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Volevo Nascondermi

Venerdì 06 Marzo 2020 14:03

In questo clima distopico, purtroppo reale, dove la presenza di un virus influenzale potenziato all’ennesima potenza sta mettendo in ginocchio la vita di tutti i giorni e l’economia mondiale, anche il mondo del cinema deve arrendersi e chiudere le sue porte. O almeno chiuderle in parte, visto che in questi giorni, in poche sale esce Volevo Nascondermi di Giorgio Diritti (David di Donatello 2010 per l’Anno che Verrà), dopo il successo ottenuto all’ultimo Festival di Berlino appena concluso. Hidden Away, così è stato presentato alla Berlinale edizione 70, letteralmente significa “nascosto”. E forse cade proprio a pennello questo titolo. Stiamo tutti belli nascosti nelle nostre case in attesa di un miglioramento della situazione sanitaria. Celati, coperti e latitanti come il protagonista del film Antonio Ligabue (Elio Germano - Palma d’oro come migliore attore al Festival di Cannes 2010 per la sua interpretazione ne La nostra Vita), pittore e scultore italo (l’Emilia è la sua vera casa) svizzero famoso per la sua arte naif. Ma al contrario dell’artista noi siamo convinti che le cose miglioreranno, per lui nascondersi è stato un obbligo per tutta la sua vita. Elio Germano per la sua performance ha vinto l’Orso d’Argento alla Berlinale. Il film sta tutto nella prova one man show dell’attore romano. Che a noi è sembrata un po’ sopra le righe. Ricade troppo spesso nell’overacting. Il film non giova di questo e con l’andare del tempo la pellicola rimane solamente rinchiusa nelle smorfie di dolore del protagonista; non riuscendo fino in fondo a farci capire quanto l’arte di Ligabue lo rendesse intimamente felice e l’importanza che ha avuto per i posteri. Non si scorge mai un barlume di luce.

Antonio Ligabue (1899-1965), chiamato Toni e successivamente “El Tudesc”, fin dalla giovane età ha una crescita incolore, colma di solitudine ed amarezze famigliari. Il colore, al massimo della sua saturità’, ci penserà lui ad usarlo assiduamente nei suoi dipinti. L’infanzia la vive in Svizzera in affidamento ad una coppia con la quale non ha molto dialogo. Fin tanto da attaccare fisicamente la madre adottiva. Cacciato dalla nazione elvetica trova rifugio sulle rive del fiume Po’. Vive di stenti ed incute timore alla gente dei poderi limitrofi. In lui pervade sempre un senso di smarrimento. L’unico modo per sperare ed evadere da pensieri attanaglianti è quello di dipingere. I suoi quadri hanno come protagonisti animali selvaggi della foresta, che aggrediscono quelli più in basso nella catena alimentare. Ma la vegetazione non è quella lussureggiante dei tropici, è la natura della cosiddetta “bassa” fatta di fitti boschi e pianure, sempre con il suo amato fiume Po’ presente. Quando incontra Renato Marino Mazzacurati la sua vita cambia e capisce che il suo sostentamento può arrivare dal suo modo di concepire l’arte. Il suo aspetto fisico non lo aiuta ad interagire con il mondo. In più la sua vita gitana e paranoica non collima con gli ambienti degli intellettuali, ma riesce comunque a far breccia e a guadagnare palate di denaro. Soldi tutti spesi in motociclette, la sua vera passione oltre la pittura. Non si toglierà mai, anche dopo la fama, quell’aurea di diverso.

Giorgio Diritti questa volta non è riuscito appieno a convincere. Non solo la direzione del film non è fluida ed accattivante, ma anche la scrittura ha dei problemi di fondo (scritto con l’aiuto di Tania Pedroni). Il registro è sempre mono corda. L’intensità narrativa non decolla mai e l’atmosfera è piatta. Interessante, come sempre nei film del regista bolognese, rimane la messa in scena dei luoghi in cui si svolge la vicenda. Ottima la ricostruzione degli ambienti rurali in cui ha vissuto Ligabue. I cascinali, dove al loro interno si consuma la vita di campagna con la pasta fatta in casa e il formaggio sempre fuori pronto per essere grattugiato, portano lo spettatore in quell’epoca fatta di luoghi e costumi genuini ed incontaminati. Il supporto della scenografa Ludovica Ferrario è stato fondamentale. Questo è un particolare del film, che riesce a far sentire a proprio agio lo spettatore.

