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BlacKkKlansman

Sabato 19 Maggio 2018 16:16
Su BlacKkKlansman di Spike Lee, prima di immergerci nella critica, bisogna dire una cosetta. Giusto per avere un quadro migliore di quello su cui poi si andrà a discutere. Le tre stelle della valutazione sono da considerarsi un giudizio non completamente veritiero. Si possono dare anche quattro stelle al film del regista americano. Ma abbiamo optato per il voto più basso perché tutto il buono che costruisce (e c’è ne parecchio), viene smontato da alcuni passaggi a vuoto (politici) colmi di retorica, che abbassano il ritmo e fanno veramente male al film. Il suo voto più equilibrato è tre stelle e mezzo. Si passa da prendere in giro il Ku Klux Klan in modo sagace ed intelligente a comizi politici delle Black Panthers, sinceramente demodé e che nel nuovo millennio non hanno più quella forza che potevano avere negli anni 70’. Si prende una strada edificante, che cerca di frantumare l’odio facendosene beffe, ma la si perde ingenuamente tornado su piccoli sentieri colmi di ridondanze, che sfociano nella lotta contro il governo Trump.
 
La pellicola, in concorso al Festival di Cannes edizione 71, è tratta dall’omonimo romanzo che dà il titolo al film, scritto dal poliziotto Ron Stallworth (nel film interpretato da John David Washington, figlio di Denzel Washington). 
Il tema del libro trova spazio anche nella contemporaneità dell’America di Trump; ci riferiamo a quei super razzisti bianchi, che a Charlottesville nell’Agosto del 2017, uccisero una donna di 32 anni investendola con un’auto. La ragazza stava manifestando contro il nascere del neonazismo. Il presidente Americano si indignò per l’accaduto, ma non fece molto di più. A tutto questo ci si poteva affiancare, non per forza immergersi. (il finale con le immagini di repertorio è esplicito). Mettendola così diventa tutto più tedioso. Peccato che il tagliente umorismo non regni incontrastato per tutta la narrazione.
Dal Festival francese il film si porta a casa il secondo riconoscimento: il Gran Premio della Giuria.
 
BlacKkKlansman racconta della straordinaria operazione messa in atto dalla polizia di Colorado Springs. Siamo negli anni 70’, un uomo di colore e un ebreo, entrambi detective, si infiltrano nel cuore pulsante del Ku Klux Klan. Il poliziotto Ron Stallworth, dato il colore della pelle, non può prendere parte alle riunioni della setta. Insieme al collega Flip Zimmerman (Adam Driver) decidono di essere uno il corpo e l’altro la voce. Tutti gli appuntamenti vengono presi per telefono da Ron e poi all’ora esatta del rendez-vous si presenta Flip. Nascono però dubbi intorno alla figura del nuovo discepolo. Qualche membro del gruppo estremista non crede fino in fondo al nuovo arrivato e cerca in ogni modo di dimostrare che Ron non è quello che dice di essere. Intanto il movimento dei cappucci bianchi organizza attentati, che promettono violenza e morte alla razza nera. C’è spazio anche per la tenerezza, che nasce tra Ron e la giovane attivista Patrice (Laura Harrier). Il loro incontro ad un ritrovo delle Pantere nere lascia il segno, ma se non tutte le verità vengono pronunciate, la loro complicità viene messa in discussione.
 
Spike Lee, dopo un periodo di alti e bassi, ritrova la verve di un tempo (lo smalto è lo stesso di Inside man e la 25^ Ora). Ottima la forma del suo BlacKkKlansman. Peccato per quei piccoli passi falsi descritti in precedenza. Il resto è cool e spumeggiate. Sembra quasi un Arma Letale d’autore in salsa Black Power. Quando il regista di Atlanta non abbassa il battito si rivede la sua anima istigatrice e vigorosa. Le gag sono irriverenti e squarciano la malignità. Qui la drammaturgia diventa energica, avvalorata da una regia dinamica, che ricava il massimo dalle performance dei personaggi principali (favolosi Washington e Driver).
Indimenticabile la scena dell’arrivo della tessera di membro del KKK in commissariato.  
 
David Siena
 

First Man

Martedì 04 Settembre 2018 22:27
First Man, diretto dal premio Oscar Damien Chazelle, apre la Mostra del Cinema di Venezia 2018. Quell’Oscar fu anche merito della direzione del Festival del 2016; allora come oggi gestita da Alberto Barbera. L’apertura affidata al musical La La Land fu senza dubbio una scommessa. Vinta con ampio margine. Quest’anno si ripunta sul giovane regista americano, che con la storia dell’allunaggio di Neil Armstrong promette di stupire ed allo stesso tempo di farci riflettere su temi non proprio consoni all’avventura nello spazio. 
Il film è l’adattamento della biografia ufficiale del primo uomo che mise piede sulla Luna: First Man-The Life of Neil A. Armstrong, scritta da James R. Hansen.
 
