Fuoritraccia

Newsletter

Messaggio
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Home » Recensioni » Visualizza articoli per tag: venezia 70
A+ R A-
Visualizza articoli per tag: venezia 70

EL-STOUH (LES TERRASSES)

Giovedì 12 Settembre 2013 21:12
“Sappiamo che il cinema non può cambiare il mondo, ma sappiamo anche che il cinema può crearlo un mondo”. Si era espresso così Bernardo Bertolucci durante la cerimonia d’apertura di questa 70esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Quella frase conteneva la disillusione seguita a quel ’68 cinematografico da lui vissuto in prima linea, quando era forte fra gli autori (parliamo degli europei, ma soprattutto dei francesi) l’idea che fare cinema fosse, in prima istanza, un fatto politico, libertario, un fatto importante insomma. 
Merzak Allouache, algerino naturalizzato francese, quell’illusione non l’ha persa. Lo ha dimostrato con le dure panoramiche sul suo paese, offerte dai film precedenti (da “L’autre monde” 2001 a “Tamanrasset” 2008), quando vivere l’Algeria con una telecamera in mano significava rischiare in prima persona; ce lo dimostra, oggi, con questo film di fiction che prende spunto dalla realtà sociale algerina e dalla violenza di cui è intrisa.
Les terrasses altro non è che il racconto, e la critica, di una società che, lungi dall’essere sulla strada della ricostruzione (politica, culturale, morale), è intrinsecamente malata, pur non riconoscendosi in quanto tale. Allouache lo sottolinea con le immagini e con le parole “L’algeria sembra paradossalmente serena, ripiegata su sé stessa, quasi indifferente. Ma la realtà è un’altra”.
Dal lungomare di Algeri, che appare nella prima sequenza, la cinepresa si sposta (o meglio, si eleva) per abbracciare i diversi quartieri e narrare cinque storie che si sviluppano in un percorso temporale scandito dai cinque richiami giornalieri del muezzin. La visuale si alza e riprende i personaggi dall’alto di terrazze divenute vere e proprie abitazioni, location scelte come simbolo del cambiamento della vita nella città, luoghi di appropriazione illegale e incontrollata, spazi in cui scoppiano le contraddizioni di una società violenta, caotica, dimentica di un passato rivoluzionario e della sua regale bellezza.
Gli episodi mostrano situazioni al limite, caricate della forza della finzione, volutamente paradossali. Vediamo, quindi, sfilare dinnanzi ai nostri occhi: un vecchio semi-impazzito, rinchiuso in una gabbia, a cui si avvicina solo la nipotina, nella sua giovinezza innocente; una ragazza vittima di violenze domestiche che invia il proprio urlo di dolore alla sua dirimpettaia, la quale sperimenta la forza di un amore omosessuale vietato. Ed ancora: un padrone di casa spietato che non si fa scrupoli a sfrattare una famiglia dalla terrazza che sostiene appartenergli; un sedicente Imam che sfrutta la credulità popolare per estorcere denaro; un omicidio commesso per chissà quale regolazione di conti.
Da queste terrazze, da questi quartieri, già scenario cinematografico del maestro Pontecorvo, si alza la voce di un regista che non ha paura di dichiararsi pessimista, sia in merito alla sua società violenta - prodotto di decenni di forte instabilità politica seguita all’indipendenza - sia in merito ad un cinema che rischia di morire, con la chiusura delle sale e il totale disinteresse della popolazione algerina verso di esso. Eppure il suo pessimismo è motore che muove l’azione del filmare, è atto di resistenza nei confronti di un movimento di violenza e di cancellazione della memoria storica che uccide l’umanità insieme ai quartieri da essa abitati. Pochi, incantevoli sprazzi di luce provengono dallo scambio intimo fra alcuni protagonisti, dalla complicità tra persone sconosciute, dalla musica, allegro collante d’amicizia, a dimostrazione che un residuo di umanità sospeso fra i palazzi ed il cielo permette al mondo di non implodere. 
Un tale atto di responsabilità nei confronti della missione politica del cinema potrà non ricevere alcun premio (come di fatto è stato nella kermesse veneziana che si è appena conclusa) ma rappresenta uno strumento, ben costruito, di indubbio valore sociale e storico, sia per il pubblico algerino che per quello internazionale. 
 