Il vero difetto di Volevo Nascondermi è quello di non approfondire l’arte del grande artista. Non che si voglia che ci vengano spiegati i quadri, ma soffermarsi soltanto sullo stato instabile di Ligabue è assolutamente riduttivo. Al film manca decisamente una spinta emotiva. Filo ricattatorio perché non esce mai dalla rappresentazione di un Ligabue malato e problematico. Puntare il riflettore sulla diversità intesa come genio avrebbe dato alla pellicola la giusta forza e quel grado di approfondimento corretto, che avrebbe innalzato la figura del pittore e del film stesso.

Prendere l’esempio da un riuscitissimo film come ll mio piede sinistro di Jim Sheridan. L’handicap in questo caso non è solo portatore di distacco dalla vita, ma il premio Oscar Daniel Day Lewis viene descritto come coraggioso e innamorato di quello che la vita gli offre: la sua pittura. Nel film di Diritti questo modus operandi più edificante non è presente.

David Siena

La verita'

Lunedì 09 Settembre 2019 20:46
Il regista Hirokazu Kore-eda non è sceso a compromessi. Per il suo La Verité avrebbe voluto l’apertura del Festival di Cannes 2019. Ma proprio dove l’anno scorso è stato premiato con la Palma d’Oro (Un affare di famiglia), ha trovato un muro alto da scalare. Il direttore Thierry Frémaux gli ha negato questo privilegio e Alberto Barbera (direttore della Mostra di Venezia) non ha perso l’occasione per portare il film del regista nipponico al Festival della laguna. Omaggiandolo proprio dell’apertura. La Verité è il primo film del cineasta girato fuori dal Giappone. Ha scelto la Francia e per il suo nuovo lavoro ha voluto una star del calibro di Catherine Deneuve, la quale interpreta Fabienne, un’attrice ormai a fine carriera. E come tutte le dive è narcisista e poco rispettosa verso il proprio sangue. La famiglia per lei è solo un peso. Soprattutto la figlia Lumir (Juliette Binoche) e il marito di questa, l’ex-alcolizzato Ethan Hawke. E’ corretto dire fin da subito che il film non è all’altezza dei lavori precedenti di Kore-eda. Probabilmente non aver lavorato in patria e le grandi differenze culturali tra oriente e occidente hanno influito sul risultato. Il linguaggio dell’autore non si riconosce in pieno, ne scaturisce un’opera poco eterogena, eccessivamente verbosa e in parte didascalica. 
 
Lumir arriva a Parigi con tutta la famiglia in occasione del lancio della biografia di Fabienne. Durante il viaggio da New York ha avuto il tempo di meditare sul tempo che passerà con la madre. Tempo sicuramente colmo di insidie, che probabilmente farà riaffiorare scomodi ricordi. Lumir è una sceneggiatrice. Lavora nel campo del cinema come la mamma, palcoscenico dove prende vita la loro competizione. L’unico punto di unione è la nipote Charlotte (Clémentine Grenier). Ma quest’ultima niente potrà fare per impedire a Lumir di litigare con Fabienne, visto che nella biografia ci sono fatti rielaborati a piacimento dall’attrice. 
Nella villa di famiglia anche i soffitti e le porte conoscono molto bene il clima poco armonioso, che durante gli anni si è istaurato tra madre e figlia: bugie sempre all’ordine del giorno e poco affetto.
Fabienne intanto si sta preparando per un ruolo in un film di genere. E nel particolare deve proprio interpretare una madre.
 
La Veritè è un progetto molto caro a Kore-eda; lo ha diretto, ma anche sceneggiato e montato. Inizialmente era stato scritto per il teatro e l’ambientazione avrebbe dovuto aver luogo in un camerino.
Si vede fin da subito che il regista giapponese non abbandona le proprie riflessioni/ossessioni, che sono il suo marchio di fabbrica. Protagonista principale è il senso di famiglia, che venga dallo stesso sangue o da chissà dove. 
E’ un maestro a muoversi con la macchina da presa negli interni della villa, seguendo le protagoniste e le loro emozioni. Interagisce con il pubblico che cerca anch’esso la verità. Ma tutto questo è perlopiù un déjà vu dell’autore. La diversità culturale, come accennato in premessa, non aiuta nello sviluppo completo dei personaggi: ruoli che abbracciano troppi cliché. Si rimane in superficie, dove purtroppo si apprezza meno meticolosità e distinzione rispetto al modus operandi di Hirokazu Kore-eda. Altra sbavatura è rimarcata dalla non perfetta gestione dei tempi. 
 