Neil Armstrong (Ryan Gosling – Blade Runner 2049) entra ufficialmente a far parte della Nasa nel 1962. Persona schiva, riservata e concentrata sul proprio mestiere di ingegnere, non è proprio l’amicone da feste e svaghi. Per lui alla base dei suoi interessi ci sta la famiglia. Purtroppo perde una figlia e questo tragico evento lo distrugge. Il rapporto con la moglie Janet (Claire Foy, ora al cinema anche con Millennium – Quello che non uccide) non è più lo stesso, ma non perduto. La reazione è tutta focalizzata sul programma Gemini. Il lavoro preciso e costante diventa il mezzo per cercare dentro di se una redenzione difficile da trovare. La sua perseveranza lo porta a diventare il comandante della missione Gemini 8. Neil diventa così il primo uomo mandato nello spazio. Ma come obiettivo ha la Luna, promessa alla sua famiglia come terra di miracoli. La preparazione ai viaggi spaziali è complicata e colma di incidenti. Molti colleghi di lavoro perdono la vita durante i collaudi. Sembra tutto perduto quando invece il famigerato satellite diventa realtà. L’Apollo 11 è sulla rotta verso la Luna e il 20 Luglio del 69’ Armstrong è il primo essere umano a calcare il suolo lunare. 
 
Ma poi siamo veramente andati sulla Luna? Al protagonista poco importa, dato che lui la sua Luna l’ha trovata. Ecco! Questo è in realtà il vero senso di questo lungometraggio. Un’opera intima, che mette in secondo piano per una volta il Sogno Americano. Il trentatreenne regista del Rhode Island conferma le sue ottime doti nella direzione di un grande progetto, confezionando un’opera poetica ed intensa. Sta alla larga dal cliché. Fa uso cospicuo della camera a mano portando lo spettatore direttamente sulla Luna. Quasi da realtà virtuale. Una vivida camminata on the Moon, intinta di veridicità. Le scene vivono di un’avvolgente dinamismo, intercalate da un senso serrato di claustrofobia. Chazelle ha sempre lo sguardo nel posto giusto e riesce a tirar fuori da ogni inquadratura la giusta anima. Se gli si deve fare un appunto può essere che, la prima parte del film lenta ed introspettiva, lasci lo spettatore un po’ fermo su se stesso, ma i minuti seguenti sono emozionanti e coinvolgenti, incalzati anche dallo strepitoso commento musicale di Justin Hurwitz (premio Oscar per La La Land).
Il giovane autore, grande conoscitore di cinema, si fa ispirare dalle tecniche nolaniane e non mancano citazioni kubrickiane. E se ci addentriamo nel dolore ci sono anche velature eastwoodiane.
 
Parte della critica trova in First man solo un buon esercizio di stile. Come dargli torno. Ma il film di Chazelle non è solo questo. Riesce a mettere in scena la realtà sconfinando nel fantastico, in modo da poterci consentire di sconfiggere i nostri incubi più ricorrenti legati al peso della vita. Così da risolvere l’irrisolvibile. Nello spazio che non aiuta nessuno, in questo luogo inospitale per l’uomo si trova paradossalmente se stessi. Una magia oscura, che è comunque sempre magia.
 
Ryan Gosling è perfetto per interpretare Neil Armstrong: una performance in sottrazione, introversa e da un certo punto di vista psicoterapeutica. Entra in analisi con se stesso per lenire il tremendo lutto e il suo disumano obiettivo conferisce una ragione alla sua esistenza e a quella dell’umanità. Claire Foy non da meno. Una nomination all’Oscar come attrice non protagonista non gliela toglie nessuno. E produttore esecutivo troviamo un certo Steven Spielberg.
 
David Siena
 

3 Days in Quiberon

Domenica 25 Febbraio 2018 12:21
Francia, Bretagna, 1981 ed esattamente Quiberon. Un nostalgico bianco e nero ci introduce nel film scritto e diretto dalla regista tedesca Emily Atef, che porta sullo schermo l’ultima amara intervista all’attrice Romy Schneider. In concorso alla Berlinale edizione 68, 3 days in Quiberon è un riflettore puntato sull’iconica principessa Sissi, vista attraverso lo sguardo di amici e di un giornalista detrattore. La bicromia usata mette in risalto i chiari scuri della donna, riagganciandosi fedelmente al reportage fotografico scattato in una spa durante la sua disintossicazione dall’alcol. Il book di foto fu realizzato da Robert Lebeck (Charly Hübner) e l’intervista “manipolata” fu opera del giornalista Stern Michael Jürgs (Robert Gwisdek). Nella lussuosa struttura era presente anche l’amica di sempre Hilde Fritsch (Birgit Minichmayr); una via di fuga per Romy, che con lei al suo fianco riuscì a limitare le sincere risposte, che invece si aspettava l’agguerrito reporter. In questi 3 giorni l’attrice ritrovò un po’ se stessa, ma i demoni che l’affliggevano la portarono, di lì a poco, verso una deriva di autodistruzione senza ritorno. Romy perse la vita un anno dopo gli avvenimenti descritti in questo film, nel Maggio del 1982, all’età di 44 anni. Tra le sue opere più memorabili, oltre ad essere la principessa per antonomasia, ricordiamo: L’enfer (1964), L’importante è amare (1975) e la Morte in diretta (1980).
 
