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Asteroid City

Venerdì 06 Ottobre 2023 14:40

Asteroid City di Wes Anderson è tra i film più visti nelle ultime settimane, ma è davvero un titolo da non perdere? 

Spesso quello che chiamiamo tratto distintivo di un autore se portato agli estremi finisce per rendere la narrazione piuttosto marginale, generando il più delle volte confusione nel pubblico. Ciò che ha reso Wes Anderson un innovatore, un romantico visionario, è stato il suo particolarissimo racconto per immagini vivaci e colorate, tanto da farci immergere in ogni film quasi all’interno di un tableau vivant. Un aspetto che lo ha consacrato come autore e, soprattutto, come regista capace di realizzare dei piccoli capolavori unici nel loro genere. Nonostante la cura maniacale per il dettaglio e la volontà di riunire ogni volta un cast corale di grandi nomi, Anderson ora è giunto in una fase di reiterazione, dalla quale forse riuscirà ad emergere solo discostandosi da questa ossessione per l’estetismo. Asteroid City sintetizza perfettamente come questo problema sia stato portato per l’ennesima volta all’esasperazione. È il 1955 e ci troviamo nella città immaginaria di Asteroid, durante una convention di giovani astronomi e cadetti spaziali. Il clima di discussioni e confronti vivaci, viene bruscamente interrotto da un evento straordinario ed inquietante: l’arrivo di una presenza aliena. Questo incontro ravvicinato muterà radicalmente tutti gli equilibri della cittadina generando un uragano di situazioni inverosimili che porterà tutti i personaggi a fare i conti con le proprie ossessioni. Asteroid City, in concorso a Cannes qualche mese fa, e che esce al cinema a due anni di distanza dall’incompreso (legittimamente) The French Dispatch, se da un lato attrae per quel timbro grafico e quella messa in scena così appagante per lo sguardo, dall’altro intrappola lo spettatore nell’ennesimo racconto uguale a tanti altri già narrati dal regista in precedenza. Le dinamiche sono più o meno le stesse, lo stile pure, cosa cambia? Il giro di attori, che stavolta coinvolge nomi nuovi che vanno ad aggiungersi a dei vecchi amici, oramai divenuti anche loro la spina dorsale dell’impronta andersoniana. Tuttavia, nonostante il cast sempre eccezionale e il rigore dell’impianto grafico, la sensazione è quella di avere di fronte un’opera senz’anima, un involucro molto bello ma privo di contenuto. La durata eccessiva del film, soprattutto per quello che si narra (ossia nulla), non fa atro che esasperare quel senso di vuoto tematico, che oltretutto si percepisce dal primo all’ultimo istante. Evidente è anche la profonda frattura tra uno studio morboso per le scenografie, di diritto tra le più memorabili finora proposte dal regista, e un disinteresse lampante per un plot che fa acqua da tutte le parti. Le scenette situazioniste in cui vengono incasellati i tanti personaggi, esistono al solo scopo di dare una ragion d’essere a molti attori che sembrano trovarsi lì per fare numero. Operazione rischiosa quanto insensata dal momento che la trama presenta pochi colpi di scena, a rigor di precisione: uno.  E se poi si dovesse focalizzare su questo imprevisto, rappresentato dalla presenza aliena, non si riuscirebbe comunque a scorgere un reale interesse nel trattarlo in modo quanto meno dignitoso per la trama. Dai dialoghi alla caratterizzazione dei personaggi passando per l’epifania di un’imminente minaccia, è tutto abbozzato. La verità è che questo regista è di fronte ad un bivio ora, reinventarsi o accanirsi. Wes ti abbiamo voluto molto bene, ma è tempo di tacere quando non si ha più nulla da dire.