Elisa Fiorucci

Sacro GRA

Giovedì 12 Settembre 2013 21:43
Bertolucci voleva essere sorpreso. E Rosi l’ha accontentato. Con un lungo lavoro di ricerca sul campo - il documentario esige un tragitto in solitaria che, col rischio dell’autismo, arriva ad un “prodotto” finale che è una sorta di sintesi di molteplici incontri, sguardi, parole, riflessioni – il documentarista di fama internazionale (lo conoscono forse di più in America che in Italia) crea una pietra preziosa fatta di tante rifrazioni cromatiche quanti sono i frammenti di vita che riprende e restituisce allo spettatore. 
Dopo tre anni passati a circumnavigare il GRA, a mappare emotivamente quel cerchio di traffico che cinge Roma, a conoscere l’umanità palpitante che lo popola, Rosi e i suoi collaboratori (Dario Zonta, preziosissimo direttore artistico e Nicolò Basetti paesaggista-urbanista che inizia l’avventura di scoperta del raccordo), ci regalano dei personaggi autentici attraverso una sperimentazione narrativa imperniata sul togliere. Trasformazione e sottrazione sono le cifre stilistiche di questo lungo lavoro che è, nelle parole di Rosi, “prima di tutto un atto di amore nei confronti dei personaggi”. Privi di una storia che li intreccia, appaiono e scompaiono (dimostrando un’ incredibile capacità di mettersi in gioco, di recitare con naturalezza, dimenticando di essere ripresi) di modo che ogni frammento di vita mostrata rappresenti, in sintesi, l’essenza dei personaggi, in cui risiede tutta la loro forza poetica. Che continua oltre i limiti del tempo del documentario.
La poeticità stabilisce un contatto diretto con la sacralità, che è la cifra del mistero di un luogo e dei personaggi che lo abitano, di cui Rosi dona allo spettatore un’ occhiatina furtiva senza svelare la loro complessità. La sacralità, e al tempo stesso la magia del documentario, consiste nella trasformazione di un luogo piuttosto squallido, scandito dal ronzio continuo delle auto nella piastra rovente di cemento, in uno spazio capace di rendere racconti delle vite ordinarie. Il raccordo si trasforma in un cerchio magico che ci conduce verso altri mondi, nei dialoghi fra un padre intellettuale che intrattiene la figlia studiosa con le sue riflessioni su Durrell, nel camper di due prostitute incasinate con la legge, nei salotti di un principe in cui si incontrano gli attori di un fotoromanzo, nell’ironia coinvolgente di un pescatore d’anguille che legge un servizio sulla pesca delle anguille, in un biologo che registra i suoni delle palme morenti, negli interni barocchi e anche un po’ trash di nobili piemontesi inspiegabilmente finiti ad abitare lì, negli sguardi di altri personaggi che osservano dai finestroni quadrati dei loro palazzi la vista sul raccordo, riuscendo a scorgervi angoli di bellezza.
Contro il mito della velocità degli anni ’60 di cui il raccordo è simbolo, contro quella macchina celibe (felice invenzione di Duchamp per descrivere opere dal funzionamento e l’utilità sconosciuti) che Renato Nicolini intravedeva in uno strumento che, anziché organizzare il traffico da e verso Roma, funzionava solo come cesura nei confronti delle contraddizioni della città, Sacro GRA è il prodotto di una lentezza ontologica e della spinta ad uscire da quella sospensione invisibilizzante attraverso frammenti di esistenze ordinarie che popolano quello spazio. Il documentario, insieme ai suoi personaggi, sospende quella sospensione. E da visibilità alla “città invisibile” costruita intorno allo spazio del raccordo. 
Il leone d’oro a Sacro GRA è un atto di coraggio, fatto da chi crede nel potere rivoluzionario del cinema e nel suo dovere morale di aderenza all’esprit du temps. Che Sacro GRA coglie sia nell’individuazione di una certa crisi identitaria che, più di quella economica, marca le vite delle moltitudini; sia in un movimento che consiste nello spingere sempre più avanti la barriera fra fiction e documentario, nello spostare il lungometraggio fuori da ogni canone di raccontato. 
 
