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Visualizza articoli per tag: david siena
Chi te lo fa fare di tornare a casa con una famiglia così? E’ la domanda che nasce spontanea rivolta a Louis (Gaspard Ulliel), scrittore di fama mondiale, che torna dai suoi cari dopo 12 anni di assenza, per annunciare la sua prematura dipartita. Comunità disperata, che si preoccupa di foraggiare il proprio essere, senza realmente avere a cuore il povero Louis, passivamente attaccato dalla madre Martine (Nathalie Baye), dalla sorella minore Suzanne (Léa Seydoux) e dal fratello maggiore Antoine (Vincent Cassel). Non ci vengono dati punti di rifermento spazio/temporali: nessun luogo né data, solo quattro mura, palco di un teatro dove viene messa in scena una vita con le proprie assurde regole. Una sorta di eterotopia, dove il mondo reale è lì fuori che ci guarda. Mondo che ha gli occhi sensibili e collaborativi di Catherine (Marion Cotillard), moglie del frustrato Antoine, elemento che permette allo spettatore di oltrepassare i muri pieni di ego ed entrare in sintonia con lo sfortunato letterato Louis. 
 
Gran premio della Giuria a Cannes 2016, Juste la fin du Monde conferma le potenti doti registiche del giovane ventiseienne Xavier Dolan. Tratto dalla piéce teatrale di Jean-Luc Lagarce, l’ultimo lavoro dell’autore canadese, del quale ha curato anche la sceneggiatura, è un film sull’incomunicabilità. Paradossalmente comunicativo nel saper parlare con l’anima e lasciare alle parole soltanto il compito di riempire uno spazio materiale. Inutili sproloqui davanti alla maestosità dei sentimenti. Forse un Dolan minore rispetto a Mommy e a Tom a-là Ferme, si lascia prendere leggermente la mano dal narcisismo. Non diventa comunque vittima di se stesso, confermando l’enorme talento nel trasmettere emozioni attraverso le immagini ed i suoni. La sua regia è intima, fatta di primi piani e di sguardi. Osservare per carpire le mutazioni del volto e degli animi, usando la colonna sonora come urlo, come grido di ribellione. 
Una direzione artistica in grado di farci sentire i sapori, gli odori, le attenzioni e le finte attenzioni. Senti quasi l’odore del sudore, del fumo delle sigarette, carpendo così il vero motivo per il quale Louis torna a casa. Ritorno che sa di voglia d’infanzia e d’adolescenza. Riscoprire le origini della propria sessualità in quella casa ora in decadenza, che per lui significa l’esatto contrario. Il proprio universo che riprende forma prima della fine del mondo.
 
Dolan è impeccabile nel conferire, a quelli che possono essere interpretati come momenti banali, una tale forza di partecipazione supportata da eccitazione e commozione. Durante il viaggio in aereo che lo porta verso la sua famiglia, Louis si imbatte in un bambino, che gli copre gli occhi da dietro il suo sedile. Fonte di disturbo che diventa un gesto semplice, ma pieno d’amore. Lo stesso ricco amore che ha per la vita, il quale non ha bisogno degli occhi per essere assaporato. Materialità sostituita da una sostanza che ha un legame stretto con l’eternità. Perpetuità del bene, che vorrebbe conferire ai suoi cari e magari averne un po’ in cambio, per arrivare alla fine della corsa felice come in quell’attimo di contatto tra il suo viso e le dolci mani di un infante sconosciuto.
 
Tra i momenti più sentiti della drammaturgia, due sono quelli che rappresentano al meglio quel senso di chiusura e di assenza d’intesa. Ad un certo punto ci accorgiamo che tutti sanno che tutti fumano, ma nessuno si vuol far vedere dagli altri. Nel dialogo tra Louis e la madre Martine, lei disfa e rimonta tutta la baracca delle loro vite, lasciando al figlio solo il respiro per respirare.
 
Il tempo è un altro elemento importante nella narrazione. Il poco tempo che rimane a Louis dà vivere è scandito dalle lancette di un cucù. Tempo che abbraccia quel senso di morte, che incombe su tutto il film. Tempo che viene concesso ad ogni membro della famiglia per confidarsi con il giovane scrittore, momenti pieni di sé che sembrano essere gettati al vento, per poi riscoprili fondamentali nelle scelte di Louis.
 