Emily Atef confeziona un vero omaggio a Romy Schneider. La sua è un’opera delicata. Un ritratto intimo, lontano dai riflettori. Non si limita a mettere in scena lo sfavillio dell’attrice, ma evidenzia anche il tormento, la depressione e l’ansia che la affliggono. Lo fa con eleganza e garbo. Con la stessa sensibilità che contraddistingue la donna Schneider. Egregia la performance di Marie Baumer (Il falsario - Operazione Bernhard), che dà voce e corpo alla splendida Romy. La sua è un’interpretazione intensa ed allo stesso tempo raffinata.
 
Lo sguardo della regista gira intorno al carisma e allo splendore della protagonista. Ne mette in risalto il fascino in contrapposizione con il male che la sconfigge internamente. Tutte le inquadrature hanno un significato ben definito e non lasciano nulla al caso. Immortalate nella splendido contrasto tra i due colori del bene e del male.
Non ci sono particolari novità stilistiche. E anche se i cliché sono presenti nella narrazione, tanto quanto la grazia infinita dell’attrice austriaca, il film non perde mai mordente. La sua schietta linearità non è un difetto, ma anzi, è la maniera migliore per entrare nelle pieghe di un racconto breve ma intenso, che punta alla sincerità, tralasciando giustamente orpelli visionari e prese di posizione. Descrizione spietata di un dolore finito in tragedia di lì a poco, dove la bella muore per mano della bestia (interiore). Ingiustamente. Il ricordo è franco e leale. La regista restituisce ai noi osservatori una donna reale con un mezzo di finzione, dove quest’ultima falsità si spera possa non finire mai. L’immortalità della bellezza è descritta con amabilità e morbidezza.
 
David Siena
 

Black 47

Sabato 24 Febbraio 2018 12:29
Black 47 racconta, senza tanti fronzoli, della “Grande fame” che attanagliò l’Irlanda a metà del diciannovesimo secolo. La terra del trifoglio è stata sfruttata nei secoli soprattutto dalla tirannia britannica, che nel 1847 (anno che dà il titolo al film), contribuii con brutale vigore a rendere quell’anno uno tra i più neri della storia irlandese. Le vicende della pellicola diretta da Lance Daly sono focalizzate sull’inverno, il periodo più rigido, dove la drammaticità degli eventi tocca il suo apice. Stagione in cui fa il suo ritorno a Connemare il soldato Michael Feeney (James Frecheville). Il reduce, che si è fatto valere in difesa dell’esercito inglese, non vede l’ora di riabbracciare la sua famiglia. Ma a casa lo aspetta una brutta sorpresa. I suoi cari, la madre ed il fratello, sono periti in situazioni misere. E anche la moglie Ellie (Sarah Greene) ed i figli sono in condizioni disperate. Di lì a poco non avranno più un tetto sotto il quale proteggersi, in quanto cacciati dalla proprio baracca, moriranno assiderati senza alcuna pietà. Ora il sogno di Fenney, portare la sua famiglia in America alla ricerca di benessere, si infrange contro la Union Jack, che ha difeso con onore. In questo clima rabbioso, dove non solo la sua famiglia è scomparsa, ma anche tutto il suo popolo arranca gravemente (morirono un milione di irlandesi), Fenney impugna una violenta vendetta senza esclusione di colpi contro gli usurpatori inglesi. Ne nasce un revenge movie in salsa western, con luci ed ombre, che ha il pregio di sviscerare una storia mai raccontata. Black 47 è anche un viaggio nella coscienza di Hannah (Hugo Weaving), mutevole carnefice che riflette sull’importanza di chiamarsi uomo in difesa del giusto, nel suo significato più profondo.
 
Irlandese fino al midollo (in parte in lingua gaelica), il film del regista Lance Daly, presentato fuori concorso al Festival di Berlino 2018, ha nel suo DNA il coraggio di Braveheart e la sete di punizione del Giustiziere della notte. A parte la storia inedita, il resto è già tutto visto. Rimane comunque un discreto lavoro, che alterna fasi da film televisivo a momenti più dinamici (seconda parte) e indiscutibilmente più riusciti. Qui la regia esce dal proprio imbambolamento e regala una drammaticità più vera e genuina. Scene contraddistinte dalla ribellione, ritmate e dalla forte intensità che scuotono e ravvivano l’appeal verso il film, indirizzando così la drammaturgia in acque ad essa più famigliari. Anche il finale aperto, con una più ampia visione sulle intenzioni, riesce a conferire alla pellicola un inaspettato valore aggiunto. Peccato che in precedenza l’autore cada nella trappola manierista di mettere in vetrina la morte di Ellie con il figlioletto in braccio come se fosse la marmorea Pietà di Michelangelo. Sentiero virtuoso troppo fine a se stesso. 
 
Da segnalare un’ottima fotografia che esalta gli splendidi paesaggi irlandesi. Le luce desaturata si accomoda perfettamente anche al senso di povertà, che impera in tutto il film. Anche il casting è azzeccato. Il volto assente di James Frecheville e il suo ferreo mutismo conferiscono a Fenney l’appropriato grado di drammaticità. Rabbia e amarezza non potevano trovare miglior modo di esprimersi. Anche la trasformazione e la consapevolezza del cattivo Hannah, intensamente incarnate da Hugo Weaving, fanno fare un saltino di qualità al film.
Comparsate che lasciano un’impronta deboluccia sono quelle di due stimati attori come: Jim Broadbent e Stephen Rea.
 