Elisa Fiorucci
“L’artista è un trasgressore, ci deve quindi essere qualcosa da trasgredire, dei limiti che non permettono alla creatività di essere totale”.  In una delle scene che prendono parte a questo patchwork filmico,  omaggio al grande cineasta italiano, Fellini espone ad un dinoccolato Mastroianni il suo punto di vista nei confronti della creatività, cavallo pazzo da ammansire per poter essere cavalcato. Ettore Scola, collega, compagno e intimo amico di Fellini, sembra recuperare queste sue riflessioni per costruire quello che può essere accolto come un messaggio d’amore inviato in una bottiglia di vetro che assume le fattezze di una telecamera.
Inizialmente concepito come ricordo del regista riminese in occasione del ventennale della sua morte, su proposta di Roberto Ciccutto di affiancare i ricordi personali di Scola al materiale d’archivio, il progetto si trasforma in una sorta di album di memorie che non proseguono secondo una linea retta ma si mescolano in un mush up di aneddoti, frasi, set, foto, frammenti di film. Un vero e proprio Amarcord, realizzato con l’aiuto delle figlie Paola e Silvia che hanno rovistato tutto il materiale delle Teche e scritto la sceneggiatura insieme al padre. 
All’inizio di tutto c’è l’incontro fra un giovanissimo Ettore Scola e un già conosciuto Federico Fellini, di dieci anni più grande, presso la redazione del giornale satirico Marc’Aurelio, nella Roma del secondo dopoguerra. Poi ci sono le riunioni informali nei bar romani fra Scola, Fellini e Massari; i giri in macchina nelle notti insonni in una città pulsante; gli incontri notturni con un’umanità varia; il teatro  5 di Cinecittà, seconda casa di Federico.
I momenti di fiction in cui i due giovani Scola e Fellini sono interpretati dai nipoti di quest’ultimo, Giacomo e Tommaso Lazotti, si sovrappongono ai filmati d’archivio e ad alcune scene fondanti della filmografia di Federico, ovvero del cinema italiano. Curiosa la scelta di affidare a controfigure sempre poste in penombra la parte di Federico ed Ettore già registi affermati, impegnati in scorribande per la città o su qualche set, utilizzando la vera voce del primo, ripresa da interviste d’epoca, remixata e introdotta nel film. Quasi magici gli incontri con una prostituta gioiosa e scaltra (Antonella Attili) e con un madonnaro barese (Sergio Rubini) che ricorda ai due amici come il cinema sia solo la settima arte, mentre la pittura è la terza. Esilarante la scena di repertorio con i provini a Gassman, Mastroianni e Sordi per la parte del Casanova, quando già si sapeva che nessuno dei tre avrebbe avuto la parte.
La matrice dell’ironia pervade l’intero racconto e riproduce, al tempo stesso, il senso del cinema di Fellini, secondo una struttura onirica che è, di per sé, felliniana. Compresa la scena che chiude il film-documentario (o meglio l’album di ricordi), in cui il regista si rilassa seduto nella sua sedia di fronte ad un mare calmo nel tramonto caldo. La sensazione di malinconia e di commozione, assolutamente non ricercata da regista e sceneggiatrici, prende comunque parte a questo ritratto amichevole che sembra quasi dire “abbiamo perduto qualcosa”, coinvolgendo in questo moto tutto il sistema cinema, compresi quegli stessi studios in cui Fellini e i suoi hanno fatto rivivere il cinema italiano, ora trasformati in parco giochi o in rovina. E tuttavia, nell’onorare i ricordi e i grandi momenti della filmografia felliniana e della sua vita aperta all’esperienza, Scola vuole dire ciò che ha già detto in conferenza stampa, ovvero che “Fellini non manca, così come non manca Leopardi. C’è e continuerà ad esserci con il suo contributo fondamentale alla cultura italiana”.
Questo “piccolo ritratto di un grande personaggio”, presentato fuori concorso a Venezia (con una proiezione speciale alla presenza del Presidente della Repubblica, il quale ha poi dichiarato, emozionato “Solo Scola poteva fare questo film su Fellini) è, in ultima istanza, un elogio alla gioiosità di un regista e di un uomo che riprende vita nello sguardo di un amico e nella narrazione in terza persona di un bravissimo Vittorio Viviani.
 