Juste la fin du monde in Italia uscirà il 1 dicembre. C’è ancora qualche mese da attendere per rivedere all’opera l’enfant prodige canadese, che come detto in precedenza, stupisce sempre, ma forse quel suo fossilizzarsi troppo sul suo proprio stile potrebbe portalo nella direzione di un nuovo Dorian Gray. Speriamo così di rivederlo in qualcosa di cool, ma allo stesso tempo terrorizzante e maledettamente pratico ed efficacie.
 
David Siena

La luce sugli oceani

Giovedì 08 Settembre 2016 18:53
In un piccola isola australiana, dove un faro fa le veci di un Dio, due novelli Adamo ed Eva conducono una vita felice. L’amore sembra essere l’unica via e naturalmente cresce il desiderio di famiglia. Ma quando la realtà prende il sopravvento e la morte bussa alla porta, gli equilibri della giovane coppia si frantumano, portando conseguenze devastanti sulle coscienze e sviluppi inaspettati. 
E’ la storia di Tom (Michael Fassbender) e Isabel (Alicia Vikander), lui guardiano di un faro tra l’oceano australe e quello indiano, lei ragazza della limitrofa terra ferma. Tom porta nel cuore le ferite della Grande Guerra. Personaggio morale e leale, intraprende una battaglia per la verità e promette a se stesso di non procurare più del male. Isabel è la vita stessa, raggiante come il sole del mattino. La loro unione è in sintesi il manifesto del melodramma perfetto, capace di scaldare e struggere allo stesso tempo. 
Questa storia senza tempo ha affascinato Derek Cianfrance, regista del toccante Blu Valentine (2010). L’autore statunitense ha deciso di adattare il romanzo di M.L. Stedman (2012), portandolo dal libro direttamente sul grande schermo del concorso di Venezia 2016. 
 
Addentrandoci nella narrazione, sceneggiata dello stesso Cianfrance, compaiono anche una scialuppa e dei naufraghi. Senza entrare nei dettagli, quest’ultimi modificheranno indelebilmente la vita e le verità dei due sposi. Sui conflitti interiori virerà bruscamente The light between oceans, diventando così il pretesto per raccontare i tormenti dell’animo umano.
 
La luce del faro che divide i due oceani, che porta in salvo i marinai e li conduce dalle proprie famiglie, non porta in salvo il regista. Azzarda relativamente e rimane in una zona confort. Poca luce e tante ombre invadono il racconto, disseminato da improbabili e discutibili snodi narrativi. Punti di rottura che affossano i protagonisti in ripetuti sensi di colpa. Si viaggia sempre a braccetto con la depressione e la claustrofobia. In questa movimentazione d’anime, i momenti di svolta scioccano solo per la poca accuratezza con la quale vengono gestiti. 
Nelle colpe e nei perdoni si inciampa troppo spesso da perdere di vista la coerenza narrativa e del messaggio.
 
Il film è sulla bocca di tutti per la liaison d’amore, nata proprio sul set, tra i due protagonisti: la vincitrice dell’Oscar 2016 come miglior attrice non protagonista Alicia Vikander (Danish Girl) e l’affascinate Michael Fassbender (Shame – Coppa Volpi miglior attore Venezia 2011). 
Entrambe risultano un po’ piatti. Sofferta e poco altro la giovane attrice svedese, poco espressivo nell’esprimere la fedeltà alle proprie decisioni il talentuoso attore tedesco. Forse hanno tenuto tutte per loro le tumultuose emozioni che l’amore scaturisce, non riuscendo così a portare sullo schermo le salite e le discese di un sentimento universale. Magari lo stesso regista non è riuscito a spiegare e sviscerare con efficacia, cosa che gli era riuscita nei suoi lavori precedenti, gli intrecci arruffati e quotidiani che l’amore comporta. 
 
La musica composta dal maestro A. Desplat è irruente e non aiuta, aggravando lo stato delle cose. 
 