Giada Farrace

Killers of the Flower Moon

Giovedì 19 Ottobre 2023 12:08

Ci sono dei dettagli imprescindibili che permettono agli spettatori più attenti di riconoscere sin da subito quello che è un film di Martin Scorsese già dalla prima scena. Accade in Toro Scatenato, in cui Jake La Motta, in una cornice quasi onirica avvolta dal bianco e nero, si muove in slowmotion sul ring accompagnato da una colonna sonora lenta, che sembra quasi prenderlo per mano prima del combattimento. Oppure in The Aviator, dove ci viene mostrato un Howard Hughes bambino, lavato con estrema cura da una madre che lo mette in guardia sui pericoli del colera, seminando in lui il germe di quel disturbo ossessivo nei confronti dello sporco, noto come misofobia. In entrambi i casi, Scorsese fornisce informazioni determinanti ai fini di una storia che andrà mano a mano a svelare e lo fa in modo velato e meticoloso, attraverso tanti piccoli elementi. In Killers of the Flower Moon, Scorsese decide di raccontarci una storia di crimini e ingiustizie, perpetrate da una fitta schiera di bianchi americani stabilitisi nella contea di Osage.  Proprio nel 1920 in si registrò il più alto tasso di morti indiane, vittime di un sanguinoso sistema di acquisizione indiretta delle loro terre. Unirsi in matrimonio con un nativo per possederne dopo la morte  i beni e i rispettivi terreni, era lo scopo di ogni bianco. Latifondi  preziosissimi, culla di quello che di lì a poco sarebbe divenuto il capitale più ingente dell’economia mondiale: l’oro nero, il petrolio. A capo di questa struttura criminale, lo spietato William Hale, interpretato da un Robert De Niro che mette i brividi per l’aderenza perfetta ad un personaggio crudele e assetato di potere. Hale persuaderà suo nipote Ernest, interpretato da Leonardo Di Caprio (impeccabile, ma in questo caso una spanna sotto la perfomance di De Niro), a sposare una donna Osage con lo scopo di impadronirsi evidentemente dell’ennesima ricca eredità.  Tuttavia, il cerchio è presto destinato a chiudersi, e le conseguenze saranno inevitabili per tutti i carnefici. Siamo di fronte ad un altro capolavoro scritto e diretto da quello che è forse il regista più affabulatore e poliedrico di sempre. Perché se c’è un pregio che si deve riconoscere a Scorsese è quello di cambiare pelle e raccontarci ogni volta qualcosa di diverso. A cambiare non sono soltanto i contesti storici, i messaggi veicolati e il processo di ricostruzione di un evento ( che sia di finzione o tratto da una storia vera), ma il modo di raccontarci quella vicenda. E in questo caso specifico, Scorsese compie un atto sovversivo e imprevisto ai fini del consueto intreccio narrativo, svelandoci sin da subito chi sono i responsabili delle atrocità sopracitate. Un dramma investigativo inconsueto, sovversivo perchè privo di un vero e proprio processo di indagine da parte dello spettatore. Qui la grandezza di questo regista, che passa dal gangster movie alla commedia nera continuamente senza perdere mai il focus di una storia centrata sulla spietatezza dei bianchi nei confronti di un popolo, come quello Osage, gentile e puro, e per questo ancor più incline ad inganni e vessazioni. Impossibile da incasellare con precisione all’interno di un genere, Killers of the Flower Moon è forse il film più duro che Scorsese abbia mai diretto negli ultimi anni nonché il più completo e riuscito.

