Torna dopo “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” (2017) Martin McDonagh in concorso al Lido. E porta con sé i suoi due attori feticcio: Colin Farrell e Brendan Gleeson, visti nel suo meraviglioso “In Bruges”. E come sempre confeziona un’opera solida, preziosa e vicina alla perfezione. Come il migliore degli orologi non perde tempo in fronzoli ed ogni rintocco delle quasi 2 ore di film è un piacere per lo spettatore; che vive empaticamente le sorti dei protagonisti, in un saliscendi tra dramma ed ironia. Premiato qui a Venezia con la Coppa Volpi al Miglior attore a Colin Farrell e con la miglior sceneggiatura proprio a Martin McDonagh. Non ci sarebbe stato premio più azzeccato. Prodotto dalla Searchlight Pictures, casa Disney, l’uscita italiana è prevista il 2 Febbraio 2023.
Irlanda anni 20, isola al largo della costa occidentale. Padraic (Farrell) e Colm (Gleeson) sono migliori amici. Un giorno Colm decide improvvisamente di rompere l’amicizia. Questo avrà conseguenze disastrose non solo nella vita di Padraic, ma anche per l’intera piccola comunità. L’isolano non si rassegna all’idea della perdita senza senso di Colm e cerca in ogni modo di scuoterlo e farlo ragionare. Padraic cerca aiuto nella sorella Siobhan (Kerry Condon) e nel figlio del capo della polizia Dominic (Barry Keoghan). Quest’ultimo personaggio decisamente svampito; vive in un mondo tutto suo. Colm è ferreo sulle proprie convinzioni e non ha intenzione di fare un passo indietro, anzi, rincara la dose. Se Padraic continua ad importunarlo è deciso a prendere drastiche decisioni al limite della follia. Tutto questo disagio si istaura nell’intera comunità, che non è abituata ad un clima belligerante.
McDonagh si conferma un ottimo regista, ma soprattutto un eccellente sceneggiatore. Lo script è favoloso. Disegna con precisione millimetrica i protagonisti. Tutti, compresi I baristi del pub del paese. Tra spiriti che prevedono gli accadimenti ed animali nel focus dell’azione, esplode una strana guerra imprevista, non voluta. Siamo di fronte ad un possente racconto allegorico e morale sulla sconsideratezza delle guerre. Battaglie di massa senza senso, quelle che incorniciano il paese irlandese nel pieno delle proprie incoerenze. Ma qui soprattutto personali, dettate da sfizi e da intime pochezze. Colpi di orgoglio umano ingiustificati e pericolosi, non solo per gli interessati, ma anche per i posteri.
La messa in scena lascia veramente stupefatti. Un argomento come la guerra scritto con garbo e finezza. Si incastra tutto alla perfezione. L’argomento in superficie dell’amicizia negata è solo uno specchio per allodole, che nel profondo sottotesto esplode come l’inizio di una guerra sanguinosa, rancorosa e distruttiva. Insita, ahinoi, nell’animo umano. E poi, diciamolo a voce alta, nel film non si vede un fucile.
McDonagh può veramente essere considerato uno dei migliori esponenti drammaturgici dei nostri tempi. La
regia è compatta, in grado di non perdere mai il focus del film. A tratti Teatrale e spettrale.
Ruba l’occhio la fotografia di Ben Davis, collaboratore stretto di Martin McDonagh. Paesaggi incontaminati immortalati in splendidi campi lunghi e medi. Verdi prati e svettanti scogliere, che danno respiro al film. Il tutto in netta opposizione con lo stato cupo e depresso dei protagonisti. La natura può solo assistere inerme alla nostra distruzione.
The Banshees of Inisherin è una partita a scacchi giocata da due personaggi, metaforicamente con il mondo intero in mano, che decidono il destino di tutti. Non vi sembra clamorosamente attuale? Un lungometraggio da non perdere. Colpo di fulmine.
David Siena
Ispirato all’omonimo romanzo d’inchiesta di Carlo Bonini e Giuliano Foschini sulla quarta mafia italiana, la Sacra Corona Unita del Gargano, Ti mangio il cuore è stato accolto alla Mostra del Cinema di Venezia 79 con un certo grado di curiosità, che andava ben oltre le forti e violente tematiche con cui doveva misurarsi.
Decisamente particolare che una cantante di successo come Elodie, al debutto cinematografico in ambito attoriale, scelga un ruolo di questo tipo con cui cimentarsi, nei panni della prima pentita tra le famiglie della mafia pugliese.
In questo territorio è sempre scorso copioso il sangue tra gli affiliati alla criminalità locale, con famiglie che sono ascese al potere a suon di estorsioni, ricatti e tradimenti, fino a diventare una potenza paragonabile alle ben più note mafie, camorra e ‘ndrangheta.
Se nel romanzo da cui è tratto, la scalata violenta si concentra sulle modalità e i meccanismi collusi in cui ne è avvenuta l’espansione, in questo adattamento, il regista e sceneggiatore Pippo Mezzapesa, sceglie di usare delle tematiche più shakespeariane per introdurci questo feroce contesto.
Sul sempre attuale modello di Romeo e Giulietta si sceglie quindi di intrecciare i destini di vicende criminali ormai ben note al pubblico italiano, abituato a questioni di delinquenza organizzata purtroppo integrate alla storia del nostro Paese. Un taglio diverso, che funziona per unire la violenza a una storia amorosa fatta di innocenza e corruzione allo stesso tempo.
Elodie assume le fattezze di Marilena, moglie del capofamiglia dei Camporeale, mentre l’altro lato della contesa è incarnato da Andrea (Francesco Patanè), futuro erede dei Malatesta. Le due famiglie sono in eterna lotta per il controllo del territorio, con entrambe le parti pronte a sfruttare ogni segno di debolezza per avere la meglio sull’avversario, e con le vesti di terzi, ai margini della lotta per il potere, nelle figure dei Montanari.
Quando tra i due protagonisti principali comincia una relazione clandestina, si mette in moto un gioco cruento, con cui tutte le pedine di questo racconto dovranno avere a che fare.
E’ quindi una regia che decide di appoggiarsi molto sui propri personaggi per tratteggiare le sensazioni viscerali di illusioni e speranze che si scontrano con la crudezza di una realtà dura e spietata, ed Elodie non se la cava affatto male a trasmettere la passione di una donna combattuta tra il desiderio e la responsabilità del suo ruolo.
Peccato per la sua controparte maschile che appare più caricaturale nel suo percorso narrativo per via di un certo overacting, e incide sull’efficacia di alcune scene.
Dall’altro lato Pippo Mezzapesa sceglie bene di utilizzare una fotografia in bianco e nero, molto contrastata, con un effetto cromatico che rimanda in maniera anche grafica alle lotte della sua opera, in uno scontro molto vivido tra gli opposti bene e male, amore e odio o profano e religioso.
L’intreccio procede quindi prendendosi i suoi tempi e trova anche dei guizzi narrativi piuttosto interessanti in fase di chiusura della vicenda, in un pacchetto confezionato in maniera non sempre omogenea, ma che comunica lo stesso la sensazione di ineluttabilità del male e desolazione emotiva che abitano da sempre il lato più oscuro dell’animo umano.
Omar Mourad Agha