The light between oceans esce in Italia i primi di marzo, a ridosso di San Valentino e dell’assegnazione degli Oscar. Questa crudele novella fa urlare all’occasione sprecata. Si perché, la sopraccitata storia di vita ci sarebbe potuta entrare nel cuore, accomodandoci e compiacendoci, solo se avesse osato quel giusto, entrando così di diritto nel palmares delle indimenticabili storie d’amore della finzione cinematografica. 
 
David Siena

Fortunata

Mercoledì 24 Maggio 2017 13:42
La vita di Fortunata (Jasmine Trinca), parrucchiera che sbarca il lunario di porta in porta, è una vita di sacrifici e dolori. Condivide queste pene con la figlia Barbara (Nicole Centanni) di 8 anni, dopo la separazione dal marito violento e despota. Siamo nella periferia di Roma, luogo nel quale Fortunata vuole, con tenacia, realizzare il suo sogno: aprire un negozio di acconciature. Conforto e man forte li trova in Chicano (Alessandro Borghi), anch’egli uomo problematico dalla personalità bipolare. Entrambe sognano una vita felice o almeno dignitosa, in grado di garantirgli un’esistenza che si possa definire normale. Fortunata conosce Patrizio (Stefano Accorsi), psicoterapeuta infantile, che ha in cura la figlia. Sulla sua strada impervia verso la realizzazione non si aspetta di ritrovare un amore vero, ma questo arriva come un ciclone. Amore che fa vacillare tutte le sue certezze. Forse in Patrizio ha trovato chi la può capire veramente e aiutarla a portare in salvo la sua esistenza. In queste travagliate vicende compare anche un personaggio alquanto bizzarro e folkloristico: Lotte (Hanna Schygulla), la madre di Chicano, che porta una sorta di poesia/pazzia all’interno della storia. 
 
Fortunata, presentato al Festival di Cannes edizione 70 nella sezione Un Certain Regard, è un film convenzionale; come lo sono i suoi protagonisti, ben identificati dai loro costumi, che non dismettono mai. E fin a qui nessun problema, anzi, parte con i più buoni auspici il film di Sergio Castellitto, sceneggiato dalla moglie Margaret Mazzantini. Le magagne, purtroppo, diventano ingombranti con l’andar del tempo e più ci si avvicina alla risoluzione, più queste legittimano la propria presenza. Lo spettatore si prende carico di troppi perché, non trovando risposte e conseguentemente l’appeal si perde e cade, giù da una scalinata con un alto grado di pendenza, portando con sei i personaggi, dai quali ci si disaffeziona. Colpevole di tutto questo è lo script, disseminato di svolte discutibili, che interrompono bruscamente gli equilibri creatisi. I buoni propositi iniziali si perdono in una sceneggiatura che cerca la tragedia per forza senza mai trovarla per davvero. La seconda parte della pellicola si spezza e non si ricompone mai. Situazioni non chiare e neppure intuibili si contrappongono ad altre eccessivamente spiegate. Il vero problema di Fortunata non è il moralismo o la direzione ricattatoria che prende, ma è la mancanza di compattezza.  
 
La regia si limita a fare il compitino e questo non basta per coprire le disattenzioni della scrittura. Per raccontare una storia ai margini bisogna analizzare e riflettere sulla violenza subita. Qui sembra tutto un po’ troppo sbrigativo. La scelta drammaturgica, di mischiare eccessivamente le carte, lascia indietro quest’aspetto. Si predilige una strada che cerca l’autorialità, anche con qualche simbolismo di troppo, ma questa non si trova. Il baricentro del film esce fuori bolla e l’avvenuta consapevolezza finale di Fortunata ne risente, arrivando un po’ pasticciata.  
 
Dì contral’altare, la messa in scena è costruita con accuratezza e rispecchia i protagonisti, anzi, sembra un personaggio vivente, sempre al fianco di Fortunata e delle sue amarezze.  Anche l’aspetto recitativo è ben supportato: Jasmine Trinca (miglior attrice Un Certain Regard, torna a Cannes 16 anni dopo La stanza del figlio di Nanni Moretti) intrepreta con passione e sentimento una donna coriacea e caparbia, che sopravvive con viva resistenza ai temporali, che giornalmente gli si abbattono contro.  Menzione speciale anche per Alessandro Borghi: porta sullo schermo, con veridicità, un Chicano con le naturali caratteristiche del depresso e del birbone. 
 
