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Il primo re

Mercoledì 30 Gennaio 2019 21:08

Sono due gli elementi che rendono un esperimento cinematografico riuscito e sfaccettato: l’ambizione e il coraggio. 
Ancora ben pochi film in Italia hanno il pregio di accettare nuove sfide, di mettere in discussione i dettati stilemi della narrazione. Matteo Rovere è uno dei pochi che ha deciso di superare quegli stilemi e di spingersi oltre. Il primo re è il più diretto tentativo di estensione e fusione di nuovi percorsi narrativi. Attingendo ad un’antichissima culla di mitologia e storia, Rovere dirige un film in cui viene raccontato ciò che avvenne prima della fondazione di Roma, prima della nascita dell’impero più vasto e imponente di sempre, ossia quello romano. E’ la storia di due gemelli, Romolo e Remo, che vivono nei pressi del fiume Tevere allevando capre. A seguito di una violenta alluvione, i due si ritroveranno prigionieri sulle rive della città di Albalonga, luogo dei Guerrieri di ferro. Costretti a prendere parte ai tremendi culti della Triplice Dea, Remo e Romolo riusciranno a sfidare la sorte, combattendo contro le guardie e scampando alla morte assieme ad altri fuggitivi. Ma il volere implacabile degli dei riserverà loro un arduo percorso, che avrà fine solo con lo spargimento del sangue fraterno. La narrazione di un racconto mitologico risulta da sempre terreno di difficoltà  in virtù dell’enorme quantità di simboli e significati a cui si deve attingere e di cui si deve necessariamente tener conto. Il mondo ricostruito da Matteo Rovere è il risultato di un durissimo lavoro di analisi ed edificazione, messo a punto da un cast tecnico di tutto rilievo. Partendo dai dialoghi, ci si rende conto sin da subito della vastità di sfumature  e dell’insormontabilità di una lingua antichissima come il protolatino. Attraverso fonti contemporanee al periodo storico in cui si pensi siano vissuti Romolo e Remo, un gruppo di semiologi dell’Università La Sapienza, ha eseguito un lungo studio sulla lingua fon-dativa, pre-romana. Una sfida complessa che ha poi coinvolto in fase di produzione gli attori protagonisti, alle prese per la prima volta nella loro carriera con un copione in protolatino. Una scommessa vinta sia per Alessandro Borghi che per Alessio Lapice, intensi e coinvolgenti in un quadro scenico che in alcuni momenti ricorda da vicino il viscerale Apocalypto di Gibson. Se infatti vi è un aspetto che più si avvicina al cinema internazionale è proprio quella cura riservata agli scontri fisici nel corso del film. Le scene di combattimento sono rese con rara maestria quasi confondendosi con il cinema hollywoodiano. Ed è un peccato che non siano più presenti nel corso del film, apparendo solo in tre occasioni. Matteo Rovere infatti dirige un’opera selvaggia e spesso cruenta, che avrebbe giovato di più azione e scontri soprattutto nell’ultima parte, che se confrontata con il resto del film risente di penuria di ritmo, accusando una conclusione troppo spedita. La fotografia, impiantata sull’uso della luce naturale, se da un lato restituisce un quadro di impianto naturalistico, dall’altro rende meno vigorosa l’immagine, la quale sovente appare quasi cineamatoriale. Il primo re, in sala a partire dal 31 gennaio, è un film che nonostante alcune debolezze interne, riesce a fondere in modo impeccabile la riflessione sul mito e sull’impenetrabilità del destino, all’azione brutale e feroce. Un lavoro che si lascia apprezzare non solo per il coraggio, ma anche per una spettacolarità ancora aliena nel cinema italiano.