In Black 47 la strada della giustizia era un sentiero sconnesso ed oscuro, l’unica via d’uscita si chiamava America.  
 
David Siena

Eva

Domenica 25 Febbraio 2018 12:36
Ci ha preso gusto Isabelle Huppert a scegliere ruoli da femme fatale. L’ultimo, per intenderci quello in Elle di Paul Verhoeven, gli aveva procurato una meritata candidatura agli Oscar 2017. Allora perché non riprovarci. Il progetto di Benoît Jacquot però, senza minimizzare le doti di seduttrice dell’attrice francese, meritava un’ammaliatrice (Eva che dà il titolo al film) più junior e più improntata a trasudare carnalità. E’ probabile che fin già dal casting, anche il Bertrand Valade di Gaspard Ulliel (E’ solo la fine del mondo – 2016) è troppo imbambolato e sinceramente fuori parte, il film si porti dietro dei deficit non recuperabili. E se il buongiorno si vede dal mattino, qui siamo di fronte ad un far del giorno dai tratti chiaramente temporaleschi. Burrasca nella quale si trova per tangibili colpe il regista/sceneggiatore Benoît Jacquot (dell’autore si ricorda il recente e non esaltante Tre Cuori, in concorso a Venezia 2014). La sua Eva richiedeva una drammaturgia spinta verso l’ambiguità, con subdoli slanci verso l’immoralità. Questo è alla base del romanzo di James Hadley Chase del 1945. In Eva troviamo solo i tratti distintivi del noir (e neanche troppo riusciti). Le linee guida all’interno della narrazione sono sbilanciate, ahimè, verso aspetti psicologici spicci, che non offrono veri punti di riferimento. Basandosi su queste personalità (per intenderci quelle dei due protagonisti sopra citati), alle quali viene affibbiata solo debolezza e nessuna particolare dote narrativa, non si riesce mai a chiudere un cerchio. Tutto abbozzato e mai veramente concretizzato. La fascinazione non sale mai e qui dovrebbe essere la madre di tutto. 
 
Eva è in concorso alla Berlinale edizione 68. Il film aveva avuto una prima trasposizione nel lontano 1962 diretta da Joseph Losey, con la nostra splendida Virna Lisi. Il ruolo di Eva fu affidato a Jeanne Moreau e quello del malcapitato Bertrand Valade a Stanley Baker. Il film di Losey ottenne una critica positiva; la versione 2018, come già accennato sopra, risulta la brutta copia della pellicola del 1962. La bocciatura non è completamente categorica solo perché la storia riesce a trasmettere curiosità nello spettatore. Peccato perché il regista fa di tutto per far perdere questo appeal.
 
Le intriganti vicende scaturite in immagini vedono un aitante giovanotto, che di nome fa Bertrand, alle prese con il sogno di una vita: diventare un famoso scrittore, in modo da potersi garantire un futuro prosperoso e di successo. L’occasione rende l’uomo ladro e quando Bertrand si trova tra le mani un inedito manoscritto di uno stimato romanziere morto davanti a suoi occhi per cause naturali, non esita a farlo diventare suo. La fama e la gloria arrivano copiose. Ora deve mantenere questo livello qualitativo di scrittura e non sa proprio come farlo. Improvvisamente entra nella sua vita Eva, Escort d’alta società. Il giovane ne rimane stregato e decide di conquistarla ad ogni costo. Userà questa sua torbida liaison come base del suo prossimo romanzo. Ma non ha fatto i conti con Eva, per nulla propensa a concedersi senza riserve. Bertrand entra così in un vortice di tentazione e bramosia, che mette a rischio il suo fidanzamento con l’innocente e pura Caroline (Julia Roy). Il suo editore aspetta con ansia il nuovo libro, da tutti preannunciato come l’ennesimo capolavoro. Malauguratamente l’immaturo Bertrand diventa lui succube del gioco di Eva. Cede così tutto se stesso ed entra, senza ritorno, in un artificio oscuro fitto di falsità ed inganni.
 
La storia è stuzzicante, ma qui proprio non ci siamo. Il film del regista francese a tratti sembra un telenovela impazzita. Protagonisti troppo finti, che non sembrano esseri appartenenti alla società descritta. Confinati in un limbo tragicomico, che non ha ragione di essere per un film del genere. 
 
David Siena
 

U-July 22

Mercoledì 21 Febbraio 2018 12:42
Sinceramente non ci si aspettava una tale cannonata, in tutti i sensi, dal film di Erik Poppe. Pugno allo stomaco alle 9 del mattino, che risveglia senza tanti fronzoli la paura del terrore, che troppo volte pensiamo possa riguardare solo gli altri, dando per scontato che il nostro universo sia protetto da chissà quale entità superiore. Utøya –July 22 ci impone di non sottovalutare. L’inferno è più vero di qualsiasi idealizzato paradiso. Il regista norvegese che portò nel 2017, nella sezione Panorama qui alla Berlinale, lo storico The King’s Choice, quest’anno vede il suo U- July 22 concorrere per l’Orso d’Oro. Una pellicola a dir poco micidiale, che racconta del massacro di Utøya in Norvegia il 22 Luglio 2011; lo stesso giorno della bomba alla sede del Governo norvegese. Kaja (Andrea Berntzen), diciannovenne in vacanza con amici, è il boccino di tutta la vicenda, che cerca la via d’uscita in un labirinto colmo di orrore e ansia.
 
