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The Party

Lunedì 27 Febbraio 2017 22:27
The Party porta brio e caffeina nel grigio e spento Febbraio berlinese. Dopo una serie di deludenti film in concorso, questa black comedy girata in bianco e nero, della durata esigua di 71 minuti, risulta essere l’opera più interessante. Sferzante e tagliente al punto giusto, ci sveglia dai nostri sonni sulle poltrone del Berlinale Palast. Perché il film diretto e scritto dalla britannica Sally Potter maschera per poi rivelare, con un ritorno al punto di partenza disseminato di segreti che vengono a galla, che scioccano e divertono all’ennesima potenza. 
 
Il film si apre col botto per poi rilassarsi. Il luogo della festa/cena è la casa di Janet (Kristin Scott Thomas) e Bill (Timothy Spall). La coppia riunisce gli amici più cari per festeggiare una vittoria politica. I primi ospiti ad arrivare sono April (Patricia Clarkson) e Gottfried (Bruno Ganz). Acidissima lei e aroma-terapista lui. Da subito si capisce che Bill ha qualche problema, indifferente alla parole di Gottfried, si posiziona al centro della stanza intenzionato a bere fino ad ubriacarsi e ad ascoltare musica mista proveniente dal suo adorato vinile. Le donne sparlano a più non posso quando vengono disturbate dal suono del campanello: sono arrivate Martha (Cherry Jones) e Jinny (Emily Mortimer), lesbiche in attesa di ben 3 figli. Il loro arrivo alza l’asticella dell’inquietudine. L’ansia si fa largo tra i commensali, esplodendo copiosa quando fa il suo ingresso in scena Tom (Cillian Murphy). Sarà quest’ultimo che accenderà la miccia della bomba che nessuno vorrebbe far dipanare, ma che tutti sanno essere pronta alla detonazione. La frenesia e l’irrequietezza di Tom, facile alla cocaina, portano dritti alla rivoltella che tiene nascosta sotto la giacca e da qui in poi vi lasciamo il piacere di scoprire con i vostri occhi il circus che ne divamperà.
 
Maldestramente escluso dai premi della Berlinale edizione 67, The “theatrical” Party, non solo The Party, perché abbiamo a che fare con il teatro che incontra il cinema, è un film con tanta forma e sostanza. Un grande conflitto borghese in un piccolissimo spazio, quattro mura che uccidono e divertono allo stesso tempo. Sally Potter ci regala dialoghi frizzanti al vetriolo ed una regia robusta e omogena. Chiusi in un salotto, dove non proviamo claustrofobia, libera l’estro dei protagonisti, che offrono prove attoriali di assoluto livello. L’autrice inglese ci offre un film che potrebbe gridare al déjà vu. Con mano graffiante riesce a scardinare gli stereotipi ad esso legati, attualizzandolo e portandolo da film da camera a film con vista sul mondo, focalizzandosi sulle sue mode ed ideali. Lo spettatore è su un’altalena: si alternano tragedia e humor, rendendo così The Party godibile e per nulla banale. L’ascesa dei personaggi, che fanno in mille pezzi la proprie maschere, è travolgente e schizzata. Nevrosi che esplodono in un salotto, nel quale si sentirebbe a suo agio anche Woody Allen. 
 
Con un azzeccato bianco e nero, omaggio a Hitchcock ed al cinema noir, le espressioni sui volti assumono sfumature diverse, più marcate e di conseguenza il messaggio arriva forte e chiaro.  Il film della Potter è la realizzazione dell’incubo di Perfetti Sconosciuti. Innovativo ed in parte assimilabile all’egocentrico Birdman, The Party è la fiera della mezza età e delle sue frustrazioni. Si battagliano: gli oggettivi contro gli spirituali e gli indifferenti in lotta con i concettuali. Questo loro farsi male per davvero è la cosa che funziona di più.
 
La regista di Orlando (1992) sceglie l’anno della Brexit per l’uscita del suo The Party. Sarà un caso? Il dilemma: restare (amare che fa rima con fedeltà) o uscire (tradire), calza veramente a pennello. 
 