Di livello le performance delle due protagoniste: Deneuve è a suo agio in un ruolo che rispecchia in parte il suo vissuto. La forza della sua immagine dona a Fabienne quella giusta aurea di attrice navigata, che sa quello che vuole. Il ruolo di madre vera e propria si vede solo quando recita, attimi in cui la finzione è usata per mettere in scena una realtà mai consumata. Juliette Binoche si immedesima perfettamente in un’anima fragile e non c’è momento in cui questo non si noti, anche negli sprazzi di eccitazione e vigore. Insomma entrambe sono completamente nella parte. Ethan Hawke purtroppo non lascia traccia.
 
David Siena

Seberg

Martedì 03 Settembre 2019 20:54
Nel terzo giorno di Mostra del Cinema di Venezia, il palinsesto offre una biografia sulla carta decisamente accattivante. Protagonista incontrastata è Kristen Stewart, stella in perenne ascesa, sempre ben accolta al Lido da una nutrita schiera di fans. Questa volta la giovane attrice americana interpreta un’icona del cinema francese ed in particolare della Nouvelle Vague: Jean Seberg, nell’omonimo film (Fuori Concorso) diretto dal semi esordiente regista Benedict Andrews. Il film racconta solo una parte della vita dell’attrice, quella del ritorno in America, dopo il successo planetario avuto con Fino all'ultimo respiro (1960) di Jean-Luc Godard. Prima di addentrarci nella trama e nella disamina critica della pellicola, vorremmo soffermarci un attimo sulla one woman show che interpreta Jean Seberg. La Stewart, dismessi i panni della vampira Bella della saga Twilight, si è messa alla prova con registi quotati come Olivier Assayas (Sils Maria e Personal Shopper) e Woody Allen (Cafè Society), dimostrando di essere qualcosa di più di una Biancaneve che va appresso al Cacciatore. Profondità ed adattamento al ruolo ormai gli calzano a pennello. E dopo aver visto Seberg possiamo confermare quanto appena detto, peccato per l’opera in se, che al di là della prova della Stewart, il biopic non esce mai da un piattume figlio di una regia debole e di una scrittura senza mordente.
 
Siamo a fine anni 60 e precisamente nel 1968. Jean torna nella sua amata patria. L’FBI le è perennemente addosso. Gli agenti federali la sorvegliano 24 ore su 24 alla ricerca di legami compromettenti con il leader politico delle Black Panther: Hakim Jamal (Anthony Mackie). Tra l’attivista dei diritti civili e l’attrice nasce qualcosa di più che una semplice amicizia. A questo punto per gli organi di sorveglianza americani la Seberg è una nemica degli Stati Uniti ed ogni uscita pubblica o meno con Hakim Jamal è un buon pretesto per screditarla e denigrarla. Viene anche spesso spaventata ed intimorita. L’opinione pubblica gli rema contro, fino a portarla più volte a tentare il suicidio. Il caso viene affidato all’agente Jack Solomon (Jack O'Connell), per il quale le problematiche si faranno sempre più spinose più si avventurerà nella vita di Jean. Questa bellissima icona del cinema che fu, con i suoi cortissimi ed affascinanti capelli color platino, dovrà abdicare in giovane età. Jean Seberg muore quarantenne il 30 Agosto del 1979.
 
La regia di Benedict Andrews si concentra sui volti di Kristen Stewart, costantemente inquadrata da vicino e lei è sempre pronta a sviscerare la sue gioie, ma soprattutto i suoi tormenti. Qui il film prende un po’ di respiro, riallacciandosi proprio con il cinema francese della Seberg, colmo di primi piani esplicativi. Ma l’opera meritava una più mirata complessità. La sola performer, seppur brava, non può da sola portare a casa il risultato. Tutto il resto è diretto senza approfondimento. Le svolte narrative sono pressoché inesistenti. I momenti più importanti che hanno caratterizzato la sua esistenza sono scene fast food senza un vera esplorazione.
 
Il film, dal taglio più commerciale che d’autore, si limita a rimanere in superficie. 3 days to Quiberon, visto al Festival di Berlino ed. 68, diretto dalla regista Emily Atef ed incentrato su un’intervista a Romy Schneider (per intenderci la famosissima Principessa Sissi) è l’esempio di come una regia intima riesca a farci percepire il vissuto del personaggio, non limitandosi a solo inquadrare, ma anche a raccontare. Tra ricordi e vita reale, la narrazione non si perde nelle sole scenografie, cosa che purtroppo succede in Seberg.
 