David Siena
 
 
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Sembra che il cinema italiano abbia bisogno di violenza ed esasperazione per regalarci qualcosa di intimamente emozionante che ci faccia uscire dalla sala soddisfatti, temporaneamente lacerati da una cesura delle nostre esistenze immobili seppur nel loro moto nevrotico. 
Sembra, inoltre, che un film drammatico debba necessariamente contenere una vibrante scena di sesso fra un uomo e una donna non consenziente (si chiama stupro, anche se lei non ha gridato troppo forte) per caricarsi di un senso tragico che getti luce su un’umanità proletaria e dolente in una società disumanizzata. 
Sembra, infine, che il film anziché “parlato” debba essere urlato, sparato sopra le righe, come i sentimenti buttati in piazza nei talk show televisivi, perché i pieni continuano a contare sempre di più dei vuoti.
 “Fortunata”, ultima fatica della coppia Mazzantini-Castellitto, rientra purtroppo in questo quadro nefasto, e rischia di ritagliarsi anche un posto di rilievo nel cinema italiano contemporaneo dopo il successo di Jasmin Trinca (peraltro impeccabile nel ruolo), migliore attrice della sezione “Un Certain Regard” di Cannes 2017. 
Per Castellitto “Fortunata è una Madame Bovary delle borgate romane”. Per chi scrive tale comparazione appare quanto mai superba per descrivere, invece, una disumana galleria di casi umani al limiti del verosimile dilaniati da traumi infantili, malattie psicologiche, segreti nascosti, violenze quotidiane, povertà e misera . Osservati – ed è questo l’elemento più scorretto e fastidioso – da un occhio (e un portafoglio) alto-borghese che, saldamente attaccato alla sua zona di confort – si prende la bega di scendere nelle periferie romane per cercare di capire, pur non capendo, come si muovono queste vite strane, cosa pensano, cosa si dicono, di cosa sono fatte le loro giornate. Per poi mettere in atto un’altra operazione spiacevole, ovvero appioppare sulle spalle di questa povera gente una montagna di casini personali e pubblici, conditi da colpi di scena tranchant e da quel pizzico di marciume umano, troppo umano. 
Ma veniamo ai dettagli. Fortunata (insulso dibattito intorno al nome ripreso in più parti del film) è una donna sui 30, rimasta orfana da bambina, che campa come può con un lavoro di parrucchiera a domicilio a nero. Ha una figlia di 8 anni e un ex marito (Edoardo Pesce) dal quale non è ancora formalmente divorziata. Vive ancora nella casa di lui, il quale si permette infatti di andare e venire quando e come vuole, di aggredirla verbalmente e sessualmente, mentre lei sopporta in assenza di alternative. Suo amico e compagno di avventure e sventure è Chicano (Alessandro Borghi), ragazzo tossicodipendente, affetto da disturbo bipolare, disoccupato e con un madre ormai devastata dal morbo di Alzheimer. Questo quadro parla da sé a chi ha un’idea di cosa significhi costruire dei personaggi armonici e bilanciati seppur nelle loro idiosincrasie e problematiche. Ma vale la pena addentrarsi brevemente nel cuore della storia per aggiungere altri tasselli ad un mondo di umiliati e offesi che non hanno tuttavia nulla del capolavoro russo. Proprio mentre Fortunata accarezza l’idea di chiedere i soldi in prestito ai nuovi strozzini – i cinesi –  per realizzare il sogno di un negozio di parrucchiera tutto suo (da gestire insieme a Chicano), arrivano i servizi sociali che la ingiungono a ricorrere ad un consulto psichiatrico per sua figlia. Avviene così l’incontro con Patrizio (Stefano Accorsi), psicoterapeuta dolce e a modo, che sarà il detonatore di una tragica serie di eventi a catena con rivelazione finale. 
Ci sono due mondi in “Fortunata”: quello di Patrizio, dei buoni, delle istituzioni e della lingua italiana standard da una parte e quello di Fortunata-Franco-Chicano, della borgata sporca e del romanesco, dall’altra. Due mondi rigorosamente separati nonostante i tentativi di accesso del primo sui secondi attraverso la “variabile dell’amore” che tutto può e tutto deve. Ma è proprio questo incontro impossibile, che vorrebbe essere la miccia di iniziazione di una “educazione sentimentale di periferia” (come la chiama Castellitto), ad essere prevedibile e artificioso, vanificando i successivi incastri della sceneggiatura. 
Al di là dei personaggi-marionette, fastidiosi per quanto ridicoli (che stanno in piedi grazie alle buonissime performances di Jasmin Trinca, Alessandro Borghi ed Edoardo Pesce); al di là di una colonna sonora che sceglie il pop più abusato di “Friday I’m in Love”, “Have you Ever Seen the Rain” e dulcis in fundo “Vivere” di Vasco Rossi. Al di là della prosaica metafora di Antigone, ripetuta fino allo sfinimento, e dello sbagliatissimo cliché della donna-fonte di guai di cui si nutre una vasta cultura maschilista…Al di là di tutto questo, è la mancanza del “sentimento” verso i personaggi (“L’impegno è in primo luogo un sentimento, il sentire nel profondo la sofferenza di chi non ha voce” scriveva Dario Fo), di un autentico pathos non ridotto al patetismo, a pesare di più durante la visione del film. Troppa presunzione e troppo poco rispetto, insomma. 
Non mancano le scene ben realizzate (come la soggettiva sulla figura possente e sfumata di Fortunata che entra in acqua), alcuni efficaci momenti di messa in scena drammaturgica (come nella scena in cui Fortunata rivela il suo segreto inconfessabile nello spazio senza uscite delle carceri), le riprese “ad altezza umana” che inseguono da vicinissimo pianti e sorrisi, una buona fotografia delle Roma di borgata, asfissiante di giorno e colpevole di notte. Eppure è un po’ poco per un regista e una sceneggiatrice al loro quarto film insieme, che sono letteralmente adorati da una certa critica e da un certo pubblico. Davvero troppo poco.
 