Per essere più precisi i fatti si svolgono su un’isola davanti ad Oslo. Il campeggio estivo è molto in uso nei paesi nordici e sull’isola di Utøya si trova l’accampamento organizzato dal partito laburista. E’ mattina e l’intero gruppo di adolescenti si sta preparando per una giornata all’insegna di escursioni e svago. Il risveglio non è dei migliori, visto che si apprende subito delle bombe scoppiate presso il Governo. Dopo le telefonate di rito a genitori e parenti la calma si fa strada tra i giovani, che si sentono protetti visto anche il mare che li separa dalla capitale. Ma degli spari, che provengono dal bosco, interrompono la ritrovata quiete. In un primo momento si pensa ad una esercitazione. Il panico arriva a dosi massicce quando si capisce che siamo in presenza di uno squilibrato con fucile, che sta uccidendo senza pietà chi gli capita davanti. Kaja è la protagonista che cerca di mettere in salvo la sorella minore, ma soprattutto è l’occhio del regista, che tramite la ragazzina ci fa rivivere le angoscianti situazioni, che vive l’intera giovane comunità. 
 
Poppe parla diretto allo spettatore, lo porta dentro al massacro, in piena zona di guerra. Con la potenza verista delle immagini e grazie al piano sequenza in tempo reale, che dura esattamente quanto l’intera operazione del folle terrorista, rende vividi gli stati d’animo dei ragazzi. E’ estremamente consapevole del suo girato e lo dimostra non lasciando nulla al caso. Il suo è un virtuosismo bello e buono, ma non fine a se stesso. La paura, la disperazione e l’oppressione rivivono senza filtri e lo stress che invade il pubblico diventa parte stessa della narrazione. Si perché si entra in quei maledetti boschi e la discesa all’inferno è purtroppo senza ritorno.
U -July 22 ricorda Elephant di Gus Van Sant, Palma d’Oro 2003 al Festival di Cannes. Lì però i punti di vista erano diversi. Gli avvenimenti narrati erano visti non da una sola persona, ma da più protagonisti. Ma il senso di impotenza è il medesimo.
 
C’è anche un altro aspetto che ha farà molto discutere: la dura frecciata verso chi comandava all’epoca dei tragici eventi. La pellicola di Poppe è assolutamente un’aspra critica verso le istituzioni, non preparate e smarrite. Ci volle un’ora e mezza per intravedere i primi soccorsi. Questo non trascurabile sotto testo etichetta U-July 22 come film politico. Biglietto da visita forse non troppo gradito in previsione dei premi, ma se ci concentriamo unicamente sul valore assoluto del film, della politica non c’è più traccia. Indimenticabile.
 
David Siena

Roma

Giovedì 06 Settembre 2018 23:14
Era nell’aria fin dai primi giorni di Festival: quel sentore profondo di vittoria, che alleggiava intorno al film di Alfonso Cuaron. Il suo Roma era sulla bocca di tutti. Le riviste di settore gli avevano affibbiato 4 stelle e il pubblico non era da meno. Lo ritiene, sicuramente per palati fini, ma gli riconosce un animo puro, tanto che al termine della visione se ne portano ancora i benefici. Ci si sente cullati da quella sensazione d’amore vero, che è intrinseca in ogni fotogramma. Il regista messicano mette in scena un film, praticamente autobiografico, ambientato proprio nel suo quartiere di origine. Luogo che dà il titolo al film. Incorniciato in un bianco e nero nostalgico riviviamo l’anno 1971 del regista. Che poi è come rivivere dei momenti della nostra stessa infanzia. Un omaggio ai ricordi. Dolce celebrazione e profondo legame con le nostre persone, che hanno contraddistinto la nostra vita. Diretto magistralmente con splendide carrellate tra i quartieri in guerra e il mare (della famiglia/riconciliazione) e con un estetismo ricercato, ma mai abusato. Una vera e sconfinata Amarcord alla quale non ci si può non affezionare. Vince con merito il Leone d’Oro di Venezia 75. È il primo film prodotto da Netflix a pregiarsi di un riconoscimento così nobile.
 
Cleo (Yalitza Aparicio, attrice non professionista, ma di una bravura folgorante) è la tata di una famiglia benestante di Città del Messico. Siamo nei primi anni 70’, periodo storico legato alle manifestazioni del movimento studentesco (del sanguinoso Massacro del Corpus Christi). In questo clima di incertezza, nel quartiere Roma, conduce una vita di apparente serenità la famiglia della Sig.ra Sofia (Marina de Tavira). Il marito, spesso lontano da casa, ha un’amante e proprio nel momento in cui Cleo rimane incita del fidanzato, l’uomo decide di abbandonare la famiglia. Non lascia solo la moglie al suo destino, ma anche i figli. I ragazzini trovano conforto negli abbracci di Cleo. Il suo affetto è così forte, che può essere paragonato senza sfigurare, a quello della madre. Non solo dal sangue del nostro sangue riceviamo l’educazione alla vita. Ma anche la domestica ha il suo momento di crisi, perché il suo giovane compagno decide di lasciarla e di non riconoscere il bimbo che ha in grembo. Ora le due donne devono prendersi per mano e far fronte a non pochi problemi. Palese è il divario sociale tra le due. Abbatteranno il muro che le divide per il bene di tutti. Affronteranno le incombenti difficoltà con una forza disarmante, frutto del volersi bene senza una rigida distinzione di classe. 
 