 
David Siena

Tre manifesti a Ebbing, Missouri

Giovedì 11 Gennaio 2018 12:17
Pensate ad un orologio, alla sua complessa perfezione. Ogni minuscolo o gigantesco ingranaggio posizionato a regola d’arte, in maniera da far girare l’intero meccanismo senza nessuna sbavatura. Non esita, guarda solo avanti. E’ l’emblema del realismo che non fa sconti a nessuno. Durante una vita intera, le lancette (persone) si sfiorano, si sovrappongono, si allontanano per poi rincontrarsi e pensarla allo stesso modo. Tutto questo prende vita nel capolavoro dal titolo: Three Billboards Outside Ebbing, Missouri. Presentato in concorso all’ultimo Festival di Venezia, il film scritto e diretto da Martin McDonagh (In Bruges, 7 psicopatici), si porta casa il premio per la miglior sceneggiatura. Un cinema feroce ed appassionante, senza esclusione di colpi. Uno dei lavori più riusciti del 2017. 
Se un errore clamoroso, come quello della busta del miglior film agli ultimi discussi premi Oscar, dovesse malauguratamente ricapitare, speriamo che sia a favore di quest’opera completa, che con la sua sfrontatezza rapisce. Capace di navigare tra i generi con assoluto equilibrio, strizzando l’occhio addirittura agli anarchici stilemi western.  
Mildred Hayes (Frances McDormand) è stanca di aspettare giustizia. La figlia è stata brutalmente stuprata ed assassinata. La polizia, dopo mesi di indagini a vuoto, è a un punto morto. La reazione della madre arriva come un treno in corsa, provocando un clamore senza precedenti. Sagace come la più astuta delle volpi, affitta tre cartelloni pubblicitari appena fuori la cittadina di Ebbing in Missouri. Nessuno al mondo gli proibisce di sfogare la sua rabbia a caratteri cubitali: “Ancora nessun arresto?”, “Come mai, sceriffo Willoughby?”. I media si mobilitano e l’onda d’urto copre di vergogna le forze dell’ordine locali. L’apprezzato capo della polizia di Ebbing (Woody Harrelson) cerca di aprire un dialogo proficuo con Mildred, ma l’ingresso nella vicenda dello stolto vicesceriffo Dixon (Sam Rockwell) scatena esponenzialmente l’ira della madre. Ha inizio così una battaglia, che può essere paragonata ad una zuffa da saloon. Dove nulla è risparmiato e l’incompetenza di certi personaggi non può più essere tollerata.
Three Billboards Outside Ebbing, Missouri è fresco di onorificenze. Vincitore di 4 Golden Globes nelle categorie più prestigiose: Miglior film drammatico dell’anno, attrice protagonista (Frances McDormand), attore non protagonista (Sam Rockwell) e miglior sceneggiatura. Premi che aprono la strada per altri premi, giusta consacrazione per un film che non nasconde nulla, anzi, la sua bellezza sta nel viaggiare fuori dai limiti e sorprendentemente riuscire a reggere il tutto.
Vi troverete a chiedervi se state assistendo ad una black comedy. Questo termine. affibbiato con troppa facilità al film di McDonagh, è riduttivo e non rende giustizia alla vera essenza di Three Billboards. Pellicola tanto drammatica quanto commedia, ma la sua ironia non è solo graffiante. C’è un velo di malinconia che copre le vite dei personaggi: verità nelle situazioni, grande realismo e qualcosa di più. Un acceso conflitto tra le parti che cercano entrambe il Bene. Nessuno dei due schieramenti è veramente il male. Si scontrano rabbiosamente nella ricerca di speranza, guardando verso un mondo migliore. Nessuno dei due ha torto o ragione. Vengono messi in scena così i paradossi dell’esistenza. Allora come schierarsi? Non c’è un vero giusto, c’è solo la forza di lottare per operare al meglio. 
Diretto con una freschezza e dinamicità senza paragoni, Three Billboards è un film potente. Ha uno sviluppo da film teatrale (come il suo autore), ma è cinema vero e originale. 
Pubblicità anima del commercio e qui anima scalpitante del film, che tutto smuove: le coscienze con i sensi di colpa che ne conseguono. Si aprono scenari ed ancora scenari. Sorprese e incubi, che sono parte di questo mondo.
I dialoghi sono memorabili, come gli energici cambi di registro. La coinvolgente narrazione è basata sulle scelte che fanno i personaggi. Mordacità, decisione, sfrontatezza, sicurezza, ignoranza, amore, consapevolezza e dolore sui volti e nelle anime dei protagonisti sono un pot-pourri di sentimenti e sensazioni, che elevano la drammaturgia a qualcosa di mai visto prima.
Prove attoriali eccellenti, su tutti Frances McDormand (donna della classe operaia con un carattere alla John Wayne) e Sam Rockwell (il suo Dixon è villano al punto giusto e inquadra alla perfezione l’americano medio). Personaggi ricchi e completi. Eroi ed antieroi. Estremamente umani.
In uscita nelle sale cinematografiche proprio in questi giorni, il film di McDonagh, come già sviscerato, non è solo un fermo immagine delle problematiche ataviche che tormentano il sud degli Stati Uniti; anzi, per certi versi sembra quasi fregarsene di tutto questo. E ’un film lontano da inutili moralismi, che ha forti similitudini con il profondo Manchester by the sea (Oscar miglior sceneggiatura originale 2017). Una pellicola gestita con rigore. Assolutamente da non perdere. Si fa ricordare anche per la strepitosa colonna sonora, in salsa yankee, di Carter Burwell (Carol).
 
David Siena
 
 
 
 
 
 

Figlia Mia

Giovedì 22 Febbraio 2018 10:16
Probabilmente il significato caldo e profondo di Figlia mia sta tutto nel ritornello di una canzone vintage di Gianni Bella: Questo amore non si tocca. Il brano è lo spartiacque che divide il film in due sezioni ben distinte: la prima parte narrativamente lenta e dove si pianificano scaltramente degli obiettivi, la seconda parte più vivace ed emotivamente carica, Nel centro c’è la performance canora. E’ questa la granata esplosiva che scuote il viaggio in solitudine di due madri, che si contendono una figlia innocente a suon di ripicche e colpi bassi. Figlia mia è un’opera solare, ma allo stesso tempo piena di ombre, di antri oscuri e di cunicoli infiniti, dove è meglio abbandonare per sempre quel senso di possesso, che inibisce il significato stesso di madre ed imprigiona la prole in un loop depressivo e non edificante. Amore non è dominare e Laura Bispuri, per la seconda volta in concorso al Festival di Berlino dopo l’intenso Vergine Giurata (2015), ci regala una parabola arcaica e fisica, che cerca di sconfiggere questo sentimento scorretto.
 