Giada Farrace

Sick of Myself

Venerdì 09 Settembre 2022 00:00
Quanto si è disposti a sacrificare di sé per inseguire l’idea del successo, del riconoscimento sociale e mediatico? In un momento storico dove tutto è stato già narrato, discusso e scandagliato, il regista svedese Kristoffer Borgli ci racconta una storia che ha i toni della commedia nera, ma che arriva come un pugno nello stomaco, tramutandosi poi in dramma. Di difficile etichettatura, Sick of myself, presentato in Un Certain Regard a Cannes 2022, è un’opera in cui si ritrova molto del registro stilistico di Borgli. L’essenzialità nei dialoghi, l’uso di una fotografia luminosa in chiaro contrasto con il quadro emotivo dei protagonisti (e di alcune intere sequenze), nonché l’audacia nella critica di una società epidermica che ci ha assuefatti all’effimero, sono solo alcuni degli aspetti che più funzionano di quest’opera. Nel film, la protagonista, Signe, vive una relazione tiepida al confine dell’apatia con il compagno e artista Thomas, figura in piena ascesa nell’ambiente dell’arte moderna di Oslo. Stufa di essere la ragazza satellite di un artista noto, la giovane inizia a mostrare un atteggiamento di sfida nei confronti del successo e della fama del partner. Sprovvista di talento alcuno e vittima di un’indomabile narcisismo tenterà il tutto per tutto pur di farsi notare mediaticamente, nel disperato tentativo di oscurare l’astro nascente del fidanzato. Signe scopre l’esistenza di un farmaco russo con effetti collaterali così pericolosi da provocare terribili problemi alla pelle e alle vie respiratorie. E’ qui che inizia la discesa negli inferi della ragazza, la quale arriverà a sfigurare il proprio volto, perdendo completamente i connotati al solo scopo di attirare un pubblico, di trovare spazio tra la folla di influencer, conquistando quindi l’ambita fetta di notorietà. In una società dove l’edonismo domina incontrastato, facendo della legge del bello la chiave principale per accedere al successo, Borgli sfida lo spettatore arrivando al limite dell’immaginabile. Il martoriamento del corpo diventa l’unica via per raggiungere il traguardo della notorietà, ma soprattutto per richiamare a sé attenzione, dal momento che l’esaltazione del bello è attualmente all’ordine del giorno. 
Il cinema scandinavo riconferma la propria dote naturale alla narrazione di storie imperniate su processi psichici, nella fattispecie, sulla percezione del sé come entità in una perpetua condizione di alienazione dalla comunità, e nel caso di Signe, dal proprio corpo. Ancora una volta la disfunzione sociale, contamina il territorio dell’Io facendosi carico di uno spesso sostrato di incertezze interiori, mosse da una mordente fame di sentimenti e riconoscimento identitario. La protagonista, attraverso un violento processo di ricerca del sé, di una propria soggettività, raggiunge l’obiettivo programmatico: l’eclissi del valore artistico del proprio compagno. Un viaggio disturbante capace di suscitare un caleidoscopio di sentimenti che oscillano continuamente tra commiserazione, ribrezzo giungendo infine alla malinconia. Sick of myself è un film che porta agli estremi il linguaggio cinematografico, ponendoci dinnanzi a quello che sta prendendo forma ora, attorno a noi: la minaccia di un’esistenza incapace di concepire e capire il valore dell’uomo e della sua soggettività. Disponibile alla visione solo su  MUBI. 
 