Elisa Fiorucci

La Jalousie

Lunedì 23 Settembre 2013 00:52
Appena varchi la soglia della sala in cui stanno proiettando “La Jalousie”, e magari ti capita di arrivare con quei due minuti di ritardo che – accidenti! - ti hanno fatto perdere il primo scambio di battute o qualche scena introduttiva, ti sembra di essere inavvertitamente finito in una botola del tempo che ti riporta al bianco e nero degli anni ‘50, alla politique des auteurs, a Renoir e Godard, ad una forma di cinema che è prima di tutto riflessione filosofica  e rivoluzione mediatica. “La Jalouise” appartiene ad un tipo di cinema che forse non esiste più ma, proprio per questo, pone una domanda fondamentale all’industria cinematografica circa il suo futuro. Direi quasi una questione morale.
Senza nostalgie lacrimose o spirito anacronistico, mi sembra realistico chiedersi se c’è ancora spazio per un cinema fatto di parole, di storie semplici che girano intorno a concetti universali, di sceneggiature ridotte all’osso, di improvvisazione, di cenni autobiografici che non hanno bisogno di essere celati. Ne “La Jalousie” c’è tutto questo, in stile “antico reportage”, volutamente rievocativo delle vicende artistico-personali della famiglia Garrel, catturate dallo sguardo del piccolo Philippe (che nel film diventa una bambina): il papà, Maurice Garrel, giovane attore di teatro, qui interpretato dal nipote (Luis, anche lui attore), lascia la mamma e s’innamora di un’attrice, la quale piace subito alla figlia di Maurice, facendo esplodere la gelosia dell’ex moglie. Finché non è lo stesso Maurice-Luis a cadere preda della gelosia, scoprendo che la sua nuova fiamma – suo “amore definitivo” - si lascia andare a scappatelle notturne e giunge persino a lasciarlo per giocare il ruolo della femmina trofeo di un ricco intellettuale. Chissà sin dove si spingono le immaginazioni del piccolo Philippe per colmare i vuoti di memoria e fin dove arriva, invece, la realtà di quella gelosia possessiva che sfiora la morte.
Credo che con questo ménage parigino Garrel voglia dirci sostanzialmente due cose. La prima è che si può girare un film a basso costo, in un periodo di tempo relativamente breve, che non lesini nei contenuti e nella forma, scegliendo come set le case autentiche, le strade e i bar conosciuti e abitualmente frequentati. Insomma si può usare la realtà che viviamo, o il ricordo di un’altra realtà, per costruire una storia che ruota attorno ad un concetto, in questo caso la gelosia. La seconda è che la comunicazione fra le persone è un fatto molto complicato, e nelle maglie dell’incomunicabilità cresce la passione triste della gelosia, che sceglie i colpevoli e che pone un interrogativo morale dentro alla coppia.
Fondamentale il nesso fra gelosia e incomunicabilità, leitmotiv di autori come Antonioni e Moravia, ai quali Garrel ammette apertamente di rifarsi (“La noia” come “La gelosia”, elementi pervasivi di un certo contesto borghese che i due autori vivono e rappresentano), sottolineando la comune natura occidentale dei temi. Perché di una gelosia introversa, che si dispiega in sé stessa e non altrove, parla Garrel. E di una difficoltà di comunicazione che irrompe nella coppia quando la paura dell’abbandono e della progettualità finiscono per ridare forma alle pratiche sociali eteronormative in cui la coppia stessa s’ ingabbia.
Ma, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, non c’è nessuna vena romantico-nostalgica in questo attraversamento filosofico: la gelosia stessa appare piuttosto una zavorra dalla quale, sembra suggerire il regista (e i quattro sceneggiatori che hanno lavorato con lui), dovremmo allontanarci per vivere con maggiore serenità quegli spazi di condivisione che illuminano alcuni periodi della nostra vita, ma che non sono eterni. Per non parlare della comunicazione: parlare (con ogni mezzo) a volte fa male; le parole traumatizzano più dei gesti e non sempre possono essere qualificate come antidoto all’incomprensione.
In un certo senso con questo film Garrel distrugge il concetto di infedeltà quale attitudine del singolo, per inserirlo a pieno titolo nella società occidentale contemporanea, dove la maggior parte delle coppie vive al massimo un pezzo di vita insieme, senza sperimentare la possibilità di un amore fedele ed eterno. In fondo, - il cinismo dell’autore sale ancora di un gradino – “quando due persone stanno insieme è un malinteso felice. Che può diventare un malinteso infelice nel caso di drammi della gelosia come quello del film”.
Benché Venezia ’70 non gli abbia riservato alcuna attenzione, mi sembra che “ La Jalousie” apra uno spazio enorme di riflessione, tanto sul cinema, quanto sulle nostre modalità di vivere i rapporti.
 