Giada Farrace

La Favorita

Mercoledì 05 Settembre 2018 21:24

Schiacciata da un violento conflitto con la Francia, l’Inghilterra è alle prese con un’importante decisione politica da prendere, se continuare a combattere al fronte o porre fine una volta per tutte alla guerra. Corre il primo decennio del ‘700, periodo contrassegnato da una situazione politica e militare ai limiti del gestibile, la quale fa da contraltare all’ovattato clima di frivolezza e svago presso la corte della Regina Anna (Olivia Colman), creatura infantile e volubile dedita in modo fedele solo al sollazzo incessante. Al suo fianco la fedelissima e sagace Lady Sarah Churchill (Rachel Weisz), amica intima nonché principale responsabile delle più importanti decisioni politiche a corte. Sarah è la mente del sistema politico e militare dell’Inghilterra, stratega animata da un forte temperamento maschile e da un’innata inclinazione al potere. Il saldo rapporto tra la regina Anna e Sarah Churchill subirà un drastico scossone con il sopraggiungere a corte di Abigail Masham (Emma Stone), giovane dalle radici aristocratiche ora al servizio della corte inglese. La ragazza si dimostrerà da subito un’ottima manovratrice, e assetata di brama otterrà con estrema semplicità il favore della regina, conquistando la sua più totale fiducia a danno della Churchill.  Una vera sorpresa l’ultimo film realizzato da Yorgos Lanthimos, presentato alla 75 esima Mostra del Cinema di Venezia e vincitore del Leone d’Argento Gran premio della giuria. Dopo aver diretto un’opera tanto gelida quanto feroce come Il sacrificio del cervo sacro, il regista greco torna dietro la macchina da presa con un approccio sempre denso di cinismo, ma volto in tal caso a cogliere una microrealtà (quella di corte), contornata da numerosi aspetti esilaranti. La regina Anna mostrataci da Lanthimos, è una figura capricciosa ma buona, una donna puerile intrappolata all’interno di un ambiente artificioso e infido. Olivia Colman si dimostra all’altezza di un personaggio sfaccettato e comico, restituendo un ritratto femminile personale e mai discrepante. Ottima prova interpretativa anche per Rachel Weitz ed Emma Stone, entrambe esilaranti e allo stesso modo spietate da sembrar avvinte da sortilegio. The Favourite è pertanto un film che dispone di un ritmo perfetto, scorrevole e coinvolgente, merito sopra ogni cosa di una sceneggiatura robusta. Un dettagliato affresco su una sfida tra donne, un gioco di potere spietato e crudele che fa della brama il suo letale veleno.

Giada Farrace 

La casa di Jack

Giovedì 28 Febbraio 2019 14:15
Il perseguimento del piacere in modo compulsivo è quanto di necessario e vitale per l’archetipo dell’individuo affetto da ossessione. Raggiungere quello stato di ebrezza è l’unico modo per far cessare un preciso dolore o una frustrazione. La ripetizione di un determinato atto capace di generare piacere assume automatismo tanto da essere paragonato alla respirazione, e ad altri fenomeni di cui non si ha sempre percezione. Jack è portato quasi naturalmente ad uccidere, questa pulsione è generata dalla precisa volontà di provare un incommensurabile piacere, capace di renderlo immune a qualsiasi frustrazione. Ma quando tale condizione di superiorità cessa, egli si ritrova vulnerabile e di nuovo pronto a bramare altre vite, e pertanto altro piacere. Nel film diretto da Lars Von Trier si ripercorrono 5 dei 60 omicidi commessi da Jack durante la sua vita. E come in tutte le opere firmate dal regista danese, anche in questa la narrazione è scandita attraverso una clinica suddivisione in capitoli, preceduti da un prologo e in fase finale da un epilogo. Data la natura infernale di questo terrificante viaggio, l’epilogo in tal caso si presenta quale catabasi, nel senso più stretto e letterale del termine, ossia quale tappa finale nell’inferno più profondo, nella gola più ripida degli inferi. Ciò che rende questo film, sublime e allo stesso modo atroce, è la ricostruzione spaventosamente scrupolosa di ogni particolare degli omicidi. La minuziosità di Jack, orientata nell’organizzazione delle efferatezze, è al di sopra di ogni rappresentazione umana, fuori dalla portata di una mente ordinaria. Jack organizza la realtà secondo schemi ben precisi che confluiscono in un agghiacciante registro della morte. Vera anima del film, sono le voci fuori campo di Jack e Virgilio, che accompagnano dall’inizio alla fine la narrazione, alternando al resoconto degli omicidi degli interessanti esercizi di stile su prolusioni di varia natura. Pertanto, anche ne La casa di Jack, Von Trier gioca con le dissertazioni su argomenti che da sempre hanno esercitato su di lui una sconfinata attrazione. Arte, storia e religione sono solo alcuni dei temi che vengono trattati nei discorsi tra Jack e Virgilio, nei momenti che intramezzano la narrazione. Matt Dillon, alle prese con un ruolo piuttosto complesso e difficile da metabolizzare, è riuscito a restituire un personaggio unico, dalle più interessanti sfumature. Il suo Jack, è quasi un artista, un individuo capace di destare nello spettatore le più controverse reazioni. Impossibile non fare cenno alla presenza di Bruno Ganz, scomparso da pochissimo, e che nel film interpreta l’emblematica figura di Virgilio. La casa di Jack è l’ultimo film in cui Ganz ha recitato, e nel quale si è confrontato con un ruolo ancora una volta complesso e stratificato. Per lo spettatore, vederlo recitare in quello che sarebbe stato il suo ultimo film è toccante oltre che smisuratamente doloroso. Con lui se n’è andato anche un pezzo di grande cinema, un lungo capitolo sull’arte e sullo spessore di essa. La casa di Jack sarà nelle sale italiane a partire dal 28 febbraio, ed è fuori dubbio che turberà una vasta festa di pubblico. Un film che lascerà il segno nel bene e nel male. Da non perdere.
 