 
Giada Farrace 
 

Raffa

Mercoledì 27 Dicembre 2023 11:48
La Pelloni e la Carrà. E’ su questa dicotomia che l’opera diretta con passione e affetto da Daniele Luchetti si regge saldamente in piedi, sintetizzando in tre puntate parte della vita e della carriera di Raffaella Carrà. La forma è quella di una ricostruzione in ordine cronologico, partendo da un’infanzia complicata segnata indelebilmente dall’abbandono di un padre che da quel momento in poi non farà mai più parte della vita di Raffaella. Una famiglia quella della Pelloni, composta quindi da donne che dimostrano tanta premura quanta rigida disciplina,  una tra tutte la mamma, figura severa e critica. A Bellaria, la giovane Raffaella muove i primi passi tra concorsi di bellezza accompagnata sempre da quella continua ricerca di un modo per esprimersi, che non si concretizza né con la danza né con il cinema. Ma dove non arrivano questi due mondi, arriva la televisione che travolge e viene travolta dall’energia di questa figura capace come nessuna mai di ipnotizzare tutti con corpo e sguardo. Un’epifania a cui seguirà l’inesorabile e incontrollabile ascesa verso un successo planetario che farà di lei il simbolo del peccato e della tradizione, dell’evoluzione del costume di un paese, il termometro di una rivoluzione sessuale che scoppierà a breve e violentemente. La scrittura immediata e limpida di Cristiana Farina (Mare Fuori), disintegra ogni genere di sovversione documentaristica, muovendo nel più classico degli impianti, senza però cedere il passo ad un eccesso encomiastico. Ai materiali di repertorio (sono circa 1500 immagini) tra cui spiccano interviste inedite alle donne della famiglia Pelloni, al nipote e a Barbara Boncompagni, figlia di Gianni, vengono affiancate scene di finzione evidentemente usate per stemperare quel senso di venerazione da parte di Luchetti, ma che forse poco giocano a favore dell’opera e molto guastano. Al contrario, un profondo innesto sul piano emozionale è rappresentato dalle sequenze in cui alcuni manichini con i vestiti più rappresentativi ci appaiono nei luoghi del cuore di Raffaella, con toccanti riferimenti a ricordi ed episodi della sua vita. La voice over riempie quello spazio lasciato vuoto, mentre quegli abiti di scena diventano significante e baluardo di un divismo mai snob, sempre diretta espressione del pop. A ridimensionare l’enorme successo e le conseguenze che esso porta con sé c’era il suo doppio, rappresentato dalla Pelloni:  quella concretezza e quel vigore tipicamente romagnoli che hanno sempre fatto di Raffaella una donna risoluta. Daniele Luchetti riesce a misurare i due intenti, ossia quello di ripercorrere le tappe della vita di una donna fragile e possessiva e la sua scalata verso il successo diventando simbolo di una lunga battaglia di rivoluzione e affrancamento dal perbenismo dell’industria televisiva italiana. Una serie travolgente che comunica a tutti, alle generazioni che ricordano e a quelle che non erano ancora nate. E per questo forse, l’unico vizio che gli si può contestare è l’imperdonabile brevità. 
 
 
Giada Farrace 
 

Ripley

Martedì 04 Giugno 2024 09:05

Adattare di nuovo una storia che il grande pubblico conosce a menadito oltre che essere un azzardo sconsiderato è anche una sfida nei confronti dei critici più severi. Ripley è la prova, pertanto, di come a volte sia necessario oltrepassare i pregiudizi nei riguardi della serialità e di quel sistematico spirito rimodellante che è il tratto distintivo di Netflix. Diretta da Stevan Zaillian, regista di Tutti gli uomini del re e The night of, la miniserie che ha come protagonista il discusso e controverso Tom Ripley si sviluppa in otto episodi giocando inizialmente alla sottrazione per poi decollare senza indugi verso un intreccio pieno di ritmo. Dietro la camaleontica e oscura maschera di Ripley si cela il volto garbato e confortante di Andrew Scott, in questo caso perfetto se si parla di phisique du role e di un personaggio come quello di Tom Ripley, sleale e irrazionalmente beffardo. La vicenda ha inizio nella New York degli anni Sessanta, dove Tom Ripley vive alla giornata gestendo piccoli affari loschi fatti di truffe e lavoretti sporchi ai danni del prossimo. Un giorno all’interno di un bar, Tom viene avvicinato da un investigatore privato il quale gli fa un’offerta allettante scambiandolo per un’altra persona. Ripley dovrà recarsi in Italia per rintracciare il figlio di un facoltoso uomo d’affari, fuggito dalla noiosa routine alto borghese in cerca di ozio e maggiore libertà nel belpaese. Giunto nella beata Costiera Amalfitana, il protagonista entrerà in contatto con un ambiente scandito da agi e benessere finendo per diventare amico del giovane rampollo americano, ma soprattutto ritrovandosi poi a gestire quella che diventerà una situazione di inganni e omicidi. Sebbene i primi episodi denuncino un certo indugio nella descrizione più che nell’esecuzione, cedendo il passo sovente a sequenze troppo estese e perse nel contorno (di indubbio incanto), la serie, procedendo per gradi, riesce a disporre tassello dopo tassello un perfetto enigma dosando con dovizia di particolari digressioni e grandi momenti di impatto emotivo. Impossibile rimanere indifferenti alla fotografia curata da Robert Elswitt, il quale ha da subito accordato la scelta del bianco e nero fortemente voluta da Zaillian con l’intenzione di stabilire come punto focale dell’inquadratura il volto di Scott, in questo caso interiorizzato dall’immagine.  Una scelta stilistica brillante e addizionata che ci culla in un’atmosfera onirica in netta collisione con le sequenze più crude e spietate. Menzione a parte merita la prova di Andrew Scott, mai scelta più adeguata, qui al suo splendore massimo, abile come pochi nel saper transitare con disinvoltura da vittima a carnefice, donando al personaggio quel chiaroscuro morale che fa da contraccolpo all’estrema difficoltà di farcelo odiare completamente.