Nello scheletrico e spigoloso paesaggio della Sardegna assistiamo ad un’accesa diatriba tra due donne allo stesso tempo complici e rivali: Tina (Valeria Golino) ed Angelica (Alba Rohrwacher). Due madri che hanno come soggetto la piccola Vittoria (Sara Casu), di soli 10 anni. La prima è una madre modello, sempre pronta a soddisfare i bisogni della figlia, annullando addirittura il suo essere donna. La seconda (madre naturale), di contraltare all’acqua santa, è il diavolo. Essere debole che non tiene alla propria vita, data perennemente in pasto all’uomo. Vittoria, alla nascita, viene data in affidamento a Tina. L’accordo, solo verbale, viene spezzato quando Angelica sente il richiamo forte di una repressa maternità. La ragazzina è contesa tra le due madri, che adesso, non volutamente, arrivano anche a ribaltare i propri ruoli. Vittoria vivrà momenti dubbiosi ed incerti, che gli faranno percorrere una strada irta e tortuosa nel raggiungimento di un traguardo inaspettato, che gli cambierà per sempre la vita.    
 
I presupposti per uscire dalla kermesse tedesca con qualche premio c’erano tutti, peccato per le due interpreti principali, Golino e Rohrwacher, la loro prova attoriale è profondamente drammatica quanto il vero tormento di queste madri. Purtroppo il film esce a mani vuote dalla Berlinale edizione 68, dove avrebbe potuto strappare un premio ex-equo come Miglior Attrice.
 
Laura Bispuri dirige con mano autarchica. La sua macchina da presa segue maniacalmente le tre protagoniste per buona parte del film. Questa caparbietà ed intimità scova l’essenza primitiva delle 2 madri, donne difficoltose che perdono parte di se stesse per stare con la figlia. Questo scavo è il cuore della drammaturgia, dal quale ne conseguirà la crescita dei personaggi. Percepiamo il loro spogliarsi delle troppe stratificazioni, culminando, grazie a Vittoria, in un rinnovamento difficoltoso, ma necessario. 
Pellicola esclusivamente al femminile, in un film dove l’uomo conta meno di zero. Il marito di Tina è un salmone, che non va neppure controcorrente. 
Figlia mia a conti fatti è un film riuscito e consapevole. Pregevole è anche non calcare sul moralismo, visto giustamente, che quello non vuole essere il centro focale del film. Piccole sbavature sono evidenziabili in qualche forzatura e nell’eccessivo uso di simbolismi. E’ il classico film che può essere commentato nel più comune dei cineforum. Quest’ultima affermazione non vuol essere al negativo, anzi è sinonimo di nascita di riflessione e commenti: indagare sul significato di maternità.
 
I figli sono di chi li fa o di chi li cresce? Qui sicuramente di entrambe. E Vittoria in un trepidante finale (che vive con pathos anche lo spettatore) si eleva anche lei a madre, consapevole di poter crescere un passo alla volta e ci dice senza fronzoli: togliamoci di dosso gli abiti vecchi e logori di tristezza e guardiamo avanti, ripuliti e perché no sorridenti. Il percorso è appena cominciato, ma il vigore e la tenerezza di quest’ultima scena danno già l’idea di una rinascita alla portata delle tre donne. Si perché ora Vittoria è donna.
 
Di David Siena
 

Jupiter's Moon

Giovedì 25 Maggio 2017 21:00
Jupiter’s moon è ambientato nei giorni nostri e tratta parecchi temi, forse troppi. Uno di questi è di caldissima attualità: il problema profughi. La terra promessa, in questo preciso caso, è l’Ungheria. I clandestini faticano non poco per varcare il confine. La maggior parte vengono scoperti e fucilati senza pietà. In questo clima di rappresaglia e di odio, Aryan (Zsombor Jéger), giovane siriano in cerca di salvezza, è sul punto di entrare illegalmente nel paese. Ma qualcosa va storto e durante un inseguimento viene ferito a morte. Di lì a poco si risveglia miracolosamente e scopre di poter levitare. Aryan viene portato in un campo profughi dove il Dottor Stern (Merab Ninidze), affascinato dalle sue doti mistiche e vedendo il lui la possibilità di fare parecchi soldi, lo aiuta a fuggire. La loro sarà una fuga colma di imprevisti. Laszlo (György Cserhalmi), il direttore del campo, gli starà perennemente alle costole, convinto di poterli acciuffare e sbatterli in gatta buia. Il Dottore, persona corrotta e pronta a tutto per soddisfare i propri interessi, sa a chi rivolgersi per guadagnare denaro con i miracoli del giovane siriano. La corruzione sporca e becera e la fede religiosa, che qui si confonde troppo con il fantastico, sono gli altri aspetti alla base del nuovo lavoro di Kornél Mundruczó. La sua Luna di Giove, che realisticamente si chiama Europa, è una terra promessa irrimediabilmente compromessa. 
 
