piace quello alto con le stampelle (2012)
• Peak un mondo al limite (2011)
• Piccola Terra (2012)
• Riding for Jesus (2011)
• Scorie in libertà (l'incredibile avventura del nucleare in Italia) (2012)
• Tahrir, Liberation Square (2011)
• Uomini Soli (2012)
• Zavorra (2012)


Tutte le schede tecniche sono consultabili sul sito: http://www.italiandoc.it

 

Los Lobos de Arga

Lunedì 22 Ottobre 2012 22:08 Pubblicato in Recensioni

 

La parola cinema è una delle più clamorose metonimie di uso corrente nel linguaggio moderno.

L'opera cinematografica prescinde così tanto dal luogo in cui viene esperita dal pubblico che ne ha assorbito i connotati linguistici.

Il festival di cinema in effetti, a volte, si presenta come una vera e propria geografia di luoghi, di sale, di schermi, di ambienti entro il quale si muovono cineasti, “cinematografari”, cineamatori, cinefili, e “cinecuriosi” di tutte le età ed estrazioni sociali. Questo in qualche modo influisce sulla visione delle opere: le opere stesse “assorbono” la carica emotiva ed elettrica di cui ogni festival di cinema vibra, e questa vibrazione è assai più potente se il festival in questione è una rassegna di cinema di genere.

Questa introduzione è doverosa per parlare di Lobos de Arga un lungometraggio del regista spagnolo Juan Martinez Morero, che ho avuto occasione di vedere durante la scorsa edizione del Fantafestival.

Juan Moreno trasferisce sullo schermo un classico del cinema di genere con intelligenza ed humour, Lobos de Arga è un film che tratta il tema della licantropia in maniera horrorifica ed allo stesso tempo umoristica ed avventurosa, con caratteristiche innegabilmente molto vicine a Romero.

Il giovane scrittore Tomas Marino (interpretato da Gorka Otxoa, candidato al premio Goya come miglior attore rivelazione nel 2009) si reca con il suo inseparabile cagnolino nel borgo d'origine della sua famiglia, Arga per l'appunto, per ricevere un premio letterario.

Il paese dalle tinte gotiche e spettrali accoglie caldamente Tomas, che da parte sua è deciso a riprendere possesso dell'antico palazzo disabitato appartenente alla sua famiglia da generazioni e scrivere lì il suo prossimo libro. Egli sarà vittima di un crudele tranello: non esiste nessun premio letterario, in realtà è stato attratto ad Arga per essere dato in pasto ad un licantropo che da anni vive segregato nei sotterranei del paesino, questo sacrificio servirà per sfatare la maledizione centenaria che attanaglia la città.

La pellicola alterna momenti di suspense a episodi di comicità grottesca, la regia è dinamica e ricca di spunti interessanti mentre il protagonista ed il suo amico a quattro zampe formano una coppia perfetta molto simile al fortunato fumetto francese Tintin.

Molti si chiederanno cosa avrebbe in comune questo mix di commedia, horror ed avventura con il cinema di Romero, eppure questi elementi, sebben “spalmati” in un'intera cinematografia, sono caratteristiche fondanti dell'arte e dell'estetica del regista americano.

L'uomo-lupo e lo zombie sono due creature molto diverse ed allo stesso tempo complementari, entrambe si cibano di esseri umani, ma mentre il Licantropo rappresenta quella parte di società prepotente e feroce che soggioga l'uomo comune, lo zombie invece simboleggia quella massa abulica ed asservita che in maniera lenta ed inesorabile corrode la società dall'interno, scagliandosi in maniera disordinata contro l'essere civile.

In questo caso gli abitanti di questo piccolo villaggio, contadini ed artigiani, prima decidono di sacrificare senza pietà un loro simile, poi trasformandosi in Licantropi gli danno la caccia per azzannarlo e quindi renderlo uno di loro.