Giada Farrace

Hellboy

Giovedì 11 Aprile 2019 09:52
Sono trascorsi ben più di dieci anni dall’ultimo capitolo dedicato all’antieroe mefistofelico più singolare e irruento di sempre: HellBoy. The Golden Army (del 2008) è stato infatti l’ultimo film della saga diretta da Guillermo Del Toro, apprezzata da moltissimi, e che ha segnato in modo indelebile l’universo creato Mike Mignola. Il film che uscirà al cinema l’11 aprile si presenta quale reboot della saga, e questa volta vedrà dietro la macchina da presa il regista Neil Marshall, un nome che non è nuovo a chi di fantasy e horror se ne intende( egli ha infatti diretto alcuni episodi de Il trono di Spade e la pellicola horror di culto The descent).In questo reboot della saga, Hell Boy torna sullo schermo più indemoniato che mai, pronto ad affrontare un nemico tanto attraente quanto spietato come la bellissima strega Nimue, la Regina di Sangue, la qule assetata di vendetta intende eliminare l’intera umanità. Chiamato in Inghilterra per combattere dei giganti mostruosi e famelici, il demoniaco detective del BPRD, dovrà sconfiggere la forza oscura di Nimue, in uno scontro titantico senza precedenti. Hell Boy firmato Neil Marshall, gode di tutti quegli elementi più prossimi al fumetto originale, come ad esempio quella marcata componente gotica ( molto cara a Mignola) e la ricerca continua di scontri al cardiopalmo tra personaggi. La regia di Marshall spinge sull’accelleratore per quel che riguarda il ritmo, mettendo forse troppa carne al fuoco, tanto da risultare in alcuni passaggi un po’ troppo frastornante. Tuttavia, il film sembra funzionare proprio in virtù di quel tono politicamente scorretto che strizza l’occhio al divertimento, alla continua contaminazione tra epica fantasy ed action più disimpegnato. Di certo Neil Marshall non è un regista dato in prestito al genere, muovendosi da sempre tra azione, sparatorie e scontri fisici. La sua regia è pertanto disinvolta e naturale, rendendo il film piuttosto godibile sotto il profilo della fluidità. Dietro il mastodontico diavolo c’è l’attore David Harbour ( già noto al grande pubblico per il ruolo di Jim Hopper, capo della polizia in Stranger Things), che ha da subito convinto Marshall, un po’ per la sua prestante fisicità e un po’ per la sua profonda cura nel calarsi in ogni ruolo in modo impeccabile. Per Harbour, girare alcune sequenze è stato molto complesso e faticoso, per via delle protesi e dell’ingombrante tuta addosso. Tra le scene più elaborate infatti, è da annoverare quella della sanguinosa e sfibrante lotta con i giganti, uno dei momenti più ad alta tensione dell’intero film, nonché scena memorabile per effetti speciali e struttura sonora di questo HellBoy. Nel complesso, a dispetto delle numerose stroncature avvenute oltreoeano, HellBoy di Neil Marshall è un esperimento riuscito. E se la  sua virtù è quella di intrattenere senza troppe pretese, alternando diversi registri, il suo difetto è quello di chiudere frettolosamente la lotta finale, che di epico ha ben poco.
 
Giada Farrace 
 
voto: 3/5
 
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Nato dalle matite di Mike Mignola, il personaggio di Hellboy torna a distanza di 11 anni dalla coppia di film ad opera di Guillermo Del Toro, due ottimi esempi di cinecomic in tempi in cui questo genere di pellicole aveva sicuramente meno appeal tra il pubblico e riceveva meno riscontro anche da parte della critica. Tuttavia la mano dell'istrionico regista messicano contribuì ad elevare i due episodi precedenti allo status di cult, anche tra i meno avvezzi alle letture fumettistiche d'origine. Questo nuovo e atteso capitolo si confronta quindi per forza di cose coi precedenti, e la storia che fa da sfondo a questa nuova vicenda è legata ad un particolare ciclo narrativo, a detta del creatore uno dei più caratteristici ed efficaci per rilanciare il diavolo rosso sul grande schermo. L’intreccio prende il via dall'astio di una antica strega (Milla Jovovich, badass girl di Resident Evil), resa inerme per mano di Re Artú, grazie alla famigerata Excalibur, e dalla sua sete di vendetta nei confronti del genere umano su cui brama di scatenare nuovamente i pieni poteri. L'attore scelto per personificare Hellboy è David Harbour (già potuto apprezzare nella incensatissima Stranger Things) che compie più che discretamente il compito, riuscendo a dar corpo a una figura che come prestanza scenica non fa rimpiangere Ron Perlman, iconico interprete dei precedenti capitoli. Purtroppo però i problemi nascono quando il protagonista decide a sproposito di aprire bocca, con una serie di linee di dialogo e battute fuori da ogni tempo comico e la maggior parte delle volte piuttosto forzate, alla stregua dei peggiori siparietti tra i Vendicatori dei recenti film Marvel. In generale è la sceneggiatura che appare piatta e banale, con personaggi secondari assolutamente persi nello sfondo della vicenda, e coprotagonisti che faticano a ritagliarsi un ruolo di alcun rilievo, emblematico esempio nella figura del Professore Broom (Ian McShane), padre adottivo di Hellboy, che dovrebbe godere di uno spessore sicuramente maggiore per giustificare comportamenti e dinamiche a schermo. Lo sviluppo stesso segue un canovaccio fin troppo classico e scontato, piuttosto sfililacciato nell’intreccio della trama e nell’introduzione dei nuovi compagni d'avventura, col risultato di una serie di situazioni che si spostano di location e scopo principalmente per inerzia. Il regista, Neil Marshall, all'opera precedentemente in Doomsday e in alcuni episodi di serie tv tra le più chiacchierate (Trono di Spade, Westworld), si comporta al meglio delle sue possibilità per gestire le scene d'azione, che risultano montate al giusto ritmo e con una buona dinamica, ma il lavoro viene poi inficiato da una pessima CGI, nei suoi difetti piuttosto vistosa. Peccato perché in conclusione vale invece la pena citare che l'atmosfera fumettistica viene ricreata sufficientemente bene, che rispetto ai capitoli precedenti si avvicina a toni più dark, meglio confacenti alle caratteristiche originali dell'opera. 
 