Questa strana parabola fa parte del concorso ufficiale del Festival di Cannes 2017. Il suo autore, nel 2014, vinse il premio per il miglior film nella sezione Un Certain Regard, con White God – Sinfonia per Hagen. Una specie di favola dai risvolti inquietanti, che aveva come tema di fondo il maltrattamento e l’abbandono dei cani. Se 3 anni fa uscì dal Festival francese con il plauso di aver dato un’originale vetrina ai diversi, lo stesso non si può dire per il suo Jupiter’s moon: opera pesante, confusionaria e ricattatoria.
 
Mundruczó spinge lo spettatore a riflettere su qualcosa di profondo, ma solo lui trova la profondità. La sua bussola si spinge oltre i normali punti cardinali. Punta con eccessiva presunzione verso l’alto, in tutti i sensi. La mescolanza dei generi: oggettivo (aspra denuncia verso il suo popolo decomposto e marcio) e immaginario (uomo risorto come angelo che porta alla redenzione) non funziona. È lodevole la ricerca di una morale costruttiva, ma il suo modus operandi è accartocciato su se stesso e troppo ambizioso. 
Il regista pretende oltre la misura consentita, volendo dare alla religione o a chissà quale potere superiore, il compito di significare l’unica via d’uscita per il genere umano, ormai relegato a virus che infetta tutto quello che trova sulla sua strada (la sua Budapest è descritta come l’inferno in terra).
 
Ed è proprio da questa descrizione che si tirano fuori gli unici punti a favore della pellicola. Uno sguardo presente, pronto e scattante sulla contemporaneità della città. Il viaggio del medico (il vero protagonista) nelle strade della capitale ungherese è ben diretto. La camera da presa sta appiccicata ai personaggi, li insegue senza sosta. Dinamicità e soggettività ben mixate. Entra nella vita delle persone: ottima la carrellata dall’alto verso il basso di un appartamento. Qui la regia è estremamente esplicativa e curata. 
 
A conti fatti Jupiter’s moon si può ricordare solo per qualche buon spunto tecnico, che almeno delinea con realismo i contorni di un paese, che ascolta solo il richiamo dell’immoralità. Non c’è spazio per una redenzione vera e propria. Del resto, l’esagerata carne al fuoco è chiaramente gestita male. Parte si brucia e parte non si capisce bene com’è cotta.
 
David Siena
 

Radiance (Hicari)

Venerdì 26 Maggio 2017 21:08
Masaya (Masatoshi Nagase), che di professione fa il fotografo, discende verso una cecità senza speranza. Per integrarsi con il mondo dei non vedenti partecipa a proiezioni di film, dove una giovane interprete di immagini, ne descrive le scene. Questo ruolo spetta alla sensibile Misako (Ayame Misaki). Il suo compito non è solo quello di esprimere oggettivamente, ma di riuscire con realismo, nell’arduo compito di trasmettere le emozioni ed i sentimenti, che sono presenti all’interno dalla pellicola. Per lei il suo lavoro è tutto. Questa sua passione gli permette di interagire nel profondo con Masaya, scoprendo le sue fotografie ed il suo sguardo. Tra di loro nasce un intimo e sussurrato rapporto, che permetterà ad entrambe di trovare la luce. Assaporeranno insieme l’abbagliante e calda luminosità della vita e dell’amore, fino ad allora reclusa nell’oscurità. 
 
Nel giorno dei festeggiamenti di Cannes 70, il concorso viene aperto da Radiance, l’ultimo e delicato lavoro della regista giapponese Naomi Kawase. (Le ricette della signora Toku – 2015). Il film è basato sui sensi e sul loro potere, e su come sia difficile accettare di perdere una parte di noi stessi.
Ancora una volta il suo cinema è contraddistinto da un lirismo pronunciato. Alle due stelle della valutazione critica andrebbe aggiunta una mezza stella. A conti fatti il film è ben curato, la messa in scena è capillare e la fotografia si armonizza finemente con gli argomenti trattati. Le note dolenti risiedono in una regia che segue il dramma e l’improvviso amore con troppo incanto. Le inquadrature intime ed i movimenti della macchina da presa sono leggeri come il battito delle ali di una farfalla, ma a questa morbidezza manca un po’ di entità. Sostanza che non ritroviamo neppure nella narrazione, complice anche la poca originalità ed un bagaglio di retorica oltre il peso consentito. Radiance ha una storia semplice, non per questo parte svantaggiata, ma ha qualche esitazione di troppo e le emozioni presenti rimangono incollate ai protagonisti e meno al pubblico.
 
L’autrice e sceneggiatrice nipponica realizza un film simile ad una canzone, peccato che i ritornelli non possano diventare un tormentone. Nelle foto di Masaya e nei frames raccontati dalla perseverante Misako troviamo il cuore dei protagonisti, peccato che il tutto sia troppo convenzionale. Momenti chiave insipidi dove la ricerca del primordiale è esente dallo stupire.
 
Radiance lascia l’amaro in bocca. Il linguaggio usato nella sua forma metacinematografica, mixato con la poesia, è sicuramente ben calibrato, ma eccessivamente semplicistico. Anche la metafora dominante della luce è proprio basica. Infine troviamo anche un commento musicale sproporzionatamente invasivo. La   sensazione nel finale, che la foto di se stessi sia a fuoco e nitida può anche essere legittimata, ma il percorso che intraprende nella camera oscura è incompleto e manca di un concreto colore.
 