Elisa Fiorucci

The Square

Lunedì 29 Maggio 2017 14:12
The Square, in concorso al Festival di Cannes 2017, si svolge perlopiù, all’interno del Palazzo Reale di Stoccolma. Edificio ora adibito a museo di arte contemporanea, dopo la scelta della Svezia di abrogare la monarchia. Curatore della galleria è Christian (Claes Bang), padre separato con due figli al seguito. Una nuova installazione è pronta per stupire il pubblico, il suo nome è The Square. Un quadrato luminoso, all’interno del quale, vige l’altruismo e il rispetto del prossimo. Il distinto amministratore delega le pubbliche relazioni ad una stimata compagnia del settore. La pubblicità deve stupire ed attirare un pubblico di tutte le età. Qualcosa però va storto, innescando delle situazioni imbarazzanti e sregolate. Christian, messo pesantemente in discussione, vive una crisi personale colma di dubbi, che fanno vacillare il suo regolare universo.
All’interno del suo quadrato, il regista e sceneggiatore Ruben Ostlund (Forza Maggiore, 2014), ci mette davvero tutto. Supportato dalla sua distinta originalità, ci regala un sorta di cinema 2.0. La sceneggiatura è contraddistinta da innumerevoli mini sequenze con al loro interno altrettanti macro argomenti. Dispersivo? Forse un filo, ma questa sua eccessiva voglia di mettere è sinonimo di un cinema autoriale che non segue una linearità o una figura che si chiude (che contrasta volutamente con la figura geometrica del titolo), ma che vuole puntare il dito sulle incontrollabili e illogiche vite moderne. Prive di una logica densità. Ne conseguono potenti riflessioni, che rendono il film smisuratamente interessante. 
La Palma d’oro 2017 si fa beffe delle ipocrisie della borghesia, deride l’arte contemporanea, alzando, con tanto di fiero sventolio, la bandiera del politicamente scorretto fino alla cima del pennone (e forse ne avevamo veramente bisogno).
Ostlund dimostra maestria con la macchina da presa, la sua è una regia sferzante, fatta di primi piani con voci fuori piano, che costringono lo spettatore a fare focus sul volto del personaggio in questione. Uno sguardo incessante, diretto a mettere a nudo l’individuo. Privarlo della sua intimità.
Evidenti e poderosi sono anche i cambi di registro: si passa dall’esilarante al severo più cupo, come un termometro che da 30 gradi cade repentinamente a meno 20. The Square è un film che estremamente diverte e scuote, e questa forte oscillazione avviene nel tempo di pochi frames. 
Per non parlare di diverse scene che lasciano il segno, tramortiscono le menti con la loro forza devastante. 
Sarebbe un sacrilegio anche solo accennarle, lasciamo a voi il piacere di scoprirle una ad una.
 