David Siena

Tenet

Giovedì 27 Agosto 2020 10:35

Tenet è la sfida contro il tempo di Christopher Nolan, il regista inglese assembla un cast stellare per presentarci un film (volutamente) imperfetto e svegliarci dal torpore della quarantena. Il “protagonista” (John David Washington) dimostra una cieca fede nella causa a cui si è affidato, come “premio” riceve la possibilità di salvare il mondo da un disastro, dalla “terza guerra mondiale” o meglio l’estinzione istantanea dell’intera razza umana, per farlo egli deve comporre un algoritmo con il compagno di avventure Neil (Robert Pattinson) di cui non dovrebbe fidarsi, per poi disassemblarlo e permettere che questo mondo marcio sopravviva. Tenet è uno spy drama, a tutti gli effetti, il cattivone è un russo stereotipato (interpretato da Kenneth Branagh) Adrei Sator il trafficante d’armi  è il marito di Kat (Elizabeth Debicki che interpreta la stessa identica parte nella serie TV The Night Manager) una “bond girl” bellissima e ribelle. Al centro della vicenda c’è un concetto molto interessante: grazie ad una tecnologia del futuro le azioni compiute possono essere riavvolte nel tempo, così che la stessa traiettoria di un proiettile possa tornare indietro e trapassare il malcapitato al contrario, le automobili possono correre in retromarcia senza farlo davvero, le bombe possono esplodere distruggere un palazzo e poi sotto gli occhi dei presenti è possibile annullarne ogni effetto e farle tornare spente davanti alle macerie che tornano da sole al loro posto riformando l’edificio. Lo stesso vale per le persone e gli eventi ma con effetti più devastanti sulle linee temporali. Giocando su espedienti abbastanza prevedibili ogni elemento del film è condizionato da questo gioco basato in parte sulle teorie quantistiche, attraverso lunghissime spiegazioni minuziose e assolutamente stranianti. La perplessità nasce dal voler accettare a tutti i costi qualcosa che non si può davvero “cercare di capire” dal principio perché dopo su tutte le chiavi di lettura si impongono altri fattori “la forza dell’ignoranza” e i paradossi. Il non sapere rende i coinvolti liberi di agire grazie al loro libero arbitrio e il cuore: come fu per Interstellar (2014) è l’unica bussola da seguire. A differenza del film con McConaughey però, Nolan sacrifica la necessaria crescita dei personaggi e dei loro affetti dimenticando di dare spazio all’empatia, rendendo sterile gran parte del progetto. Meraviglioso il comparto sonoro, come fu per Dunkirk (2017) Best Sound Mixing agli Oscar del 2018, ogni rumore, ogni esplosione porta una eco indelebile. La colonna sonora è stata affidata al giovane talentuoso Ludwig Goransson (compositore delle musiche di The Mandalorian, 2019) segue tutto il film ravvivando l’azione. Indubbiamente porta la firma del suo regista che come ci si aspetterebbe da lui ha inserito easter eggs già dal titolo: Tenet, parola che compone la  misteriosa frase palindroma in latino del cosiddetto quadrato magico (o quadrato del Sator) “Sator Arepo Tenet Opera Rotas” troviamo anche riutilizzate all’interno del film tutte le parole, in modo  intelligente. Inutilmente complicato fa indubbiamente parlare di se.

Francesca Tulli

Torna dopo “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” (2017) Martin McDonagh in concorso al Lido. E porta con sé i suoi due attori feticcio: Colin Farrell e Brendan Gleeson, visti nel suo meraviglioso “In Bruges”. E come sempre confeziona un’opera solida, preziosa e vicina alla perfezione. Come il migliore degli orologi non perde tempo in fronzoli ed ogni rintocco delle quasi 2 ore di film è un piacere per lo spettatore; che vive empaticamente le sorti dei protagonisti, in un saliscendi tra dramma ed ironia. Premiato qui a Venezia con la Coppa Volpi al Miglior attore a Colin Farrell e con la miglior sceneggiatura proprio a Martin McDonagh. Non ci sarebbe stato premio più azzeccato. Prodotto dalla Searchlight Pictures, casa Disney, l’uscita italiana è prevista il 2 Febbraio 2023.

 

Irlanda anni 20, isola al largo della costa occidentale. Padraic (Farrell) e Colm (Gleeson) sono migliori amici. Un giorno Colm decide improvvisamente di rompere l’amicizia. Questo avrà conseguenze disastrose non solo nella vita di Padraic, ma anche per l’intera piccola comunità. L’isolano non si rassegna all’idea della perdita senza senso di Colm e cerca in ogni modo di scuoterlo e farlo ragionare. Padraic cerca aiuto nella sorella Siobhan (Kerry Condon) e nel figlio del capo della polizia Dominic (Barry Keoghan). Quest’ultimo personaggio decisamente svampito; vive in un mondo tutto suo. Colm è ferreo sulle proprie convinzioni e non ha intenzione di fare un passo indietro, anzi, rincara la dose. Se Padraic continua ad importunarlo è deciso a prendere drastiche decisioni al limite della follia. Tutto questo disagio si istaura nell’intera comunità, che non è abituata ad un clima belligerante.