David Siena

Loveless

Sabato 27 Maggio 2017 21:15
Boris (Aleksey Rozin) e Zhenya (Maryana Spivak) sono una coppia che non ha più nulla da dirsi. Anzi, quello che esce dalle loro bocche fa solo male al piccolo Alyosha (Matvey Novikov). Prossimi al divorzio, visto che entrambe hanno già nuovi rapporti, sono alle prese con la vendita della loro casa. Nessuno dei due presta molta attenzione al figlio e l’affidamento sembra essere un peso per entrambe. Zhenya è concentrata sul suo nuovo partner, che sembra in procinto di chiederle la mano e Boris si è già portato avanti, visto che la sua giovane compagna è in dolce attesa. In questo sontuoso egoismo, il dodicenne Alyosha scompare. Variabile che nessuno ha messo in preventivo. Iniziano ricerche su larga scala per ritrovare il ragazzino. In Loveless l’esplorazione non è solo materiale, ma anche nelle coscienze dei genitori. Monografie terribili che stanano l’arrogante individualismo, neppure così tanto velato, che è parte viva e consenziente dell’uomo contemporaneo.
 
Dopo il meritato successo di Leviathan (premio alla regia qui a Cannes nel 2014 e Golden Globe come miglior film straniero nello stesso anno), Andrey Zvyagintsev torna in concorso al Festival di Cannes. Il regista russo si ricorda anche per il suo colpo di fulmine: il Ritorno, vincitore del Leone d’Oro a Venezia 2003. Ed ancora una volta lascia il segno, Loveless si aggiudica il Premio della Giuria. Fin da subito possiamo affermare che avrebbe meritato qualcosa di più. Il cineasta russo confeziona una nera parabola sull’amore e sul non prendersi cura di nessuno, neppure di se stessi. Lascia il dramma mitologico per il dramma famigliare, anche se l’amore può essere inteso come utopia, soprattutto nella nostra epoca, dove ha perso il suo vigore. Ora più che mai sentimento effimero paragonabile ad un selfie.
 
La sua è una regia compatta, spietata e cinica, che trasmette un angosciante senso di vuoto e paura, in grado di scavare nel profondo. Si sofferma sui momenti più drammatici, rimane lì per creare scompiglio. Scruta attentamente i protagonisti e le loro reazioni davanti al male. Scene strazianti che entrano prepotentemente nella carne dello spettatore. Nella più rappresentativa, gioca con il bene ed il male, relegandoli nel fuori campo, creando così una sorta di ambiguità. Il risultato che ne consegue è potentissimo, come un pugno alla bocca dello stomaco. Tutto chirurgicamente incorniciato da un registro rigoroso, privo di punti deboli e sbavature.
 
Zvyagintsev, come sempre, trova anche lo spazio per criticare la propria madre patria. Russia che sembra guardare avanti, ma che si ferma volentieri ancora sui propri ideali.  Sotto testo che cammina a braccetto con le vicende di questa sfasciata famiglia. Non possiamo dimenticare di elogiare, come fiore all’occhiello di Loveless, la sua splendida fotografia. Le gelide immagini della maestosa natura che ci circonda aprono e chiudono il film, come fu anche per Leviathan. Madre sovrana che regna sul piccolo e misero mondo dell’uomo. Cosmo innevato e puro, fatto di calmi ruscelli, non corrotto dalla soggettiva natura dell’uomo, che allo stesso tempo è affine al freddo che domina le nostre anime.
 
Il moralista e viscerale Loveless presenta, come una unica pecca, qualche piccolo difetto di sceneggiatura. Per raggiungere il suo scopo si priva di alcune logicità e determinate situazioni risultano un po’ al limite. 
Gli si può perdonare perché la pellicola riesce nel suo scopo: maltrattare l’amore con un riuscita prepotenza scolpita a freddo nell’animo dei protagonisti. Qui le radici (nucleo famigliare) sono veramente spezzate.
 
David Siena
 

The Killing of a Sacred Deer

Mercoledì 24 Maggio 2017 21:22
Il brillante cardiochirurgo Steven (Colin Farrell, qui a Cannes anche con The Beguiled di Sofia Coppola) decide di prendere sotto la sua ala protettrice il giovane Martin (Barry Keoghan, che tra poco vedremo in Dunkirk di Chris Nolan). Il loro è un rapporto strano, un alone di mistero lo avvolge. L’adolescente pian piano si fa largo all’interno della famiglia del medico, ed il dottore stesso viene invitato a casa del ragazzo. Improvvisamente qualcosa di inspiegabile capita a Bob (Sunny Suljic), figlio di Steven. Nessuno riesce a capire cosa stia succedendo, in quanto il ragazzino sembra essere perfettamente sano. Da qui in poi le parole, che sarebbero spoiler, si fermano per lasciare spazio alla disamina critica. The Killing of a Sacred Deer è un film da scoprire in un crescere di suspense attanagliante. L’ultima fatica del regista Yorgos Lanthimos è inquietudine allo stato puro. 
 