Il regista svedese spedisce all’interno del suo cavallo di Troia un Claes Bang in grandissima forma, vero mattatore di tutta questa giostra impazzita. La sua è una recitazione sentita, formale e scombinata all’occorrenza. Argilla che si plasma perfettamente nelle mani/esigenze dell’autore. Christian è sommerso da un’ondata di incertezze. Gli errori sono all’ordine del giorno. E più cade e più non trova la strada del ritorno. Questa débacle è portata sullo schermo con ironia, via preferenziale usata dall’autore per lasciare il segno, senza appesantire.
 
Ora non resta che attendere l’uscita nelle sale italiane di quest’opera caustica e filo esistenzialista, uscita dal Festival più prestigioso al mondo con il premio più ambito. Vince lo scherno made in Svezia, che meritatamente ci connette con noi stessi.
 
David Siena

mother!

Giovedì 28 Settembre 2017 20:04
Mother! di Darren Aronofsky (Leone d’oro 2008 per The Wrestler) era il film più atteso della Mostra del Cinema di Venezia edizione 74. Dopo la sua visione il primo titolo da copertina che viene in mente è: Delirio e paura a Venezia! Il regista americano, con il suo personale horror, scuote il pubblico del Festival e apre una falla enorme tra estimatori e detrattori del film. Mother! è sicuramente esagerato e ridondante, ma non tutto è da buttare in questo vorticoso ed allucinante viaggio all’interno della psiche umana, alla ricerca di una pazzesca ispirazione.
 
Una coppia felice si trasferisce una bellissima tenuta di campagna. La moglie (Jennifer Lawrence, Oscar 2013 per la sua interpretazione ne Il lato Positivo), che ha curato la ristrutturazione con amore e passione, è riuscita a trasformare la casa in un perfetto nido d’amore. 
Una sera bussa alla porta un uomo a lei sconosciuto (Ed Harris, The Truman Show). Il marito scrittore (Javier Bardem, anch’egli premio Oscar per Non è un paese per Vecchi nel 2008), che conosce l’ospite, lo fa entrare di buon grado nella loro splendida dimora.  Di lì a poco arriva anche la consorte (Michelle Pfeiffer, Le Verità Nascoste). Queste strane presenze in casa disturbano la moglie. I forestieri nascondono qualcosa di oscuro. I loro comportamenti sono inconsueti e minano le sicurezze della donna, che si sente in pericolo e sull’orlo di una crisi di nervi. 
 
Darren Aronofsky sembra abbia assimilato a modo suo dei concetti nolaniani legati agli innesti e teorie di mondi paralleli linchiniani. A questi si ispira, con minor successo, per creare il suo film onirico. Opera contraddistinta da diversi sotto strati narrativi, che trascinano lo spettatore in un inconscio profondo, percorrendo una strada febbrile e morbosa. Il lato positivo di Mother! risiede completamente nell’aver pensato di raccontarci questo delirio in chiave horror. L’atmosfera sanguinante e senza veri punti di rifermento procura ansia e suspense. Una volta usciti dalla sala si ha come la sensazione che qualcosa effettivamente nasca e bruci nel nostro profondo. Una fossa della Marianne quasi intoccabile, ma luogo dove nasce la nostra ambizione quotidiana. L’idea, che il regista ha dichiarato di aver messo su carta in soli 5 giorni, è lodevole, peccato che qualcosa nelle due (eccessive) ore del film stoni. In questa allegoria c’è troppa ambizione che sfocia in confusione e a tratti il caos creato è ingestibile. Mother! è una riflessione sulla nostra madre terra, che ingloba anche argomenti come la religione e la storia dell’uomo. Audace pensare di racchiudere tutto questo in una sola storia, dove è anche complicato comprendere certe metafore. 
 
