Asteroid City di Wes Anderson è tra i film più visti nelle ultime settimane, ma è davvero un titolo da non perdere?
Spesso quello che chiamiamo tratto distintivo di un autore se portato agli estremi finisce per rendere la narrazione piuttosto marginale, generando il più delle volte confusione nel pubblico. Ciò che ha reso Wes Anderson un innovatore, un romantico visionario, è stato il suo particolarissimo racconto per immagini vivaci e colorate, tanto da farci immergere in ogni film quasi all’interno di un tableau vivant. Un aspetto che lo ha consacrato come autore e, soprattutto, come regista capace di realizzare dei piccoli capolavori unici nel loro genere. Nonostante la cura maniacale per il dettaglio e la volontà di riunire ogni volta un cast corale di grandi nomi, Anderson ora è giunto in una fase di reiterazione, dalla quale forse riuscirà ad emergere solo discostandosi da questa ossessione per l’estetismo. Asteroid City sintetizza perfettamente come questo problema sia stato portato per l’ennesima volta all’esasperazione. È il 1955 e ci troviamo nella città immaginaria di Asteroid, durante una convention di giovani astronomi e cadetti spaziali. Il clima di discussioni e confronti vivaci, viene bruscamente interrotto da un evento straordinario ed inquietante: l’arrivo di una presenza aliena. Questo incontro ravvicinato muterà radicalmente tutti gli equilibri della cittadina generando un uragano di situazioni inverosimili che porterà tutti i personaggi a fare i conti con le proprie ossessioni. Asteroid City, in concorso a Cannes qualche mese fa, e che esce al cinema a due anni di distanza dall’incompreso (legittimamente) The French Dispatch, se da un lato attrae per quel timbro grafico e quella messa in scena così appagante per lo sguardo, dall’altro intrappola lo spettatore nell’ennesimo racconto uguale a tanti altri già narrati dal regista in precedenza. Le dinamiche sono più o meno le stesse, lo stile pure, cosa cambia? Il giro di attori, che stavolta coinvolge nomi nuovi che vanno ad aggiungersi a dei vecchi amici, oramai divenuti anche loro la spina dorsale dell’impronta andersoniana. Tuttavia, nonostante il cast sempre eccezionale e il rigore dell’impianto grafico, la sensazione è quella di avere di fronte un’opera senz’anima, un involucro molto bello ma privo di contenuto. La durata eccessiva del film, soprattutto per quello che si narra (ossia nulla), non fa atro che esasperare quel senso di vuoto tematico, che oltretutto si percepisce dal primo all’ultimo istante. Evidente è anche la profonda frattura tra uno studio morboso per le scenografie, di diritto tra le più memorabili finora proposte dal regista, e un disinteresse lampante per un plot che fa acqua da tutte le parti. Le scenette situazioniste in cui vengono incasellati i tanti personaggi, esistono al solo scopo di dare una ragion d’essere a molti attori che sembrano trovarsi lì per fare numero. Operazione rischiosa quanto insensata dal momento che la trama presenta pochi colpi di scena, a rigor di precisione: uno. E se poi si dovesse focalizzare su questo imprevisto, rappresentato dalla presenza aliena, non si riuscirebbe comunque a scorgere un reale interesse nel trattarlo in modo quanto meno dignitoso per la trama. Dai dialoghi alla caratterizzazione dei personaggi passando per l’epifania di un’imminente minaccia, è tutto abbozzato. La verità è che questo regista è di fronte ad un bivio ora, reinventarsi o accanirsi. Wes ti abbiamo voluto molto bene, ma è tempo di tacere quando non si ha più nulla da dire.