Che siano zombie o licantropi la società ed i suoi mostri non fanno altro che cercare di conformare l'individuo, inglobarlo e spogliarlo della propria identità, che sia in una cittadina sperduta del Texas o in un paesino spagnolo, che sia a causa di un morbo misterioso o di un'antica maledizione, questa forza fagocitante è ugualmente potente e violenta e solo l'indomita forza di volontà del singolo ed il suo spirito di cooperazione e solidarietà con i propri simili potrà arginarla.

Moreno e Romero sono due facce della stessa medaglia che una volta lanciata in aria, sia che esca testa o esca croce, mostra sempre il lato più grottesco dell'essere umano incollando lo spettatore allo schermo ed intrattenendolo con atrocità grandguignolesche.

 

Nicola Zurlo

 

Versipellis

Lunedì 22 Ottobre 2012 21:59 Pubblicato in Recensioni

Donatello Della Pepa ci conduce dentro al genere horror con qualche rimando ai monster movies e a tutto il filone hollywoodiano dell’uomo lupo, ma con un estro ed un’originalità che regalano valore artistico al suo cortometraggio dalle atmosfere rarefatte. Per quanto l’intreccio – complesso e molto ben articolato – si inserisca perfettamente nel genere prevedendo la figura del mostro che semina terrore e suspance in una comunità dai contorni tradizionali, la prospettiva del regista italiano aggiunge qualcosa a questa impalcatura di per sé poco innovativa. E questo qualcosa è rappresentato dall’associazione fra la tradizionale figura del mostro, il mondo scientifico e la devianza psicologica.

Il licantropo egregiamente ricostruito da Luigi De Andrea non è, dunque, un mostro che genera panico gratuito nelle strade di una Roma crepuscolare ma un figura dal forte valore metaforico nonché psicologico, che per tutto il cortometraggio non smette mai di generare dubbi circa la sua reale esistenza, seppur nella finzione cinematografica. Del resto è lo stesso regista ad affermare che il suo mostro preferito è il licantropo, simbolo perfetto della dualità dell’uomo: bene-male, civiltà-natura, mente-corpo. Il licantropo è la personificazione del mostro, rappresentazione di una zona oscura che è parte integrante di ogni essere umano. E non solo. Esso è anche la figura per eccellenza di un disordine associativo che da l’illusione al soggetto di trasformarsi in animale. Versipellis, cioè capace di alterare le proprie sembianze.

La costruzione narrativa, frutto del lavoro a 4 mani con Luca Ruocco, accompagna lo spettatore fin dentro a questo disordine psicologico che si innesta in una relazione familiare complessa (da sempre la famiglia è il nucleo che fagocita devianze e traumi) e in un irriducibile quanto oscuro rapporto di fratellanza in cui si cela il nodo centrale della sceneggiatura. “Siamo fratelli, posso vederti dentro,ma c’è qualcosa di te che ancora non capisco” dice Giulio a Francesco. Il filo sotterraneo che li unisce è abbozzato sin dall’inizio e pedissequamente portato avanti per tutta la durata del cortometraggio grazie ad un montaggio allusivo in cui lo sguardo di un fratello rimanda sempre alle azioni dell’altro, fino all’epilogo finale.

Arrivati a quel punto si ha la sensazione che il materiale proposto sia solo un insieme di accenni, oltre ai quali esiste una coda più lunga, lasciata fuori dalle inquadrature, lavorando sulla quale è possibile costruire un lungometraggio e sviluppare quegli elementi che in una mezz’ora scarsa non potevano essere trattati con il dovuto approfondimento. Probabilmente la volontà autoriale era proprio quella di lasciare lo spettatore affamato di altre immagini, desideroso di tessere i fili dell’intreccio con ulteriori dettagli, finanche curioso di venire stupito dagli effetti speciali che il genere richiede.

In realtà niente artifici tecnici come computer graphic o affini, solo effetti speciali tradizionali – che non scadono mai nel dilettantismo non facendoci percepire la nostalgia delle grandi produzioni a tematica horror - per un cortometraggio dai contorni lievemente splatter, dalla fotografia attenta e ben calibrata (buona l’idea delle soggettive del licantropo sfuocate col rosso) e dalla regia sicuramente professionale.