Elisa Fiorucci

Miss Violence

Mercoledì 09 Ottobre 2013 10:24

Il giorno del suo undicesimo compleanno la piccola Angeliki – Clhloe Bolota - si lancia dalla finestra di casa sua, togliendosi la vita sotto gli sguardi attoniti dei suoi familiari vestiti a festa. Questo è il prologo di Miss Violence, presentato in concorso alla 70ª Mostra del cinema di Venezia e vincitore di ben quattro premi: il Leone d'Argento per la migliore regia, la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile - a Themis Panou - il premio Arca Cinema Giovani come miglior film ed il premio Fedeora come miglior film dell'area Euro-Mediterraneo.

Il suicidio della ragazzina romperà l'apparente tranquillità della sua famiglia, portando a galla agghiaccianti verità. Le dinamiche di parentela rimangono confuse per quasi metà del film - chi è figlio di chi? - per poi venire alla luce mano mano, insieme al marcio che il capo famiglia - un superbo Themis Panou - si è ostinato a nascondere sotto il tappeto per troppo tempo. 
Quello che ne esce fuori è un nucleo familiare schiavo degli abusi di un padre padrone sessualmente deviato, che alleva figlie e nipoti per commercializzarne i corpi nel momento da lui ritenuto opportuno. 
Il regista greco Alexandros Avranas ci accoglie in casa del Male e ci fa sedere a tavola con lui, per condividerne gli attimi di quotidianità. 
Miss Violence è un'opera cruda, claustrofobica, una rappresentazione lucida della follia, lontana da qualsiasi retorica del film di denuncia. 
Ritmi lenti, inquadrature fisse, dialoghi asciutti, tutte scelte stilistiche finalizzate; perché il Male è prima di tutto assenza, privazione, silenzio. La privazione di dignità umana che la famiglia è costretta a subire dal proprio padre/nonno e il silenzio disperato con il quale lo affrontano. 
“La violenza più efferata è quella del silenzio. Del non detto” dice lo stesso Avranas.
Il dramma dei protagonisti è il dramma di un intero paese sull'orlo dell'abisso economico, che vede affondare l'ultima intoccabile istituzione a cui aggrapparsi: la famiglia. Distruggendo la facciata perbenista borghese, Avanas palesa il fallimento di quel modello di vita in cui troppi - e per troppo tempo - hanno riposto le proprie certezze. 
Ma se l'unico modello ritenuto possibile fino ad allora fallisse, cosa rimarrebbe? Questa è la domanda che lo spettatore si pone durante i titoli di coda, dopo l'enigmatico finale. La distruzione della figura patriarcale equivale alla fine dell'incubo o all'inizio di uno nuovo? Eliminando la causa del male si elimina automaticamente il male stesso che essa ha perpetuato per anni? 
Il film in sé non da risposte, ma stimola domande, attraverso la totale degenerazione delle dinamiche familiari e sociali. 
 
Angelo Santini

La prima neve

Mercoledì 09 Ottobre 2013 10:48

È abbastanza evidente, pur non conoscendo la sua traiettoria cinematografica, che dietro la macchina da presa di “La prima neve” non c’è solo un bravo regista, ma anche un sociologo, esperto di comunicazione sociale, personalmente impegnato nei temi della cooperazione internazionale. Approdato alla fiction con “Io sono li”, dopo aver girato documentari che narrano i mondi albanesi, africani, zingari, Andrea Segre si è imposto all’attenzione di critica e pubblico per la sua capacità di raccontare storie di persone e luoghi attraverso una cifra stilistica assolutamente personale, riconoscibile. La sua umanità è sempre costituita da quei soggetti marginali che, più di altri, vivono sulla propria pelle le contraddizioni di un capitalismo cieco e di uno stravolgimento del senso di comunità. Che si tratti di documentari o di fiction – in Segre, rintracciando quasi intuitivamente una tendenza fortunata del cinema contemporaneo,  il confine non è molto netto – lo spettatore sperimenta immediatamente quella sorta di straniamento rispetto alla sua realtà, a cui segue una totale immersione nella realtà raccontata ed un ritorno alla propria, arricchito da una serie di spunti alla riflessione che non possono fermarsi ai titoli di coda. Si potrebbe in un certo senso affermare che le sue storie accompagnano lo spettatore oltre lo spettacolo (ammesso che ci sia ancora spazio per un’autenticità non fagocitata all’interno dell’industria del tempo libero)