Giada Farrace
Ci sono dei dettagli imprescindibili che permettono agli spettatori più attenti di riconoscere sin da subito quello che è un film di Martin Scorsese già dalla prima scena. Accade in Toro Scatenato, in cui Jake La Motta, in una cornice quasi onirica avvolta dal bianco e nero, si muove in slowmotion sul ring accompagnato da una colonna sonora lenta, che sembra quasi prenderlo per mano prima del combattimento. Oppure in The Aviator, dove ci viene mostrato un Howard Hughes bambino, lavato con estrema cura da una madre che lo mette in guardia sui pericoli del colera, seminando in lui il germe di quel disturbo ossessivo nei confronti dello sporco, noto come misofobia. In entrambi i casi, Scorsese fornisce informazioni determinanti ai fini di una storia che andrà mano a mano a svelare e lo fa in modo velato e meticoloso, attraverso tanti piccoli elementi. In Killers of the Flower Moon, Scorsese decide di raccontarci una storia di crimini e ingiustizie, perpetrate da una fitta schiera di bianchi americani stabilitisi nella contea di Osage. Proprio nel 1920 in si registrò il più alto tasso di morti indiane, vittime di un sanguinoso sistema di acquisizione indiretta delle loro terre. Unirsi in matrimonio con un nativo per possederne dopo la morte i beni e i rispettivi terreni, era lo scopo di ogni bianco. Latifondi preziosissimi, culla di quello che di lì a poco sarebbe divenuto il capitale più ingente dell’economia mondiale: l’oro nero, il petrolio. A capo di questa struttura criminale, lo spietato William Hale, interpretato da un Robert De Niro che mette i brividi per l’aderenza perfetta ad un personaggio crudele e assetato di potere. Hale persuaderà suo nipote Ernest, interpretato da Leonardo Di Caprio (impeccabile, ma in questo caso una spanna sotto la perfomance di De Niro), a sposare una donna Osage con lo scopo di impadronirsi evidentemente dell’ennesima ricca eredità. Tuttavia, il cerchio è presto destinato a chiudersi, e le conseguenze saranno inevitabili per tutti i carnefici. Siamo di fronte ad un altro capolavoro scritto e diretto da quello che è forse il regista più affabulatore e poliedrico di sempre. Perché se c’è un pregio che si deve riconoscere a Scorsese è quello di cambiare pelle e raccontarci ogni volta qualcosa di diverso. A cambiare non sono soltanto i contesti storici, i messaggi veicolati e il processo di ricostruzione di un evento ( che sia di finzione o tratto da una storia vera), ma il modo di raccontarci quella vicenda. E in questo caso specifico, Scorsese compie un atto sovversivo e imprevisto ai fini del consueto intreccio narrativo, svelandoci sin da subito chi sono i responsabili delle atrocità sopracitate. Un dramma investigativo inconsueto, sovversivo perchè privo di un vero e proprio processo di indagine da parte dello spettatore. Qui la grandezza di questo regista, che passa dal gangster movie alla commedia nera continuamente senza perdere mai il focus di una storia centrata sulla spietatezza dei bianchi nei confronti di un popolo, come quello Osage, gentile e puro, e per questo ancor più incline ad inganni e vessazioni. Impossibile da incasellare con precisione all’interno di un genere, Killers of the Flower Moon è forse il film più duro che Scorsese abbia mai diretto negli ultimi anni nonché il più completo e riuscito.
Giada Farrace
Adattare di nuovo una storia che il grande pubblico conosce a menadito oltre che essere un azzardo sconsiderato è anche una sfida nei confronti dei critici più severi. Ripley è la prova, pertanto, di come a volte sia necessario oltrepassare i pregiudizi nei riguardi della serialità e di quel sistematico spirito rimodellante che è il tratto distintivo di Netflix. Diretta da Stevan Zaillian, regista di Tutti gli uomini del re e The night of, la miniserie che ha come protagonista il discusso e controverso Tom Ripley si sviluppa in otto episodi giocando inizialmente alla sottrazione per poi decollare senza indugi verso un intreccio pieno di ritmo. Dietro la camaleontica e oscura maschera di Ripley si cela il volto garbato e confortante di Andrew Scott, in questo caso perfetto se si parla di phisique du role e di un personaggio come quello di Tom Ripley, sleale e irrazionalmente beffardo. La vicenda ha inizio nella New York degli anni Sessanta, dove Tom Ripley vive alla giornata gestendo piccoli affari loschi fatti di truffe e lavoretti sporchi ai danni del prossimo. Un giorno all’interno di un bar, Tom viene avvicinato da un investigatore privato il quale gli fa un’offerta allettante scambiandolo per un’altra persona. Ripley dovrà recarsi in Italia per rintracciare il figlio di un facoltoso uomo d’affari, fuggito dalla noiosa routine alto borghese in cerca di ozio e maggiore libertà nel belpaese. Giunto nella beata Costiera Amalfitana, il protagonista entrerà in contatto con un ambiente scandito da agi e benessere finendo per diventare amico del giovane rampollo americano, ma soprattutto ritrovandosi poi a gestire quella che diventerà una situazione di inganni e omicidi. Sebbene i primi episodi denuncino un certo indugio nella descrizione più che nell’esecuzione, cedendo il passo sovente a sequenze troppo estese e perse nel contorno (di indubbio incanto), la serie, procedendo per gradi, riesce a disporre tassello dopo tassello un perfetto enigma dosando con dovizia di particolari digressioni e grandi momenti di impatto emotivo. Impossibile rimanere indifferenti alla fotografia curata da Robert Elswitt, il quale ha da subito accordato la scelta del bianco e nero fortemente voluta da Zaillian con l’intenzione di stabilire come punto focale dell’inquadratura il volto di Scott, in questo caso interiorizzato dall’immagine. Una scelta stilistica brillante e addizionata che ci culla in un’atmosfera onirica in netta collisione con le sequenze più crude e spietate. Menzione a parte merita la prova di Andrew Scott, mai scelta più adeguata, qui al suo splendore massimo, abile come pochi nel saper transitare con disinvoltura da vittima a carnefice, donando al personaggio quel chiaroscuro morale che fa da contraccolpo all’estrema difficoltà di farcelo odiare completamente.