Omar Mourad Agha 
 
voto: 2/5
 

Il traditore

Giovedì 23 Maggio 2019 17:21
Santa Rosalia, Luglio 1980. In uno sfarzoso e dispersivo salotto le più importanti famiglie di Cosa Nostra stipulano un accordo delicato, nuove direzioni da seguire nel vasto business della droga. Tensioni latenti e finti consensi fanno da contorno ad un’intesa la cui pace vacillerà in più occasioni portando inevitabilmente a spargimenti di sangue. Tra gli astanti c’è anche Tommaso Buscetta, circondato dalla sua numerosa famiglia. Buscetta sa bene che questa pace siglata dai Clan avrà vita breve e che recherà con sè delle aspre conseguenze per molti individui. Il temuto conflitto tra i boss non si fa attendere, e così pochi anni dopo quella riunione, scoppia una vera e propria contesa per ottenere pieno controllo sul traffico della droga. Il boss dei due mondi, Buscetta, è oramai costretto a fuggire in Brasile per tutalare la sua nuova famiglia, lontano dalla sua amata Sicilia, e dal suo originario nido familiare. Dal Brasile è costretto ad assistere impotente all’uccisione di alcuni suoi cari. Lo scontro tra clan è infatti divenuto più sanguinoso che mai, arrivando a colpire anche vite di innocenti, i quali hanno la sola colpa di portare un nome scomodo. Dopo essere stato arrestato ed estradato in Italia dalla polizia brasiliana, Buscetta incontra il giudice Falcone e pertanto decide di iniziare a collaborare con la giustizia, dando origine ad un processo di smantellamento che cambiò radicalmente le sorti di Cosa Nostra. Il traditore è un film che non si limita soltanto a narrare quel momento di svolta nella lotta alla mafia, ma scandaglia ogni tassello, ponendo in analisi molti elementi di differente natura a partire dal delineamento del complesso profilo di Tommaso Buscetta. Bellocchio ricostruisce l’immagine di un personaggio controverso e umano allo stesso modo e lo fa senza erigere altarini di stampo incriminatorio, ma tentando di avvicinare Buscetta ad una comprensione più profonda dello spettatore. E’ lui il traditore, anche se non ha mai smesso di affermare il contrario, rimarcando la sua estrema lontananza da quella che è divenuta con il tempo Cosa Nostra, estranea a tutti i principi da lui condivisi. La sua presa di posizione lo porta ad una vita da esule, lontano dalla sua terra natia e dall’amata Mondello. Ciò che più colpisce di questo coraggioso ed ambizioso film, è la capacità di condensare un materiale vastissimo in un racconto sul quale non grava  alcuni tipo di pesantezza. Il tessuto intrecciato da Bellocchio ha la virtù di procedere per salti coerenti, senza lasciare nulla nel limbo della sollecitudine. Il suo è un film diretto, frontale come quelle inquadrature sintetiche e dense di senso, che costellano tutta la storia. Privilegiando il contrasto, si fa leva sul carattere più pittorico della scena e della composizione dell’immagine, donando più profondità a molte sequenze. Esemplare è inoltre il lavoro sulla lingua, alla ricerca di quell’idioma originale della Sicilia, di quella cadenza ritmata ed espressiva. Pierfrancesco Favino è il fulcro della scena, perfetto in ogni angolatura, dimostrando ancora una volta di essere un interprete capace di rapire. Plauso speciale va a Luigi Lo Cascio, che restituisce un personaggio dinamico e intenso, abile nell’alternare con disinvoltura diversi registri, come solo pochi sanno fare. 
Il Traditore di Bellocchio, tra i film in concorso a Cannes quest’anno, è pertanto un film personalissimo e di rara bellezza, un racconto puro e analitico, che necessita di essere visto.  
 