 

Giada Farrace

Se c’è una conclusione a cui tutti sono arrivati dopo il quarto episodio della seconda stagione di House Of The Dragon è che ci sarà una guerra in cui domineranno sangue e fiamme. I primi cinque episodi della serie hanno spianato la strada ad una tensione crescente tra le fazioni dei Neri e dei Verdi. L’incontro tra i due personaggi femminili non ha provocato l’effetto sperato da Rhaenyra. Un profondo rancore domina gli animi delle due donne ed è un sentimento ancora molto sedimentato soprattutto in Alicent.  D’altronde anche se ci si sposta a Roccia Del Drago, si scorge un Jace irrequieto che sembra voler menar le mani da un momento all’altro, incapace di restare fermo, ma costretto per esplicita richiesta di Rhaenyra a indugiare nell’attesa. La regina dei draghi vuole giungere a una soluzione strategica avveduta e incisiva, nel tentativo di sanare una situazione difficile sia per il regno sia per il destino di moltissimi individui. E’ evidente che le battute iniziali sono risultate nodali per il gioco di trame e quella fitta rete di eventi chiave per accedere a una sezione più burrascosa e feroce. Il quinto episodio è l’anticipo dello scontro che tutti attendono con trepidazione, durante il quale non ci sarà certo spazio per esitazioni né verrà dimostrata alcuna pietà da entrambe le parti. Tornando alla trama, si perde un po’ la bussola verso la fine dell’episodio smorzando una tensione altissima accumulata dal pubblico in quello precedente. Un passo calcolato alla perfezione per aprire la strada a quello che gli autori ci presentano come il segmento più sanguinoso e violento della seconda stagione: il sesto episodio. Una strategia che come sempre tiene incollati gli spettatori con quel particolare ritmo dosato tra picchi di adrenalina e momenti di stasi indispensabili per sbrogliare prospettive d’azione utili a rivoluzionare improvvisamente le carte in tavola. Sebbene questo quinto episodio funga da trampolino, i cui contorni sono definiti infatti da un impianto dialogico piuttosto intenso e dettagliato, forse si poteva operare uno snellimento di qualche scena smodatamente verbosa. Comunque sia, ora si giunge a quella che sarà una delle parti più coinvolgenti e movimentate dell’intera stagione che ci ha già emozionato attraverso uno scontro tra draghi mozzafiato, merito di una regia perfetta che si lega ad un montaggio portato agli estremi della sua intensità. La speranza è che si continui su questa linea di raffinatezza stilistica, ma che soprattutto la serie non perda quell’identità che ha difeso strenuamente fino a questo momento. 
 