Anche con “La prima neve”, secondo lungometraggio dell’autore veneto presentato a Venezia ’70 nella sezione Orizzonti, Segre ci restituisce un mondo lontano dai riflettori mediatici in cui i personaggi si incontrano dentro ad un territorio che molto spesso divide anziché unire. Il paesaggio ostico e affascinante di questo piccolo comune del Trentino, ai piedi della Val de Mocheni, narra la storia di Deni, fuggito dal Togo e poi dalla Libia, approdato in Italia e rimasto vedovo, padre di una bambina di cui non riesce a prendersi cura perché ha lo stesso volto della donna da cui si è dovuto tragicamente separare. Nello spazio dell’attesa dei tempi lunghi della burocrazia che gli permetterà di raggiungere Parigi, Deni lavora per un anziano apicoltore, nonno di Michele, ragazzo “problematico”, anche lui segnato da una distacco improvviso da un padre che ha perso la vita proprio in quelle montagne innevate. L’empatia non può che far nascere un rapporto di mutuo rispetto e condivisione: Deni e Michele si riconoscono l’uno nell’altro in quanto soggetti mutilati dell’affetto più forte, entrambi in collisione con coloro che rappresentano i reduci di quell’affetto (la figlia di Deni, la madre di Michele) e che impongono loro di fare i conti con una realtà che non può essere accettata. Quest’incontro fra due solitudini stabilisce un dialogo altrimenti impossibile, un dialogo che apre possibilità nuove per entrambi. “Fare cinema è – per Segre - concedere spazio allo sguardo, per rendere possibile l’incontro che è contaminazione” L’incontro fra differenze – non macchiato, come nel precedente “Io sono li”, dal razzismo identitario dei locals - è detonatore di un nuovo rapporto, sia con gli altri esseri umani che con la natura. 
I luoghi diventano personaggi, veri e propri attori con cui lo stesso regista entra in rapporto per scoprire come possono interagire emotivamente nel racconto. L’impianto narrativo de “La prima neve” è, infatti, indissolubilmente legato ai suoi boschi, al suo popolo, e in particolare ai bambini. “Avevo bisogno di bambini ancora capaci di vivere e giocare nei boschi, di arrampicarsi sugli alberi, di lanciarsi in discesa lungo prati e pendii, e sono loro che mi hanno guidato nella valle. È seguendo loro che ho imparato a conoscerla”. 
A tratti pericolosamente didascalico, “La prima neve” poggia su di una struttura che rivela, passo dopo passo, il vissuto e la complessità di persone piuttosto che personaggi, di modo che una vitale autenticità degli esseri umani al centro del racconto ci impedisce quasi di percepire il meccanismo illusorio del cinema che trasforma un attore in un personaggio. Il confine fra documento e finzione si fa labilissimo, caratteristica che, se da un lato trattiene lo spettatore dall’immersione emotiva nelle maglie del racconto, d’altro lato lo previene da facili retoriche piagnucolanti. La sensazione che ci lascia, a tratti amara, a tratti straripante di umanità, non è mai disgiunta da una certa attività del pensiero che ci costringe a fare i conti con quelle persone e con quel territorio.
Resta da capire se la scarsa attenzione ricevuta a Venezia sia totalmente amputabile a canonici aggiustamenti in seno alla giuria (con il Leone d’oro a Rosi e la Coppa Volpi a Elena Cotta non c’era spazio per un altro film italiano) o ad una riflessione che ha coinvolto pubblico e critica in un paragone dal quale “Io sono li” è uscito vincente.
 
Elisa Fiorucci