Al Festival di Cannes 2015 il suo The Lobster si portò a casa il Premio della Giuria. Anche in questa edizione non rimane a bocca asciutta. Ex aequo con You Were Never Really Here di Lynne Ramsay, l’autore greco vince il premio della miglior sceneggiatura, scritta con Efthymis Filippou. Ed è proprio da qui che partiamo, da un soggetto ispirato alla mitologia greca: la dea Artemide che si vendica con Agamennone per aver ucciso un cervo a lei sacro. Su questa base si articola la geometrica scrittura di quest’opera tanto originale quanto angosciante. Script lineare che si sviluppa su un unico strato temporale, in grado di cambiare con disinvoltura registro, spostando il campo gravitazionale su gag feticiste e grottesche, senza mai far cadere la tensione. Anzi, le stranezze ed i rapporti ambigui amplificano il senso di disagio nello spettatore. Tutto diviene estremamente horror. Splendidamente codificato ed articolato. In più ci si mette una regia che si concentra su inquadrature a 180°, che inglobano i protagonisti all’interno degli ambienti. Quest’uso eccessivo diventa disturbante da poter essere paragonato agli avvenimenti proposti. Tutto fa atmosfera: la vera forza di The Killing of a Sacred Deer.
 
Direzione artistica potente e compiaciutamente distorta che incolla allo schermo in un’ascesa verso la sacralità e l’espiazione dei propri peccati. Diventa film di genere, del tutto decifrabile e spiccatamente moralista, ma per nulla scontato. Non mancano i tratti stilistici di Lanthimos: immagini atte ad impressionare, come il cuore aperto della primissima inquadratura o il sangue mistico di Bob. Forma che si incolla alla colpevolezza ed innocenza dei personaggi. Colpa ma non dolo, sottolineata anche da un commento musicale che taglia come un bisturi. Ti apre senza pietà potenziando la drammaticità della sceneggiatura.
 
L’ansia che ti prende lo stomaco è tremenda, complice un cast glaciale, che si armonizza con le intenzioni dell’autore. Su tutti Anna (Nicole Kidman, quest’anno con ben quattro film sulla Croisette), moglie di Steven, la sua è un’interpretazione energica, ma calibrata. Il suo sguardo si adatta ad ogni situazione, all’occorrenza deciso o sterile. La semplicità di passaggio è sinonimo di padronanza e grandezza attoriale.
 
Lanthimos si lascia andare solo nel finale. Il suo orologio infernale stecca solo verso la mezzanotte. L’ultimo rintocco non è che non realizzi in suo scopo, li ci è arrivato con largo margine. Una vetrina finale un po’ troppo compiaciuta stride con il resto della giostra. Palio infernale che sarebbe piaciuto anche al puntiglioso, ma geniale Stanley Kubrick.
 
David Siena
 

The Happy Prince

Giovedì 22 Febbraio 2018 13:31
E’ parecchi anni che Rupert Everett ha in mente di girare un film su Oscar Wilde. Addirittura si mormora che abbia blindato Colin Firth per il personaggio di Reggie Turner, ancora prima dell’Oscar e della fama, che ha investito il protagonista del Discorso del Re. Quindi ci si aspettava un’opera riuscita o comunque che facesse buona luce sugli ultimi giorni di vita dell’immenso artista irlandese. Purtroppo la scrittura e la regia di Everett, che interpreta lui stesso Wilde, è confusa. Visione ridondante e a tratti un po’ stucchevole. La sua non dimestichezza con la camera da presa si nota fin troppo. Il mix viaggio mentale e presente (i due strati narrativi del film) imprigionano nuovamente lo scrittore, come nella pellicola stessa, in un loop oscuro e sinceramente non edificante. I raccordi registici non sono il suo forte. Per carità, raccontare la depressione comporta già di per sé l’immersione in un contesto greve, ma l’eccessivo uso di ricami sconfortanti, non rendono grazia all’indiscussa purezza d’animo del drammaturgo, scomparso nel 1900.
 
The Happy Prince ci immerge, come appena accennato, nel periodo finale della vita di Oscar Wilde. Lasso di tempo contrassegnato dall’esito negativo del processo a suo carico per “gross public indecency”. Con questo termine veniva identificato il procedimento penale contro l’omosessualità. Condannato a 2 anni di carcere, Wilde ne esce a pezzi. Tutto il successo avuto in passato viene spazzato via in un lampo. Il suo teatro bandito e soltanto dei frammenti del suo genio lo aiutano a barcamenarsi tra pochi intimi. A Parigi, dove si è trasferito dopo la prigionia, riesce ad allietare le giornate e gli animi di due poverelli con delle fiabe. La moglie Costance (Emily Watson) non ne vuole più sapere e la strada che lo porta ancora una volta verso Lord Alfred Douglas (Colin Morgan), suo storico pupillo, si rivela sbagliata e non costruttiva. Tra le vie della capitale francese barcolla schiacciato da un’inaspettata povertà. Si ritrova seduto sotto la pioggia, fuori da un bar, sperduto e senza l’ombra di un soldo per pagare il conto (evento realmente accaduto). Rincasa in un albergo da quattro soldi, con il buio nel cuore, dove lo aspettano i suoi spettri e una imminente dipartita. Gli affetti di una vita gli sono vicini: Reggie Turner e Robert Ross (Edwin Thomas). Il primo grande amico, il secondo amante, entrambe lo spronano a reagire, ma Wilde è convinto che la forza della sua scrittura e l’amore legato ad essa lo possano salvare. Ma l’autodistruzione prende il sopravvento e si perde irreparabilmente in se stesso.
 