Alfonso Cuaron torna al Lido dopo il successo di Gravity (2013), che gli è valso l’Oscar per la miglior Regia. Roma è diretto e scritto dall’autore messicano, che ha partecipato anche al montaggio ed alla fotografia (il suo ultimo film ambientato in patria fu Y tu mama también, nel lontano 2001). Roma è un’intima visione di quel mondo passato (descritto nella sinossi), impregnata di amore, morte, coraggio, cambiamento e casa. Quest’ultima sublimazione di tutte le speranze. Lo spettatore scopre che in una parte del proprio cervello è incastonata una gemma preziosa, ormai dimenticata. Una serie di ricordi tanto lontani quanto felici sono lì, in fondo alla caverna, finalmente riaperta. E’ proprio la gioia di tornare con la mente ai tempi delle nonne, nelle campagne e nei prati, dove anche lo sterco degli animali da cortile assume una valenza poetica, il vero pregio del film. Roma non porta su strade con l’obbligo di seguire sottotitoli, è al contrario un’evocazione sincera e sentita.
 
Anche se con pochi film all’attivo, Cuaron si conferma un regista (camaleontico) di spicco della nostra epoca. La sua regia è sempre funzionale a quello che vuole raccontare. Dai vortici di Gravity, alle carrellate per le strade di Città del Messico, il passo è breve. Perché il linguaggio che viene usato è quello più congeniale al racconto che viene messo in scena. L’uso del piano sequenza all’interno della casa, dalle stanze alla terrazza, è il mezzo per raccontare la vita nella sua continuità. I piccoli gesti della nostra quotidianità raccontano chi siamo e dove vogliamo/vorremmo andare. Nulla viene lasciato al caso. Si ha quasi la sensazione di essere a teatro. Ci si affeziona ai personaggi. Tutto è minuzioso ed immersivo, tanto travolgente quanto morbido. 
 
David Siena
 

7 uomini a mollo

Venerdì 18 Maggio 2018 15:39
Bè, che dire? I francesi sanno fare le commedie. E questa ne è l’ennesima conferma. Scomodando, non ce ne vogliate, ma la somiglianza dei titoli e della presentazione ci impone di provarci, il meraviglioso Il Grande Freddo di Lawrence Kasdan, dove già nell’introduzione i protagonisti erano perfettamente identificati; anche qui si intuisce da subito chi abbiamo di fronte. Uomini di mezza età che non sono a loro agio nel mondo. Ma se nel film americano del 1983 si puntava sulla nostalgia, Le Grand Bain (Il Grande Bagno) è un crogiolo di divertimento, che ha il suo sguardo puntato sulla rinascita; film corale al maschile, che vede un gruppo di sfigati moderni alle prese con il nuoto sincronizzato.
 
Come in una barzelletta delle più classiche, ecco i protagonisti: Bertrand il depresso (Mathieu Amalric), Marcus il fallito (Benoît Poelvoorde), Simon lo scarso musicista (Jean-Hugues Anglade), Thierry il custode goffo (Philippe Katerine), Laurent il padre con problemi in famiglia (Guillaume Canet) e John l’infermiere apneista (Félix Moati). Questo gruppo mal assortito si trova abitualmente per gli allenamenti, fortemente voluti perché sono il momento nel quale si possono sviscerare le proprie problematiche. Il senso di comunità da sempre conforto e soprattutto è riparatore. Mano a mano che le sicurezze si ritrovano, guidati da due donne singolari: Delphine (Virginie Efira) e Amanda (Leïla Bekhti) coach disabile, severa e sotto certi versi violenta (nel senso più comico del termine), questi scappati di casa hanno l’ardire di partecipare ai Campionati del Mondo di nuoto sincronizzato. Una gara fuori dalla loro portata. Saranno in grado di non sfigurare o addirittura di andare sul podio? Tra di loro il pathos sale di giorno in giorno e affrontano la competizione già da vincenti. Ora il piede non è più nella fossa, ma camminano con orgoglio verso una nuova e ritrovata vita. 
 
Alla regia di Le Grand Bain troviamo Gilles Lellouche, fresco protagonista dell’esilarante C’est la vie (di Eric Toledano e Olivier Nakache, giusto per rimarcare il concetto iniziale di riuscite e spassose commedie francesi). Presentato fuori concorso al Festival di Cannes ed. 71, in Italia uscirà a ridosso di Natale (il 20 dicembre 2018) con il titolo riduttivo 7 uomini a mollo. 
 