Giada Farrace

La mia vita con F. John Donovan

Mercoledì 26 Giugno 2019 17:09

Cosa dovrebbe rivelare un artista di se stesso? E cosa è davvero importante conoscere di lui? Il timore di non essere mai all’altezza delle aspettative degli altri porta ad un perenne senso di inadeguatezza, uno smarrimento che come un vortice isola dal mondo esterno.  La mia vita con John F. Donovan ruota attorno a questo tema che come un guscio anestetizzante ha circondato a lungo l’esistenza di John, portandolo alla perdita di senso nel suo reale. Nel film, a narrarci la storia di Donovan è l’attore ventenne Rupert Turner, che in una lunga intervista in occasione dell’uscita del suo primo libro, decide di parlare della corrispondenza epistolare avvenuta circa dieci anni prima tra lui e la star americana.  Nelle lettere spedite a Rupert, Donovan confidava apertamente i suoi turbamenti, le continue frustrazioni dinnanzi ad una vita costruita sulla base dell’accettazione altrui. Il rapporto a distanza tra i due, sancì qualcosa di molto più importante di una pura amicizia epistolare, portando al disvelamento di alcuni aspetti finora tenuti all’oscuro. Il settimo film di Xavier Dolan è probabilmente quello che più cerca di discostarsi dai suoi precedenti lavori, tentando di fare da spartiacque con la pregressa filmografia. Dopo un’accoglienza piuttosto tiepida a Toronto, accompagnata da numerose disapprovazioni da parte della stampa internazionale, finalmente ci è possibile rintracciare le tanto chiacchierate debolezze di questo film. Partendo da una succinta analisi della trama, si arriva alla conclusione che i continui rimaneggiamenti della sceneggiatura da parte di Dolan e del suo co-sceneggiatore Jacob Tierney, di certo non hanno giovato sul risultato complessivo. Si pensi infatti, che il film è rimasto per circa due anni e mezzo in disparte, un po’ per i molteplici progetti di Dolan e un po’ per alcune incertezze sulla storia e sui personaggi. Ebbene, tali incertezze tornano a galla in modo prepotente nella versione finale del lavoro. Ciò che si evidenzia è pertanto un’intensità che vacilla gradualmente nel corso del film, fino a perdere totalmente equilibrio. La tempesta visiva tipica del cinema di Dolan è qui riconfermata, ma è la sola a restituire sensazioni che purtroppo i personaggi e le scene non riescono a trasmettere. La forza dell’immagine è il vero fulcro del film perché incanta e ammalia, lasciando però poco spazio ad altro. Anche se si è lontani dalle atmosfere e dalla tensione emotiva di un’opera sincera come E’ solo la fine del mondo, alcune di quelle istantanee continuano ad essere presenti nel cinema del regista. La presenza costante di esse, finisce in alcuni casi per creare un’assuefazione pericolosa per lo spettatore, soprattutto se quello che viene narrato non ha uno scheletro ben definito. La sensazione che il tutto evapori è tangibile dalle primissime scene, in cui Kit Harington, bello da bucare lo schermo, non riesce ad andare a fondo e a risultare pertanto adatto al ruolo. Da ciò deriva quel mancato senso di empatia che lo spettatore percepisce da subito, sentendosi incapace di avvicinarsi davvero ai personaggi (un aspetto che può apparire improbabile ed estraneo a chi ha finora amato i film pregni di forza e sentimento di Xavier Dolan, ma che si presenta con evidenza in questo lavoro). Tra gli aspetti positivi, è imperdonabile non dedicare una menzione speciale al piccolo Jacob Tremblay, vera perla del film, capace di rapire anche solo con uno sguardo. Nel cast anche Natalie Portman, nel ruolo della madre di Rupert, una presenza che aggiunge intensità al racconto passato del giovane, ma il cui personaggio poteva essere affrontato meglio e con una sensibilità differente. Susan Sarandon si trova invece a fare i conti con il ruolo di un'altra madre, quella di Donovan, donna solare e allo stesso tempo sfacciata, con un bizzarro rapporto con l'alcol. Ma il fiore all'occhiello resta il cameo di Kathy Bates, nei panni dell'irriverente manager di Donovan, capace di restituire al film un prezioso respiro cinico e ironico. Quel che è certo, è che il vero protagonista del racconto è in assoluto lo sguardo, ancora una volta cuore pulsante e motore di molte scelte stilistiche di Xavier Dolan, autore-tessitore di intrecci visivi che quasi sempre centra il bersaglio.