Everett non racconta con adeguata dimestichezza il personaggio Wilde. Riesce in qualche scena, quella della stazione è ben strutturata, a far intravedere l’uomo, finalmente raccontando nel profondo. Si blocca subito dopo: tante micro situazioni disconnesse tra di loro (narrazione zoppicante), della sua memoria, non creano il fil rouge adeguato. Lo spettatore deve sforzarsi a connettere le immagini, cosa alla quale dovrebbe pensare il regista. Non crea omogeneità. Il grado di nobiltà di Wilde e la sua lotta morale contro l’ingiustizia si intravedono solo in lontananza.
 
Tecnicamente troviamo qualche buon risultato. La fotografia è allineata ai colori e alle luci dell’epoca. Il punto più alto è la vista sul golfo di Napoli, resa calda e poetica. I costumi sono curati. Tutti i protagonisti indossano abiti di pregevole sartoria, che rendono grazia alla borghesia di fine ottocento.
 
The Happy Prince, dopo anni di rinvii dovuti alla scarsità di fondi, ha visto la luce grazie alla tenacia e alla passione verso Oscar Wilde di Rupert Everett. Il regista ha avuto l’ardire di sviscerare una parte dell’esistenza del poeta, poco nota al grande pubblico. Questa infelice parabola meritava qualcosa di più. Un tono più irriverente ed impetuoso, in linea con il carattere del saggista. Nella visione (annebbiata) del regista britannico, Wilde muore sì per amore, ma non ne si sente il trasporto. Anche i personaggi di contorno risultano poco incisivi e non rafforzano la causa.
 
David Siena
 

L'isola dei cani

Mercoledì 21 Febbraio 2018 16:25
Quello che non è mai mancato a Wes Anderson (Gran Budapest Hotel, Le avventure acquatiche di Steve Zissou), sue solide peculiarità, sono la propensione all’avventura (sempre un po’ stramba) e lo stretto legame d’amicizia, che lega i suoi protagonisti (tanto legati quanto inconcludenti). Anche qui in Isle of Dogs, film d’animazione con la tecnica a passo uno, questi segni distintivi non mancano. Ma la vera novità è che sono più maturi del solito, meno distratti e la friendship (con i cani è resa nella sua più naturale essenza) porta a risultati finali concreti. Cosa che nella filosofia andersoniana è atipica. Il genio nerd del Texas apre un’età adulta del suo cinema? Sembra questa la via: più concentrata e positiva, che chiude con l’ottenimento del risultato. La sua isola dei cani apre il Festival di Berlino 2018 e non ne esce a mani vuote: Orso d’Argento per Miglior regia. Non tutto è mutato, la macchina da presa trova sempre la giusta armonia con la gradita ostentazione di Anderson per la precisione. Non sbaglia una scena e ci regala, con tagliente ironia, una storia originale di cani bistrattati, che finalmente non la mandano a dire. Il regista, che qui scrive e co-produce, ha affermato che per la sua visione di questa isola dai motivi oriental-western ha preso ispirazione dai film di Akira Kurosawa e dagli speciali televisivi natalizi.
 
2037, Giappone. L’umanità condivide il pianeta con animali umanizzati. I cani crescono esponenzialmente di numero, portando così sulla terra una sconosciuta e spaventosa malattia canina. Il sindaco della città di Megasaki decide di tutelare la popolazione umana confinando i cani in un’isola dedicata, dove vige la sporcizia. Ma il giovane Atari Kobayashi (Koyu Rankin) non accetta di perdere per sempre il suo affettuoso amico Spot (Liev Schreiber presta la sua voce al cane). Intraprende così una missione di recupero con un minuscolo aereo fino all’isola dei cani. Ad attenderlo troverà un branco di bastardelli capitanato da Capo (Bryan Cranston), che è il faro della banda composta da: Boss (Bill Murray), Rex (Edward Norton), Duke (Jeff Goldblum) e King (Bob Babalan). Il gruppetto di reietti vede nel ragazzino la possibilità di sfuggire dalla prigione in cui miseramente vivono. Insieme uniscono le forze e partono per un’avventura coraggiosa alla ricerca di Spot. Purtroppo però Atari è braccato dalle forze dell’ordine, che lo cercano per riportarlo sulla terra ferma ed interrompere la sua folle idea. I meticci lo proteggono come se fosse l’ultimo osso sulla faccia della terra e così uniti incarnano la speranza di un futuro meno nebuloso e di convivenza.
 
Isle of dogs è visivamente ineccepibile, grazie anche ad una scenografia curatissima. Animazione elevata a parificare un live action. Wes Anderson, l’architetto del cinema, riesce ancora una volta a creare un mondo immaginario attraverso il suo sguardo minuzioso e bizzarro, donando al pubblico la sua visione unica del maltrattamento dei cani, raccontata con disarmante leggerezza. I suoi contenuti non sono contaminati dal mondo esterno. Il regista americano crea dei paesaggi e contesti propri, che esaminano le incongruenze umane senza mai cadere nel cliché. Un misto di vita personale e creazione pura.
Non manca humor, anche questo anticonvenzionale, sagacemente sviscerato da un parterre de roi di attori di primo livello. Ai già sopraccitati si aggiungono: Greta Gerwig, Frances McDormand, Harvey Keitel, Scarlett Johansson e Tilda Swinton. Protagonisti che incarnano alla perfezione il personaggio tipo andersoniano: comico e drammatico allo stesso tempo.
 