 

McDonagh si conferma un ottimo regista, ma soprattutto un eccellente sceneggiatore. Lo script è favoloso. Disegna con precisione millimetrica i protagonisti. Tutti, compresi I baristi del pub del paese. Tra spiriti che prevedono gli accadimenti ed animali nel focus dell’azione, esplode una strana guerra imprevista, non voluta. Siamo di fronte ad un possente racconto allegorico e morale sulla sconsideratezza delle guerre. Battaglie di massa senza senso, quelle che incorniciano il paese irlandese nel pieno delle proprie incoerenze. Ma qui soprattutto personali, dettate da sfizi e da intime pochezze. Colpi di orgoglio umano ingiustificati e pericolosi, non solo per gli interessati, ma anche per i posteri.

La messa in scena lascia veramente stupefatti. Un argomento come la guerra scritto con garbo e finezza. Si incastra tutto alla perfezione. L’argomento in superficie dell’amicizia negata è solo uno specchio per allodole, che nel profondo sottotesto esplode come l’inizio di una guerra sanguinosa, rancorosa e distruttiva. Insita, ahinoi, nell’animo umano. E poi, diciamolo a voce alta, nel film non si vede un fucile.

McDonagh può veramente essere considerato uno dei migliori esponenti drammaturgici dei nostri tempi. La

regia è compatta, in grado di non perdere mai il focus del film. A tratti Teatrale e spettrale.

 

Ruba l’occhio la fotografia di Ben Davis, collaboratore stretto di Martin McDonagh. Paesaggi incontaminati immortalati in splendidi campi lunghi e medi. Verdi prati e svettanti scogliere, che danno respiro al film. Il tutto in netta opposizione con lo stato cupo e depresso dei protagonisti. La natura può solo assistere inerme alla nostra distruzione.

 

The Banshees of Inisherin è una partita a scacchi giocata da due personaggi, metaforicamente con il mondo intero in mano, che decidono il destino di tutti. Non vi sembra clamorosamente attuale? Un lungometraggio da non perdere. Colpo di fulmine.

 

David Siena

Le otto montagne

Giovedì 22 Dicembre 2022 16:23

Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, i registi dell’intenso Alabama Monroe, portano in sala Le otto montagne, con i nostri Alessandro Borghi e Luca Marinelli. Premio della giuria a Cannes 75, il film è tratto dal libro omonimo di Paolo Cognetti, premio Strega nel 2017. Ottima l’alchimia cinematografica tra i due attori italiani, che si immergono anima e corpo in un nuovo “Into the Wild”. Narrativamente incalzante, il film fa riflettere sul proprio essere e su quanti siano i nostri posti nel mondo: dal più piccolo e remoto posto italiano, agli innumerevoli luoghi meraviglie del pianeta.

La storia d’amicizia raccontata ne Le otto montagne è il fulcro indissolubile del film. Ce la racconta proprio Pietro (Marinelli), attraverso le parole dello stesso Cognetti, per tutta la durata della pellicola. Pietro è un ragazzino che vive in una grande città e passa sempre le vacanze estive in montagna con la famiglia. Il giovane pastore Bruno (Borghi) conosce invece solo la sua casa incastonata nelle montagne. I due si incontrano durante l’estate e tra di loro si crea un rapporto unico ed onesto. Legame che si perpetuerà nei molti anni a venire, fino all’età adulta. Anche se Pietro va e viene dalla montagna, gli incontri con Bruno sono fondamentali per la sua formazione. Entrambi assorbono ed imparano i dolci e i duri dettami della vita: l’amore, la sconfitta, la privazione e il lutto. Senza mai dimenticare le proprie origini, diventano l’uno complementare all’altro e quindi amici per sempre. Insieme imparano a fare molte cose e il tempo li aiuta a scoprire le bellezze e le difficoltà della montagna: i verdi prati e il loro profumo genuino per poi arrivare agli sconfinati boschi, che ci introducono alle prime salite e ai paesaggi vuoti. Qui la vegetazione è minima e secca. Una grande metafora della vita, che loro abbracciano insieme senza mai staccarsi veramente.