Giada Farrace

 

La Ballata di Buster Scruggs

Sabato 01 Settembre 2018 10:03
Un noto film western recita che il destino spesso lo si incontra proprio sulla strada presa per evitarlo. Quel celebre film, diretto da Tonino Valerii, e destinato ad entrare di diritto nella storia del western all’italiana, uscì nel 1973 sotto il titolo di Il mio nome è nessuno. L’importanza del destino, e del terribile gioco operato dallo stesso all’interno di un  western rappresenta da sempre un elemento imprescindibile, concatenante per ogni personaggio, e all’interno di ogni narrazione di genere.
Dirigere un film western equivale in un certo senso a realizzare un lavoro che non può eccettuare il fattore tradizione, nonché quella lunga memoria cinematografica western che ha intessuto migliaia di immaginari. Tuttavia se da un lato si tenta di creare sempre un legame, seppur in alcuni casi molto debole, con il passato, dall’altro emerge una progressiva e ben precisa volontà di proporre nuovi modelli di narrazione. Come è avvenuto per il recente I magnifici Sette,  passando poi per Il grinta e The salvation l’orizzonte cinematografico western gode di un nuovo e fresco respiro, imperniato da personalissime scelte di script e caratterizzazione dei personaggi.
Ethan e Joel Coen da sempre spartiacque per ricercatezza e fluidità nelle storie narrate, tornano a dirigere un film ambientato nello spericolato west, dopo ben otto anni dall’ultima pellicola di genere Il grinta, con protagonista l’ ombroso Jeff Bridges. Vincitore del premio Osella alla 75 esima Mostra del Cinema di Venezia, La ballata di Buster Scruggs rappresenta forse l’esempio più recente di commistione di genere, un espediente spesso privilegiato nel cinema dei Coen. Ambientato, come sopracitato, nell’arido e spietato West, il film si articola in sei episodi, ognuno dei quali presenta come filo conduttore l’indomabile forza del destino e il labirinto costituito dalle inestricabili conseguenze di esso sulla vita umana. Ricorrente nel film è la connotazione beffarda che tende profondamente al cinismo, aspetto molto familiare e caro al cinema dei Coen. Se da un lato vi è un tentativo programmatico di realizzare un lavoro a metà strada tra il cinema di genere e la commedia amara, dall’altro emerge un evidente limite in ambito di script, forse un po’ troppo inconsistente in molte sezioni. Un vizio che tende ad inficiare alcuni episodi, i quali risultano macchinalmente inferiori ad altri in termini di qualità narrativa. A mancare forse è quella coesione che avrebbe restituito maggiore vigore e continuità alle storie raccontate. Il cast vanta grandi nomi come Liam Neeson, James Franco, Brendan Gleeson, e un formidabile Tom Waits, vera perla del film.
Quella proposta dai Coen è pertanto un’antologia nel complesso godibile, che intrattiene in misura discreta, fermandosi tuttavia a metà strada, lasciando insoddisfatti gli spettatori più esigenti.
 
Giada Farrace
 

Il Signor Diavolo

Giovedì 22 Agosto 2019 09:59

Questo agosto presenta un lodevole pregio, ossia quello di regalarci grandi sorprese e inaspettati ritorni al cinema di genere sul fronte italiano. Tra questi spiccano titoli che hanno la particolarità di trattare temi tra loro molto vicini, ma con forme e linguaggi totalmente differenti, come ad esempio Il Signor Diavolo e The Nest, tanto per citarne due. Entrambi infatti, usciti quasi contemporaneamente, suggeriscono molto sull’attuale approccio italiano a questo delicato genere. Il Signor Diavolo tratto dall’omonimo romanzo scritto dallo stesso Pupi Avati, segna il ritorno del regista padano alle atmosfere cupe e demoniache, che marcarono in modo vigoroso la prima parte della sua carriera cinematografica. A distanza di quarant’anni dall’ultimo film horror, Avati narra attraverso un linguaggio personalissimo, una storia dai toni oscuri ambientata nella campagna veneta, in un periodo storico che coincide con l’inizio degli anni cinquanta. Un giovane ispettore, viene chiamato a Venezia per indagare sul misterioso omicidio di Emilio, un adolescente deforme, morto per mano di un altro ragazzo in circostanze ambigue. Attraverso la lettura accuratissima dei verbali giunti in suo possesso, l’ispettore viene a conoscenza di alcuni particolari alquanto raccapriccianti sulla vicenda. Gli elementi che affiorano a seguito dell’interrogatorio del giovane omicida, il quattordicenne Carlo, edificheranno un’inquietante segreto di cui soltanto in pochi sono a conoscenza. Tra fantasie popolari e indizi sempre più funesti, l’ispettore tenterà di comprendere cosa davvero si nasconde dietro la figura di Emilio, il ragazzo ucciso, sul quale da sempre aleggia un’aura sinistra, alimentata dalle superstizioni della comunità. Pupi Avati decide di tornare alle origini della sua carriera, realizzando un film che sintetizzasse alcune delle sue più radicate paure, ricongiungendosi per molti aspetti a lavori diretti in passato. E’ impensabile infatti, non trovare in un film come Il Signor Diavolo, quei temi cari al cinema di Avati, quali il terrore per il buio e per l’ingnoto nonchè l’interesse per quel vasto manto di leggende popolari che condensano spesso in storie orrorifiche. L’ambientazione riconferma la presenza di un leitmotiv che ha da sempre popolato i film horror di Avati, vale a dire quella tranquilla desolazione delle campagne tanto ridente quanto asfissiante. Il cast comprende nomi che hanno accompagnato spesso Pupi Avati nei suoi progetti più noti, come infatti Alessandro Haber (purtroppo presente solo in una scena), Gianni Cavina, Lino Capolicchio e Andrea Roncato. Si noti che molti tra questi svolgono ruoli sfuggenti, regalandoci quasi dei camei. D’altronde i personaggi che scorrono sullo schermo, se da un lato risultano perfettamente inseriti nel contesto, dall’altro risentono di un’apatia alquanto logorante che talvolta giunge a rendere il tessuto narrativo un po’ flemmatico. La scarsità di dettagli a livello di trama sfortunatamente non permette il decollo del film, lasciandolo in sospeso, quasi a metà dello sviluppo. A mancare è quel guizzo che dovrebbe innescare suspense, animando così la macchina percettiva della paura, ma soprattutto quella visione malata e disturbante presente invece in tanti altri lavori del regista. Nelle sale a partire dal 22 agosto, Il Signor Diavolo di Pupi Avati si immerge nelle atmosfere più oscure, annaspando in più occasioni, ma riuscendo comunque a farsi apprezzare per lo stile e l’inconfondibile eleganza, costanti nel cinema del regista padano. 