Scritto magnificamente, lo spettatore vive momenti di grandioso divertimento, travolto da un ritmo pressante, che non va mai fuori giri. E’ qui la forza del film: la sincronia del nuoto funge da equilibratore di ogni cosa. Se lo è specificatamente di ogni essere umano, che ritrova se stesso, grazie al rigore, all’unione e alla disciplina, lo è anche per direzione artistica del film. Sempre quadrata e lontana da colpi di testa imperiosi. 
Anche quando la comicità diventa un po’ scorretta non cade mai nel volgare. Anzi la scorrettezza è un valore aggiunto. Humor che punta sul prendere in giro se stessi ed il proprio problema. Non equivoci, ma autogol sui quali puntare il dito e riderci sopra. Gag divertenti, dove la peculiarità di ogni attore è usata ad hoc per caratterizzare il proprio personaggio. Piccola pecca: un finale un po’ troppo ruffiano, ma gli si può perdonare, visto che l’intero percorso narrativo non è mai banale, ma arguto, brillante e genuino.
Se vogliamo trovarci altro in Le Grand Bain, per capirci dei sotto testi, può essere una riflessione sulla paura di invecchiare, contro il bieco strapotere dell’apparire (loro sono orgogliosi delle loro pancette) e con la sua esterofilia, una critica alla politica del paese. Insomma, la confezione è ottima. Una pellicola perfettamente immersa nei giorni nostri. 
 
Dei grandi film sullo sport ci piace accostarlo a Fuga per la Vittoria. E’ vero che Sylvester Stallone e Pelé fuggivano per la libertà e la vita (lontani dalla prigionia dei campi di concentramento), ma sotto sotto anche qui uno sport porta essere liberi. Si diventa eroi di se stessi e si ritorna, dopo una lunga prigionia mentale e sociale, a vivere. 
 
David Siena

Plaire, aimer et courir vite

Venerdì 18 Maggio 2018 15:50
Francia, 1990. Lo scrittore Jacques (Pierre Deladonchamps) è a Rennes per organizzare uno spettacolo teatrale. Amante delle arti non disdegna un buon film e decide di andare al cinema per svagarsi. Sceglie “Lezioni di Piano”, meraviglioso film di Jane Campion, e all’interno della sala non riesce a far a meno di notare un bel ragazzo, che di nome fa Arthur (Vincent Lacoste). La sua è una giovinezza non alterata dai dolori della vita e forse anche da questo è attratto Jacques. Arthur, appena vent’enne, è in Bretagna a studiare. Acerbo e con tanta voglia di vivere, e con palesi dubbi sulla sua sessualità, si avventura in una storia passionale con Jacques. Il drammaturgo però vive a Parigi, dove ha un figlio, ed una storia con un altro uomo. Liaison arrivata al capolinea, visto che quest’ultimo, sta morendo di Aids. Arthur e Jacques, travolti dall’amore, vivono un’ardente estate, sicuri del fatto che potrebbe essere una delle ultime. La loro storia è racchiusa nell’azzeccato titolo della pellicola: Piacere, amare e correre veloce, perché il tempo qui non viene studiato e controllato all’interno della finzione, come in un film di Christopher Nolan, ma è reale ed è poco e soprattutto scorre rapido come un fiume in piena.
 
Plaire, aimer et courir vite, in concorso a Cannes 2018, è scritto e diretto da Christophe Honoré. Regista perlopiù teatrale si è fatto notare nel 2007 con Les Chansons d'amour, sempre in concorso al Festival francese. Opera musicale ben orchestrata. E anche in questo suo ultimo lavoro (che oseremmo dire autobiografico) riesce a mettere un po’ di musicalità tra le pagine di una storia bruciata, che altrimenti sarebbe stucchevole e sinceramente vista troppe volte. Parte della critica internazionale lo ha paragonato al Gran Premio della Giuria dello scorso anno: 120 Battiti al minuto. Vero che anche lì il contesto era quello degli anni 90’ e del dilagare dell’HIV, ma il film di Robin Campillo era più politico e militante, è a dirla tutta più riuscito. Plaire, aimer et courir vite è un'operazione diversa, mesta ma diretta. I protagonisti, che ti aspetti vadano in una direzione, ne prendono una diversa e non per forza sbagliata, ma spiazzante. Evidente anche lo sminuzzamento delle narrazioni, dove però troviamo integra la connessione tra amore e morte, che diventa la colonna vertebrale dell’opera. La sua non ben delineata logica e linearità diventano così il valore aggiunto del film e di conseguenza la sua bellezza. 
 
Sorry Angel, è il titolo nella versione inglese, ha anche buoni cambi di registro. Qualche scena emerge per la sagace ironia all’interno del contesto greve. La regia quando va oltremodo in intimità stroppia e abbassa drasticamente il ritmo. Peccato soffermarsi eccessivamente perché i confronti tra i personaggi, che fanno emergere le fragilità o anche le forze, non hanno bisogno di un minutaggio così smisurato. Infatti la pellicola con i suoi 132 minuti eccede in lunghezza. Rimane tuttavia un film non retorico, che vede la piena autoconoscenza di se stabilirsi nei protagonisti dopo una vita difforme, ma per loro necessaria. 
 