Non solo per gli amanti del genere…

Elisa Fiorucci

Les Eclats (Ma gaeule, ma revolte, mon nom)

Lunedì 22 Ottobre 2012 21:52 Pubblicato in Recensioni

Les Eclats, le schegge, i frammenti. Perchè questa è la struttura dell'opera che si andrà a vedere. Perchè a mio avviso non si tratta di un film, e tanto meno di un documentario o di un reportage. Il regista francese Sylvan George ho confezionato un'opera audio/video che necessita di una certa sensibilità per essere apprezzata e capita.

Come alcuni pezzi di musica classica, come certi quadri astratti, anche questo montaggio di più di un'ora avrebbe bisogno di una spiegazione a lato per essere compresa del tutto. Altrimenti le libere interpretazioni personali potrebbero leggere e forse stravolgere il senso di quel che c'è stato mostrato. Ovvero una sequenza di immagini molto contrastate in bianco e nero (c'è un'unica immagine a colori, un tramonto rosso acceso riflesso nell'acqua), con scelte ben definite di montaggio, con rallenty, accelerazioni, ripetizioni e sfumature a nero. Il tutto accompagnato da un free jazz/blues duro, che strizza l'occhio al bebop.

La storia, mi correggo, le storie narrate non esistono. O meglio, come premette il titolo, vengono solo accennate, cercando un impasto totale che dimostri un filo comune nelle vite di molti verso un unico destino. Ci troviamo a Calais, Francia del Nord, città famosa per il forte numero di imigranti diretti verso l'Inghilterra. Qui George testimonia l'esistenza di questi imigrati, a suo dire senza porre filtri o visioni predefinite. Senza quindi mostrare l'imigrato con pietà o additandolo in alcun modo.

Vediamo dove si ritrovano, ascoltiamo la loro visione del mondo, della politica, della vita e della morte. Bhe, a dire il vero i momenti in cui sentiamo parlare queste persone sono relativamente pochi. Molto più lunghi sono i silenzi. Le immagini mostrano dove dormono. Come sopravvivono. Mostrano la polizia, il nemico, i tribunali, i medici.

In tutto questo non voler dire, non voler fare politica, non voler esporsi e fare un'opera nuova e artistica, in tutto questo trovo personalmente i limiti del documentario, che non solo si schiera chiaramente, ma non porta niente di nuovo. Quel che ci viene proposto è quel che siamo sempre più abituati a vedere, purtroppo, ogni giorno con i nostri occhi. E non è una questione di razzismo, è la verità. Barboni, campi rom, polizia che ferma gli irregolari, basta farsi un giro per strada in una città qualunque con più di 5mila abitanti (forse anche meno) per assistere allo stesso spettacolo. Certo, non sarà in bianco e nero o accompagnato da musica jazz, ma poco cambia. E informa in ugual maniera, ovvero, per niente. Non vengono fornite spiegazioni, non vengono interrogate le controparti. È vero, non vengono mostrate lacrime, ma la condizione miserabile è sotto il nostro naso e ci fa sentire a disagio lo stesso. Soprattutto per il non poter cambiare la situazione.

Vincitore del Torino Film Festival come miglior documentario internazionale, “les eclats” non è un film per tutti. Probabilmente è adatto al pubblico di Report o di Annozero, è un film per tutte le persone che preferiscono allibirsi davanti allo schermo senza accorgersi che lo stesso marcio accade a pochi metri da loro, ma ci convivono girando la testa altrove. È adatto al pubblico da festival, che ha l'animo poetico e sensibile per cui non serve una storia con capo e coda, bastano dei primi piani intensi, molto silenzio, il mare all'orizzonte e la nostalgia delle utopie. E' un film per chi ama parlare invece che fare concretamente. E' un film per chi ha ancora il coraggio di indignarsi.

Alessandro Zorzetto