Fantasiosa e ludica la mano del regista entra mirabilmente dentro quegli spazi architettonici creati dalle proprie inquadrature rigide, per estrarre un midollo sempre colorato, ma meno adolescente. In quel suo strampalato romanticismo ora si trova una vena di reale, che forse parlando di Anderson suona distorto, ma c’è e dobbiamo prenderne atto. Forse sarà l’unica volta che l’uomo Anderson mette fuori la testa, ma pensare ad una sua età adulta che strizza l’occhio al ragazzo, ci regalerebbe ancora una volta opere sfiziosamente consistenti ed autentiche come quest’ultima. Quindi più affettivo, rimanendo sempre dentro al suo stile narrativo vivace ed agitato. Concitazione che qui è palpabile grazie alla mai doma colonna sonora di Alexander Desplat. 
 
David Siena
 

Shoplifters

Sabato 19 Maggio 2018 00:15
Da qualche parte in Tokyo, Osamu Shibata (Lily Franky) e sua moglie Nobuyo (Sakura Ando) vivono una vita di stenti. Purtroppo Osamu ha solo dei lavori occasionali. La vera foraggiatrice di casa è la nonna (Kirin Kiki) con la sua pensione, ma da sola non riesce a sopperire alle molte mancanze. Perciò, per arrotondare, Osamu e il figlio Shota (Kairi Jō) si dedicano a piccoli furti nei supermercati della zona. Vizio scomodo, ma che gli garantisce la sopravvivenza. Padre e figlio sono dei maestri nel raggirare la sorveglianza e hanno anche l’ardire di prendersela con se stessi, perché si sono dimenticati di rubare lo shampoo. Un giorno trovano sulla loro strada una piccola senzatetto, la sperduta ed impaurita Yuri (Miyu Sasaki). Hanno la brillante idea di portala a casa con loro, visto che la famiglia di sangue della bambina sembra essere violenta e non molto attenta alle esigenze d’affetto della piccola. Contro ogni previsione, la piccola Yuri viene adottata dai poveri Osamu, ma questo non avviene ufficialmente e anche se per fin di bene, è dichiaratamente un sequestro. Ora il loro nucleo famigliare è più coeso che mai. Solo un malaugurato evento metterà a rischio l’integrità del legame creatosi.
 
La sinossi appena stesa è quella di una meritevole Palma d’Oro, o almeno quella di un racconto che ha messo d’accordo tutti gli addetti ai lavori. La Presidente di Giuria Cate Blanchett ha motivato così la decisione del giurì: “Siamo stati completamente travolti da Shoplifters. Le performances degli attori si sono intrecciate alla perfezione con le intenzioni registiche.” Tutto vero, perché Hirokazu Kore-eda (già vincitore del Premio della Giuria 2013 con Father & Son e molto simile a Shoplifters), che qui non solo dirige, ma scrive e cura il montaggio, ci dona un’opera dal doppio risvolto. Crime story sottosopra, vista dai buoni propositi. Lo sguardo del regista demonizza quello che per logica è male e riflette sulle conseguenze di prove di affetto in un ambiente dove i legami di sangue non esistono. La vera famiglia rimane sempre e solo quella genetica o può essere quella che ci ha veramente a cuore? La risposta arriva grazie alla messa in scena: l’intera famiglia chiusa in 4 mura, che sembrano 4 metri quadri. Lì, saldamente vicini gli uni agli altri, stretti ma uniti, unione che si eleva a felicità. Corroborato da attori genuini e sul pezzo, Kore-eda conferma le sue ottime doti di regista: spicca la forma e la facilità nella gestione di un argomento delicato come questo. Leggerezza e scorrevolezza sono il fiore all’occhiello di Shoplifters. 
 
La narrazione è corposa, ma lo spettatore non ha un compito arduo per portarla a termine. Anche grazie ad una regia dolce e classica, che mette in scena un mondo fatto di bugie a fin di bene, menzogne che comunque avranno voce e porteranno delle conseguenze. Tutto quello che la macchina da presa inquadra lo inquadra con finezza, si allontana consapevolmente dai cliché, privilegiando un realismo che riconosce i gesti quotidiani, capaci di autenticità e mai di vergogna. La telecamera del regista non viene usata per giudicare, ma per sorprendere. 
E non aspettatevi di piangere a dirotto. L’eccesso non è nel dna di Kore-eda. 
 
Il regista giapponese ancora una volta si sofferma su storie di famiglia. La pellicola vuole anche essere una piena rivalutazione dei padri e del senso di famiglia, criticati nel suo Little Sister del 2015. Shoplifters ha un non so ché di poetico tra le sue righe. Ha la grazia di una farfalla, priva di inestetismi dopo una gestazione dolorosa ed oscura. Vola tra i fiori più colorati e profumati, orgogliosa della sua bellezza. Senza preoccuparsi della difficoltà, che è insita nel vivere.
 
David Siena
 
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