I due registi belgi hanno girato prevalentemente tra le vette della Val d’Aosta. Ed al contrario di quanto ci si poteva aspettare, hanno usato un formato cinematografico anomalo per rappresentare una storia ambientata per lo più in spazi sterminati e ampi. Non il classico 16:9, ma un 4:3 (quattro terzi).  Registicamente parlando hanno voluto puntare l’attenzione sulle persone e sulla loro intima evoluzione, tagliando nel vero senso della parola gli spazi naturalistici. Spazi perennemente cercarti dai due personaggi in maniera oggettiva e soggettiva. E se queste ampie zone non le vediamo sullo schermo è perché i protagonisti le hanno trovate dentro di loro e ne fanno tesoro, sia che queste siano fra alte vette o in qualche zona sperduta dell’Asia, l’importante è che tra amici vengano rispettati i reciproci spazi. La vita di tutti i giorni viene lasciata appositamente fuori campo e ci si concentra sulle visite di Pietro a Bruno: meeting brevi, ma carichi di vita e suggestioni. Una vita per Bruno sempre vissuta nella propria zona comfort, il contrario per Pietro, che osa. Lontananze che possono dividere, ma che qui avvicinano più che mai. Si culmina con l’apoteosi di un inverno tra le nevi vissuto finalmente insieme. I registi hanno la maestria di raccontare con un linguaggio filmico intenso e con uno sguardo raffinato e autentico una vicenda incentrata sullo scorrere del tempo. Tempo che quasi si ferma per il montanaro Bruno, che non lascia mai la propria montagna. Tempo che scorre velocissimo per Pietro che viaggia e vive il mondo.  

Le otto montagne ha un focus al maschile, che dà comunque una grande importanza all’universo femminile. Consigliato a tutti, ma soprattutto a chi ama le storie tormentate, vivide e toccanti. Unica vera pecca sono le 2h30 di girato: si poteva ridurre di qualcosa, ma lascia comunque, dopo la visione, un retrogusto piacevole e gratificante.

David Siena 

 

Bones and All

Sabato 10 Settembre 2022 14:40
Bones and all è il nuovo film di Luca Guadagnino in concorso alla Mostra di Venezia 79. Tratto dal romanzo
di Camille DeAngelis, che qui si cimenta anche nella sceneggiatura insieme a David Kajganich. Protagonista
è Taylor Russell e l’enfant prodige Timothée Chalamet (affezionato alle collaborazioni con Guadagnino dopo
il riuscito “Chiamami con il tuo nome”). Road Movie che parte dall’Ohio e attraversa parte degli States per un
viaggio rosso sangue. Una storia d’amore a tinte horror che convince e rimane fedele a quello che promette.
Siamo all’epoca dell’America di Ronald Reagan quando Maren (Taylor Russell), rimasta sola, incontra Lee
(Timothée Chalamet). Lui è una persona solitaria con un carattere battagliero. I due giovani si aiutano a
vicenda durante questo viaggio colmo di pericoli. Si innamorano mentre sono alla ricerca di loro stessi e di
qualcosa che si possa definire “bello”. Perché loro sono persone brutte agli occhi del mondo. Il loro essere
cannibali li confina ai margini delle società. Fuggono ed allo stesso tempo cercano approvazione. Bones and
all è un romanzo di formazione anomalo con una linea narrativa classica, che analizza le difficoltà di tenere a
freno i propri istinti e come possa essere difficile vivere una vita normale quando si è diseredati. Molti dicono:
“Siamo e ci distinguiamo per quello che mangiamo” e qui questa frase cade a pennello.
Il film si porta a casa 2 premi dal Festival veneziano: il Leone d'argento per la migliore regia a Luca
Guadagnino e il Premio Marcello Mastroianni come migliore giovane attrice a Taylor Russell. La data di
uscita americana è il 23 novembre 2022, mentre in Italia non è ancora schedulata. La distribuzione sarà di
Vision Distribution.
Un sì per Guadagnino; la sua regia è ottimamente calibrata. Il cineasta italiano, per il suo primo film
ambientato e girato negli Stati Uniti, riesce a trovare una sorta di sporca e vera intimità con la macchina da
presa, che a lungo andare ci fa dimenticare le atrocità che commettono i cannibali. Riesce tra horror e
sentimento a far salire in superficie una sorta di poesia, che tiene tutto equilibrato e godevole.
Qualche svolta narrativa risulta sempliciotta, ma il solido contesto filmico le fa passare in secondo piano. Si
vede la passione del regista che mette nel caratterizzare i propri protagonisti, soprattutto nella loro
dipendenza e nelle loro negatività. Scruta il loro vivere ai margini e in come lo mette in scena c’è amore.
Riesce così ad emozionare il pubblico che tifa per loro, anche se i loro gesti sono abominevoli. I protagonisti
cercano il loro posto nel mondo, cercando di carpire la propria natura e così facendo anche qualcuno che li
ami per quello che sono. Mondo che li evita e non li vuole. La loro emotività gli apre delle possibilità. Ma non
la possibilità dell’amore duraturo.
L’intenzionalità di riflettere sulle pulsioni giovanili riesce perfettamente al regista. Che gioca le carte
universali della morte e della vita. Vengono messe sul tavolo verde dell’esistenza in maniera continua, prima
una e poi l’altra, in un perpetuo avvicendarsi. I giovani fuggitivi sprigionano queste essenze ataviche. Vigori
tra l’annientamento e la rinascita. Tutto scandalosamente fino all’osso.
Infine segnaliamo la sempre intensa interpretazione di Mark Rylance (Oscar per il Ponte delle spie di
Spielberg). Attore in grado ogni volta di creare la giusta atmosfera. Qui è anch’egli un cannibale, che cerca
nientemeno che quello che cercano i due innamorati. L’unica e non trascurabile variabile è la perdita di se
stesso dopo essersi cercato tanto.
 