 
Giada Farrace 
 
 

Immaculate - La Prescelta

Giovedì 11 Luglio 2024 08:40
La scarsa affluenza nelle sale registrata negli ultimi anni, soprattutto se si esamina il biennio post-pandemia, marca con chiarezza un dato tanto evidente quanto allarmante: il pubblico preferisce l’intrattenimento on-demand. Le logiche del mercato cinematografico statunitense hanno da sempre agito nell’ottica della calamita, coniugando ai generi più complessi da distribuire, volti molto amati dalla pluralità di spettatori. Con Immaculate siamo di fronte all’ennesimo esempio di breadcrumbing  cinematografico che se da un lato intende solleticare la curiosità degli appassionati con una storia dai toni dell’horror ecclesiastico, dall’altro coinvolge (con telefonatissima malizia) anche i meno appassionati al genere per la presenza della bellissima Sydney Sweeney, tra le attrici più apprezzate del momento. Una strategia che dovrebbe garantire un successo, se non planetario, per lo meno affidabile, capace di coprire l’investimento e un altro giro di popolarità alla giovane attrice. Ma anche stavolta la scommessa è persa per molte ragioni, alcune delle quali appaiono nella loro evidenza in modo a dir poco imbarazzante. Procedendo per gradi, la storia sceglie un’ambientazione molto comoda per chi vuole giocare su un connaturato senso di angoscia e mistero: il convento. La giovane suora americana Cecilia si trasferisce in un antichissimo convento in Italia, isolato dalla civiltà e immerso nelle campagne, un luogo in cui ci si prende cura delle suore morenti, accudendole nei loro ultimi giorni. Il convento ospita al suo interno un’importantissima reliquia a cui tutti fanno cenno in modo solenne e con grandissimo ossequio, si tratta di un chiodo che si pensi appartenga alla croce su cui Cristo fu crocifisso. Elemento che conferisce al luogo una forte aura di misticismo. Per Cecilia, è tutto nuovo e stimolante e la quotidianità sembra essere partita col piede giusto, la giovane si sente subito inserita stringendo amicizia con una sua coetanea ed entrando con disinvoltura nelle faccende quotidiane. Ma un giorno, tra lo stupore di tutti, la ragazza scopre di essere incinta, nonostante la sua castità, rimasta perfettamente intatta. Il convento viene assalito da un’incontenibile euforia: Cecilia è stata scelta per accudire qualcosa di miracoloso e divino. Per la giovane sorella questo sarà l’inizio di un atroce calvario, che la porterà a prendere una decisione risolutiva e terrificante. Dalla trama si evince che il film abbia come cuore pulsante il ventre della sorella Cecilia o, meglio, ciò che esso contiene. Ma è proprio da questo punto focale che si stenta a procedere con scioltezza perché le carte in tavola sono davvero di poco peso e vengono continuamente maneggiate in modo maldestro. Si inizia con un promettente armamentario degno di un rispettabile film dell’orrore, con un’ambientazione sinistra e dotata di un ottimo impianto visivo purtroppo totalmente dimenticato e svilito nel suo potenziale. Nessun gioco d’assetto fotografico o virtuosismo di luci e ombre.  Il convento resta uno sfondo abbozzato dall’inizio alla fine e forse questo è l’unico elemento capace di mantenere una sua costanza. Dalla gabbia della prevedibilità scenografica si passa ad una gabbia molto più gravosa ai fini della trama e cioè quella dell’impianto narrativo. Un racconto stretto nella morsa della fretta e della superficialità dove non trova mai spazio un approfondimento psicologico o un’onesta sequenza di suspense. Sydney Sweeney si rivela poi anche una scelta centrata per il ruolo che deve interpretare, uno sguardo ingenuo e puro che si sposa bene con Suor Cecilia e che per quei novanta minuti le toglie di dosso quella sessualizzazione estrema e asfissiante con cui Hollywood la sta divorando.  Ci si sbriga a ripassare i contorni sbavati e prevedibili della vicenda, procedendo a passo spedito verso un epilogo confuso, privo di un qualsiasi guizzo inquietante, se non qualche immagine splatter per insaporire un brodo irrimediabilmente stemperato. Insomma, uno schema incomprensibile che diventa un disastro totale nel finale, unico baluardo a cui tutti gli appassionati si sono aggrappati nella speranza di una piccola epifania mostruosa. Manco quella. La domanda è doverosa dunque,  sono questi i film che dovrebbero far tornare la gente in sala? 
 