Tra sali e scendi il risultato finale non è così male. Christophe Honoré crea un climax tutto suo, che riscopri rivedendo la pellicola nei tuoi pensieri, dopo qualche ora dalla visione. Il film ha una sua delicata eleganza. Nel suo dna è insito un istinto genuino, che riesce a mettere alla berlina i precetti conformisti di quegli anni, ma anche del nuovo secolo. Non si può non segnalare che in questo lungometraggio sono presenti numerose citazioni cinefile e musicali, figlie della passione del suo autore.
 
David Siena
 

Ash is purest white

Sabato 19 Maggio 2018 16:06
Gloria e potere sognano Qiao (Zhao Tao) e Bin (Liao Fan), giovane coppia di malavitosi, costantemente devoti alla triade. Il teatro delle loro imprese è Datong, città dello Shanxi. Siamo ad inizio nuovo millennio ed esattamente nel 2001. Pazzamente innamorati l’uno dell’altra, Qiao e Bin non mancano di dimostrare ai rivali la loro forza, ma una sera vengono avvicinati ed attaccati senza pietà da chi gli vuole sottrarre la leadership. Bin si difende con caparbietà, ma subisce colpi tremendi. Qiao è costretta ad estrarre una pistola e sparare verso il cielo per far terminare il massacro. E’ il momento nel quale tutto si spezza irrimediabilmente. La ragazza viene portata in carcere dove sconterà una pena di 5 anni. Una volta uscita, Qiao prende la strada di Fengjie, alla ricerca del suo grande amore. Ma ora Bin non è più il boss di un tempo, anzi è avvilito e il suo sguardo al futuro è annebbiato e senza una vera prospettiva. L’incontro non porta a nulla. Qiao non ha più presa su di lui e quella che sembrava una coppia indistruttibile deve arrendersi alla realtà. Ora dove è diretta quella giovane donna, che sognava di diventare una grande ballerina al fianco del suo leale gangster? Vaga sola con la sua anima ormai perduta, rintronata ed intontita. Le botte sembra averle prese lei e le cicatrici bruciano ad ogni suo passo. La ritroviamo dieci anni dopo, esattamente nel 2016, tornata a Datong e ora matrona e padrona di una casa da gioco. Inaspettatamente si fa vivo Bin, sempre meno uomo, costretto su una sedia a rotelle accetta le cure della sua vecchia fiamma, ma lo fa con disprezzo. 
 
Ash is purest white, in concorso al Festival di Cannes 2018, è scritto e diretto dal cinese Jia Zhang-ke (Leone d’Oro a Venezia 2006 con Still Life). Questo nuovo lavoro ricalca i suoi precedenti, a partire dalle zone geografiche dove è ambientato, tanto care all’autore. Lo Shanxi è la sua provincia natale. Non può mancare anche la sua compagna di sempre: l’attrice Zhao Tao, presente in quasi tutti i suoi film. Diviso in tre parti ben distinte come Al di là delle montagne, altra sua pellicola dal potente contenuto. Gioca in casa Jia, zona confort e modus operandi di sempre, che non gli impediscono di realizzare ancora una volta un gran film. Mette in scena il tradimento dell’amore, che si consuma in parallelo con il fallimento di quel futuro (globalizzazione) che prometteva solo felicità, ma che è solo disuguaglianza e decadenza morale. 
 
Jia Zhang-ke ci regala un film, che non manca di criticare le promesse fatte e non mantenute da quella terra promessa chiamata modernizzazione. E lo fa con un inteso melodramma. L’amore desiderato da tutti, che va ad impattare contro il muro di una realtà (tanto voluta da noi stessi), che di amorevole e complice non ha proprio nulla. Il futuro che viviamo giornalmente è violento e in perenne sofferenza. Esplicativo è il superbo piano sequenza dell’aggressione a Bin. Ash is purest white non è mai didascalico, è un film dolente e poetico. Nella sua universalità, non vediamo solo una Cina tradita, ma anche un po’ di noi stessi e il nostro sguardo abbassato su un piccolo schermo nero, in grado solo di portare alienazione. Il ritorno alla tradizione è impossibile e, usando un termine tecnologico, navighiamo senza sosta verso un mondo senza alternative. E’ questo lo sfogo del regista, e a parte una lunghezza eccessiva della pellicola, non gli si può dar torto. Non può mancare un altro suo segno di fabbrica, l’ufo che svolazza beato nei cieli e che rafforza l’incoerenza della realtà. Mondo irrazionale, che ormai non ha più la forza di tornare indietro. Felicità presente solo nei piccoli e insensati gesti. (Qiao che condivide una bottiglietta tra le sue e le mani di chi incontra per caso sul treno). Provare a credere in qualcosa, solo per il gusto di credere ancora (uomo che propone un bizzarro lavoro a Qiao in treno).
 
Tanta roba nel film di Jia Zhang-ke, che punta incessantemente il suo faro sulle discordanze del rinnovamento e sulla conseguente instabilità sociale, che innalza il divario tra ricco e povero. Sentita anche l’importanza del passare del tempo su quello che ci emozionava e che ora rimane solo un sordo sussurro. Ingente il supporto attoriale dei due protagonisti, che attraversano i primi 17 anni del nuovo millennio sprigionando magnificamente paure, orgoglio, determinazione e debolezze, con la loro superba performance. Mettono in scena l’esistenza che fa rima con sopravvivenza. La costruzione e la demolizione. 
 
David Siena
 
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