David Siena

Poor Things

Domenica 24 Settembre 2023 15:41

Poor Things - Povere Creature! di Yorgos Lanthimos fa tremare il Lido con un impatto degno di un fulmine, che squarcia la tranquillità di un bosco secolare. Torna in concorso alla Mostra di Venezia dopo il successo mondiale di “La Favorita” del 2018. Il regista greco con le sue 2h20 di lungometraggio ci strega visivamente e non ci fa mancare una sagace riflessione sulla rinascita senza vincoli. Qui al femminile, con una Emma Stone (Bella) neofita creatura di un dottor Baxter (Willem Dafoe), dichiaratamente affine al famoso dottor Frankenstein e cugino prossimo di Prometeo.

Il film è l'adattamento cinematografico dell'omonimo libro di Alasdair Gray del 1992. Qui portato sullo schermo dal fidato collaboratore di Lanthimos: lo sceneggiatore Tony McNamara.

Bella viene riportata alla vita dall’eccentrico dottor Godwin Baxter, che porta in viso il segno inequivocabile di una storpiatura fisica; richiamo diretto della sua crescita non convenzionale. Il corpo della ragazza viene portato nel laboratorio dopo essere stato prelevato dalle acque del Tamigi. La giovane donna stava scappando dal marito violento. Lo scienziato, con metodi non proprio consoni alla classica medicina, riesce a resuscitarla. Ma ora il suo cervello è diverso e pronto a scoprire il mondo dal punto zero. Godwin le insegna i primi passi e tende con molto amore a proteggere Bella dalle insidie dell’umanità. Ma lei vuole imparare sempre di più e stando chiusa nella villa del medico i suoi orizzonti sono limitati. Il colpo di scena è dietro l’angolo e Bella affascinata dall’avvocato Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo) parte alla scoperta delle meraviglie dei nostri continenti. Tra di loro nasce una storia d’amore molto particolare, fatta di tanto sesso e di supremazia da parte della ragazza. Predominio incontrollabile guidato dalla voglia di libertà e di equità. Bella non teme il giudizio altrui, il suo potere è palpabile e la sua emancipazione è totale. Vive ogni giorno con un’insaziabile fame di conoscenza mista a curiosità.

La giuria delll'80ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia ha riconosciuto a Poor Things un meritato Leone d’Oro. L’uscita italiana è prevista per il 25 Gennaio 2024, proprio a ridosso degli Oscar.

Ma ora veniamo alla critica vera e propria: il film è incorniciato in uno strepitoso ed affascinante bianco e nero con l’uso del colore nei surreali e daliniani paesaggi delle città che Bella visita. Lanthimos si conferma regista di talento e la forma che usa per raccontare questa fiaba dark è impeccabile. Non solo Salvador Dalì, ma anche espressionismo tedesco in quest’opera che scardina il moralismo, con una direzione anti didascalica, moderna e visionaria. Anche pungente, ma non ai livelli di “The Lobster” e “Dogtooth”. Il cineasta greco come sempre va contro lo status quo. Irrompe con un’eroina molto libertina, che strappa le regole e ne crea delle proprie. Il viaggio di Bella è il classico viaggio di formazione, che nelle mani di Lanthimos diventa un’avventura tutt’altro che classica, con dialoghi spassosi ed inaspettati, Si gioca anche una forte guerra maschio/femmina, stravinta dalla giovane rampante. Perché l’autore offre alla sua creatura nuovi spunti e canoni. L’uomo perde la sua posizione di leader fino ad arrivare al pianto. Derisorio e subdolo il regista mantiene comunque un’accuratezza e squisitezza narrativa, in modo da non trovarsi mai tra le mani strappi vistosi. Tecnicamente l’uso del grandangolo ci offre su un piatto d’argento l’alterazione della realtà, ulteriore mezzo per far capire allo spettatore, che siamo lontani anni luce dal considerarci uguali gli uni agli altri.