 
Giada Farrace 
 

Palazzina Laf

Giovedì 22 Agosto 2024 14:12

E’ sempre appianato il percorso di chi decide di narrare una pagina spinosa della storia del nostro paese appellandosi agli stilemi del classico racconto drammatico, rifacendosi magari alla vecchia scuola del cinema d’indagine. Meno facile è invece portare sullo schermo quello stesso fatto di cronaca partendo dal basso, dal dramma individuale, scegliendo quasi i toni della commedia. Perché con Palazzina Laf Michele Riondino supera il varco del genere drammatico e anche quello della ricostruzione analitica, dispiegando una storia di difficile nomenclatura per la sua natura di ibrido tra commedia amara e dramma ironico. I presupposti fermandoci anche soltanto all’impianto narrativo ci sono tutti per convincere della riuscita di questo piccolo film(che piccolo poi non lo è affatto) e delle capacità registiche di Riondino. La vicenda è ambientata negli anni novanta, più precisamente in quel delicatissimo momento in cui l’Ilva di Taranto, dopo la privatizzazione passò in gestione ai Riva. Attraverso la storia di Caterino La Manna (Michele Riondino), uno dei tanti operai all’acciaieria, si ripercorre quella pagina tormentata e dolorosa all’interno della fabbrica, un momento storico che lasciò un segno indelebile per le vite di chi vi lavorò e per tutti quelli che finirono per ammalarsi fatalmente a causa delle inalazioni di amianto. E’ una Taranto che fa solo da  sfondo quella raccontata da Riondino, dove non c’è spazio per il colore, per il mare o la spensieratezza. Ingaggiato da un insidioso dirigente (Elio Germano) per tenere d’occhio e spiare tutte i movimenti sindacalisti nel ventre della fabbrica, La Manna finisce per fare carriera e conquistarsi (come molti) una promozione ai piani alti, arrivando alla Palazzina Laf. Ma, qui c’è poco spazio per l’entusiasmo, dal momento che La Manna approda in un non luogo, nella fattispecie un edificio realmente esistito in cui venivano confinati tutti gli operai aventi un profilo altamente specialistico. Un ricatto ad opera della direzione (prima forma ufficiale di mobbing sul luogo di lavoro in Italia) la quale stabiliva chi fosse sgradito. Da quel momento in poi le alternative per chi finiva nella lista nera erano due: accettare di fare gli operai senza alcuna formazione oppure finire in un’ala dello spazio siderurgico adibita a pseudo ufficio dove passare le ore di lavoro senza uno scopo preciso, in un perenne stato di inattività logorante. L’oblio, il fardello della noia, rendevano la vita di queste persone insostenibile tanto da farli precipitare in una spirale di alienazione e smarrimento. Ma come ogni cosa, anche questa situazione ai limiti dell’assurdo conoscerà la parola fine con l’arrivo di controlli e ispettorato del lavoro grazie ad una soffiata in procura. E’ un’Italia che conosciamo purtroppo molto bene, le cose in fondo non sono poi tanto cambiate nel corso degli anni, ma la maggiore consapevolezza verso temi così scottanti e pericoli irreparabili per la salute dei cittadini, hanno portato a dibattere e lottare per la chiusura di realtà di un sistema malato e carnivoro. Riondino punta la lente d’ingrandimento sul profitto del singolo e su quanto esso abbia pesato a discapito del benessere della collettività. Una tragedia quella dell’Ilva che si perpetrò negli anni senza concludersi definitivamente dopo il processo, ma lasciando stigma profonde in tutti coloro che si ammalarono fisicamente e psicologicamente. Palazzina laf è una riflessione toccante e originale, su vita e lavoro, non di meno sul valore sociale che riveste il mezzo cinematografico quale strumento di analisi e conoscenza per le generazioni attuali e future.

Giada Farrace

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