 

Giada Farrace

Martin Eden

Mercoledì 04 Settembre 2019 10:38

Lo smarrimento del senso della propria arte ha condotto Jack London ad un periodo di stasi profonda, di brusca interruzione nell’intimo processo comunicativo con il mondo. Qualche anno più tardi, lo scrittore statunitense scolpisce il suo Martin Eden ispirandosi a questo punto di arresto, a quel suo autoritratto di individuo in conflitto con alcune zone d’ombra della società a cui appartiene. Pietro Marcello decide di ispirarsi liberamente a questo vivace e profondo romanzo, facendo propria la parabola dell’antieroe. La vicenda narrata dal film, parte proprio nel momento in cui la vita del giovane Martin Eden subisce un totale cambiamento. Egli, audace marinaio alla continua ricerca di nuove avventure e curioso esploratore di luoghi estranei, si ritrova a dover salvare da un pestaggio Arturo, un ragazzo appartenente all’alta borghesia industriale. Martin viene così ricevuto in casa della famiglia del ragazzo, ed è qui che tra i numerosi convenevoli per il miracoloso salvataggio, il giovane si ritrova a stretto contatto con Elena, l’incantevole e colta sorella di Arturo, di cui egli si invaghisce da subito. Un’immagine quasi eterea e inarrivabile quella di Elena, che oltre a rappresentare un’ossessione amorosa, esprime indirettamente quel desiderio di riscatto sociale a cui Martin ambisce da sempre. Tra numerosi ostacoli e limiti che inizialmente appaiono insormontabili, Martin riesce a superare lo scoglio della sua umile origine, coltivando autonomamente la passione per lo studio e per la lettura. La tenace aspirazione ad elevarsi, un po’ per la voglia di migliorarsi e un po’ per amore di Elena, lo porta a realizzare quel sogno a tratti inaccessibile di diventare uno scrittore. Ma lo scotto da pagare è amaro, l’emancipazione della cultura può portare a stretto contatto con circoli borghesi di un certo stampo, un mondo asfissiante e fittizio, troppo lontano dal pensiero sincero di Martin. Il film diretto da Pietro Marcello, seconda opera italiana in concorso quest’anno alla 76esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, è una libera trasposizione del romanzo forse più intimo e autobiografico di Jack London. Il Martin Eden di Marcello, è un affresco sincero e appassionato sui grandi cambiamenti avvenuti nel corso del Novecento e soprattutto sulle aspre difficoltà da parte di un giovane di umili origini nel rapportarsi alla società Borghese, emancipandosi solo attraverso la cultura e le proprie capacità. Libero da ogni forma di limite temporale, questo ambizioso lavoro, è ambientato simbolicamente in una Napoli colorata e consumata dalla società industriale, come avvenne per molte altre città in quel periodo. Al flusso narrativo del film, Pietro Marcello decide di alternare delle suggestive immagini di repertorio donando al racconto un respiro ancor più vivido. Il regista entra quasi in punta di piedi in questa vicenda, lasciando parlare il protagonista e il paesaggio, incontrastato fulcro dell’immagine in molte sequenze. Dietro questo giovane ed audace antieroe c’è Luca Marinelli, qui intenso come non si vedeva da tempo e aderente in massimo grado al ruolo. Attraverso i suoi occhi percepiamo molte sfumature dell’ambiente circostante ed è come se vivessimo in prima persona le situazioni a cui prende parte. Purtroppo l’unica debolezza del film, risiede nella parte finale, dove il quadro diviene più denso e artificioso. Si cede un po’ troppo al manierismo e questo rende molti passaggi forzati, generando una stonatura anche sul piano interpretativo. Un finale più sentito e meno conformato avrebbe chiuso il cerchio in modo più coerente. Nelle sale a partire da martedì 4 Settembre. 