Giada Farrace
E’ sempre appianato il percorso di chi decide di narrare una pagina spinosa della storia del nostro paese appellandosi agli stilemi del classico racconto drammatico, rifacendosi magari alla vecchia scuola del cinema d’indagine. Meno facile è invece portare sullo schermo quello stesso fatto di cronaca partendo dal basso, dal dramma individuale, scegliendo quasi i toni della commedia. Perché con Palazzina Laf Michele Riondino supera il varco del genere drammatico e anche quello della ricostruzione analitica, dispiegando una storia di difficile nomenclatura per la sua natura di ibrido tra commedia amara e dramma ironico. I presupposti fermandoci anche soltanto all’impianto narrativo ci sono tutti per convincere della riuscita di questo piccolo film(che piccolo poi non lo è affatto) e delle capacità registiche di Riondino. La vicenda è ambientata negli anni novanta, più precisamente in quel delicatissimo momento in cui l’Ilva di Taranto, dopo la privatizzazione passò in gestione ai Riva. Attraverso la storia di Caterino La Manna (Michele Riondino), uno dei tanti operai all’acciaieria, si ripercorre quella pagina tormentata e dolorosa all’interno della fabbrica, un momento storico che lasciò un segno indelebile per le vite di chi vi lavorò e per tutti quelli che finirono per ammalarsi fatalmente a causa delle inalazioni di amianto. E’ una Taranto che fa solo da sfondo quella raccontata da Riondino, dove non c’è spazio per il colore, per il mare o la spensieratezza. Ingaggiato da un insidioso dirigente (Elio Germano) per tenere d’occhio e spiare tutte i movimenti sindacalisti nel ventre della fabbrica, La Manna finisce per fare carriera e conquistarsi (come molti) una promozione ai piani alti, arrivando alla Palazzina Laf. Ma, qui c’è poco spazio per l’entusiasmo, dal momento che La Manna approda in un non luogo, nella fattispecie un edificio realmente esistito in cui venivano confinati tutti gli operai aventi un profilo altamente specialistico. Un ricatto ad opera della direzione (prima forma ufficiale di mobbing sul luogo di lavoro in Italia) la quale stabiliva chi fosse sgradito. Da quel momento in poi le alternative per chi finiva nella lista nera erano due: accettare di fare gli operai senza alcuna formazione oppure finire in un’ala dello spazio siderurgico adibita a pseudo ufficio dove passare le ore di lavoro senza uno scopo preciso, in un perenne stato di inattività logorante. L’oblio, il fardello della noia, rendevano la vita di queste persone insostenibile tanto da farli precipitare in una spirale di alienazione e smarrimento. Ma come ogni cosa, anche questa situazione ai limiti dell’assurdo conoscerà la parola fine con l’arrivo di controlli e ispettorato del lavoro grazie ad una soffiata in procura. E’ un’Italia che conosciamo purtroppo molto bene, le cose in fondo non sono poi tanto cambiate nel corso degli anni, ma la maggiore consapevolezza verso temi così scottanti e pericoli irreparabili per la salute dei cittadini, hanno portato a dibattere e lottare per la chiusura di realtà di un sistema malato e carnivoro. Riondino punta la lente d’ingrandimento sul profitto del singolo e su quanto esso abbia pesato a discapito del benessere della collettività. Una tragedia quella dell’Ilva che si perpetrò negli anni senza concludersi definitivamente dopo il processo, ma lasciando stigma profonde in tutti coloro che si ammalarono fisicamente e psicologicamente. Palazzina laf è una riflessione toccante e originale, su vita e lavoro, non di meno sul valore sociale che riveste il mezzo cinematografico quale strumento di analisi e conoscenza per le generazioni attuali e future.
Giada Farrace