In ogni aspetto cinematografico la pellicola è di grande livello. A noi ha colpito particolarmente fotografia, scenografia e trucco. Ed infine non si può dimenticare la performance di Emma Stone, qui anche produttrice. Si mette completamente in gioco con un ruolo assurdo e sotto certi punti di vista anche sporco. Ma con la sua squisita naturalezza mista a bravura si prenota, ancora una volta, a salire sul palco degli Academy Award.                                          

David Siena

Maestro

Mercoledì 27 Settembre 2023 15:43

Un film molto atteso al Lido, nella sua ottantesima edizione, è sicuramente Maestro di Bradley Cooper, già qui nel 2018 con “A Star is Born”. Però questa volta l’opera del regista/attore americano è in concorso. Lo stesso Cooper, che non è potuto sbarcare in laguna, per i noti motivi sindacali legati allo sciopero degli attori, ha voluto preventivamente testare l’audio della Sala Grande della Mostra di Venezia. Perché il suo è un film sul potere della musica legata al grande cinema. Non ha voluto far mancare allo spettatore il piacere sopraffino di una narrazione contemplativa, indissolubilmente legata alle opere musicali del grande compositore americano Leonard Bernstein. In questo film biografico, sul primo maestro d’orchestra nato negli States da genitori ebrei, si ripercorrono trent’anni di grandi successi, ma anche di grandi tormenti, soprattutto famigliari. Bernstein è l’autore delle musiche del famoso musical West Side Story. Qui, la vita dell’autore, è vista attraverso la meravigliosa e contrastata storia d’amore con la moglie Felicia Montealegre. Interpretata da una struggente e già in odore di Oscar Carey Mulligan. Il compositore è interpretato dallo stesso Cooper, con una vistosa protesi al naso, secondo noi ingiustamente criticata fin dalla prime riprese del film, Migliora la sua regia il buon Bradley (rispetto ad E’ nata una stella) e confeziona un film convincente, infarcito di ottimi piani sequenza ed armoniche carrellate, che ricordano il grande cinema classico americano. Non mancano però sequenze intime e cariche di emotività. Insomma un film ottimamente confezionato da ogni punto di vista, che ha il pregio di non essere agiografico.

Della trama abbiamo già parlato abbondantemente qui sopra, rimane solo da dire che il matrimonio tra Bernstein e Felicia Montealegre fu molto duraturo: 25 anni vissuti appassionatamente con al seguito 3 figli. Amore il loro molto inquieto vista l’omosessualità del musicista. Passione ed ostilità riprese da una fotografia (Matthew Libatique) con colori saturi. In principio però il racconto è coronato da un bianco e nero, che sa di Hollywood anni 30’, dove lo script mischia vertiginosamente musica e vita quotidiana.

Bradley Cooper nella sua direzione artistica predilige soffermarsi con la camera da presa sul punto di vista di Felicia. Anche il manifesto originale ne è la testimonianza. il biopic è travolto, con lo scorrere della pellicola, dai drammi famigliari e il lungometraggio cambia genere. Il drammatico mixato con il sentimentale prende il sopravvento. Le emozioni si fanno sempre più forti. Come quando, in un finale di un’opera sinfonica, si viene travolti dalla bellezza della musica. Emozioni e musica viaggiano all’unisono. E’ la forza di questo film accurato, molto ben ornato da dolore e luce.

Tutto questo incanto è principalmente dovuto alla profondità drammaturgica, che mettono in scena i due protagonisti. Perché, seppur ottimo tecnicamente, Maestro mette sotto la lente di ingrandimento le persone ed i rapporti umani. E anche se la “Messa” di Bernstein non è alla pari con altre famose ed altisonanti composizioni; Cooper in quella sequenza ci mette l’anima. Ama il suo protagonista e lo fa amare anche a noi seduti in sala. Il trasporto regala al film una forza sincera esaltandone la storia ed i suoi contenuti.

L’uscita italiana è prevista per il 20 Dicembre, proprio a ridosso delle feste natalizie. Si vocifera che avrà una distribuzione limitata al cinema per poi approdare definitivamente sulla piattaforma Netflix.

David Siena

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