Giada Farrace

It-Capitolo due

Giovedì 05 Settembre 2019 14:08
A due anni di distanza dal primo fortunatissimo capitolo, Andy Muschietti torna a dirigere la seconda ed ultima parte di It. In questo film, si affronta la sezione più delicata della storia, ossia il riaffiorare del raccapricciante passato dei protagonisti e la sfida finale con il tremendo pagliaccio. La cittadina di Derry richiama a sé i suoi prescelti, i Losers, ma sono trascorsi molti anni dal giorno in cui i cinque strinsero un patto di alleanza, giurando aiuto reciproco qualora It fosse tornato a seminare terrore. Da quel giorno, a seguito di circostanze poco favorevoli, molti di loro hanno scelto di allontanarsi da Derry, provocando un lento congelamento del reciproco rapporto affettivo. Ventisette anni dopo, Mike, l’unico rimasto a Derry, decide di riunire il gruppo dopo una strana ed inquietante apparizione. Egli deve assolutamente comunicare ai suoi amici qualcosa di urgente. Così dopo aver contattato ognuno di essi, stabilisce la data dell’incontro. Tuttavia durante questa euforica e attesa rimpatriata, gli entusiasmi per essersi finalmente ritrovati lasciano ben presto spazio al dipanarsi di quella presenza terrificante, quell’incubo minaccioso che ha da sempre perseguitato le loro vite: It. Il pagliaccio è tornato, e animato da un’insaziabile ferocia, continua a seminare terrore. Il suo scopo è fin troppo chiaro: disintegrare Il Club Dei Perdenti. In un tormentoso labirinto di inseguimenti e trappole efferate, Pennywise tenterà in ogni modo di attirare a sè i Losers, i quali stavolta dovranno giocarsi l’ultima carta per eliminare definitivamente questo malvagio pericolo. Un progetto ambizioso quello di Muschietti, che ha come scopo quello di restare fedele al libro, seminado nel corso della storia qualche variazione sul tema. È fuor di dubbio che il materiale a dispozione è davvero ingombrante, denso di dettagli e digressioni che potrebbero spaventare anche il regista più impavido. Ma Muschietti non si è di certo lasciato intimidire, lanciandosi a capofitto in un lavoro sicuramente per certi versi stuzzicante, ma che presenta degli evidenti limiti. Ciò che si apprezza è giusto lo sforzo atto a tenere unito un film molto lungo, sconcatenato e totalmente privo di un climax angosciante. Quest’ultimo aspetto, è infatti un importante punto debole che inizia a far sentire il suo peso dopo la prima metà del film, quando si attende ansiosamente l’irreparabile, ossia quel momento in cui tutto dovrebbe diventare più spaventoso e lugubre. Ma ciò non accade. E se durante i primi sessanta minuti di film, il saparietto comico poteva essere legittimato dalla parentesi della rimpatriata per alleggerire il plot prima dello svelamento del terrore, nella seconda metà del film questo comic relief inzia a stonare, ma di parecchio. La mancanza di tensione è invalidante, dimostrandosi la principale causa di un approccio un pò troppo evasivo sulle apparizioni di Pennywise e sull’aura stessa del pagliaccio. Altro grande assente è l’elemento conturbante, probabilmente trascurato per dare spazio allo spettacolo, a lunghe (e sfibranti) sequenze con impeccabili effetti speciali, tipici dei grandi blockbuster. Ma non stiamo guardando un film dei fratelli Russo. Detto ciò, il film non è totalmente un fiasco, soprattutto, come già citato, nella prima parte, la quale fa un po' da salvagente, regalando alcune scene disturbanti, una tra tutte quella con protagoniste Beverly e l'anziana donna dietro alla quale si cela Pennywise. D'altronde, se il quadro complessivo risulta apparentemente stimolante è anche grazie ad un cast davvero ricco di nomi apprezzatissimi nel panorama cinematografico attuale quali James McAvoy, Jessica Chastain, Jay Rayan e molti altri, che tentano di illuminare le molteplici zone d'ombra nel corso del film. In conclusione, It- Chapter Two è paragonabile ad un allettante involucro di contenuti, al cui interno però si rimane insoddisfatti, come alla perenne ricerca di un affresco sul male, di un confronto diretto con il terrore. Una ricerca che purtroppo si dimostra vana.  Al cinema dal 5 Settembre. 
 
Giada Farrace
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