Madre (Jennifer Lawrence) è madre natura. La casa è la terra. La pellicola ci fa vedere fino a quanto l’uomo è in grado di sfruttarle: fino al midollo. Il risultato inevitabile sarà di bruciarle e farle diventare solo cenere. L’autore dissemina la casa di oggetti e animali che riconducono alla natura, indizi per risolvere il puzzle, non proprio riconducibili alla narrazione in atto. Ogni persona che entra in casa ispira positivamente o negativamente lo scrittore Bardem. Madre, dorata e priva di peccato come una Madonna, a lei viene chiesto sempre e solo di elargire e di donare senza misura. Madre è l’ispirazione, che soffre inconsciamente. Sanguina e non capisce. Va contro ad un destino che non conosce e non comprende. Lei è la madre di tutto, la scintilla che ci fa svegliare alla mattina. Il sole che ci bacia quando lo troviamo senza riserve. 
Il film, dichiaratamente provocatorio, è la personale repressione del regista contro un mondo pazzo. Nella sua ciclicità la pellicola, a conti fatti, risulta troppo pasticciata. Argilla nelle mani del proprio artista, che ad un certo punto non riesce più a controllare. Bisogna anche dire che la tormentata e fervida interpretazione di Jennifer Lawrence aiuta il film a raggiungere parte del suo scopo: trasmettere insicurezza. Energico sconforto provocato anche dall’invasione della casa, sinonimo di un mondo non più al sicuro. Questa sensazione è accentuata dalla colonna sonora del film, composta da Jóhann Jóhannsson (Arrival, 2016). Commento musicale disturbante, dalle atmosfere metalliche. 
 
David Siena

L'Inganno

Sabato 27 Maggio 2017 20:26
Un’innocente bambina passeggia nei boschi con il suo cestino in cerca di funghi freschi. Improvvisamente si imbatte in un uomo ferito. Siamo in piena Guerra di Secessione americana ed il soldato in cerca di cure è il caporale John McBurney (Colin Farrell, a Cannes anche con The Killing of a Sacred Deer di Yorgos Lanthimos). L’uomo trova così ristoro in una sontuosa tenuta sudista, dove un’insegnate di nome Martha (Nicole Kidman, lei è presente con ben 4 film in questa edizione del Festival) gestisce un’esclusiva scuola per il gentil sesso. Il gruppo di donne è variegato, ci sono adulte e giovincelle. Insieme offrono una calorosa assistenza al soldato nordista, in attesa della sua completa guarigione e della consegna all’esercito. Ma le attenzioni femminili alla lunga diventano pericolose. Sorgono rivalità inaspettate per accaparrarsi l’affascinate preda. Il desiderio sessuale sale con il passare dei giorni e il frutto proibito è proprio lì davanti, pronto per essere colto. Le situazioni si complicano e la tensione schizza alle stelle verso un finale torbido e dalle decise tinte horror.  
 
Il nuovo lavoro di Sofia Coppola, in concorso a Cannes 70, è il remake de “La notte brava del soldato Jonathan” del 1971, di Don Siegel con Clint Eastwood. La regista figlia d’arte ne cura anche la sceneggiatura, liberamente ispirata al romanzo A Painted Devil di Thomas P. Cullinan. 
La vera mattatrice di The Beguiled è la regia, premiata con la prestigiosa Palma dalla giuria del Festival. Conduzione artistica con pregi e difetti. Piace per il suo formalismo e per i suoi primi piani compiaciuti. E’ una regia tanto complice quanto soddisfatta. Sofia Coppola, nella costante del suo mondo femminile, cambia gradualmente genere, da film di guerra sentimentale si passa all’horror gotico, sublimando in una sentita suspense. Orgogliosamente mostra le sue protagoniste in un’emblematica inquadratura finale (sembrano in vetrina per sfoggiare il loro abito migliore). Femminismo massimizzato, del quale però non manca di mettere in risalto le contraddizioni: tanto caste quanto impure, donne misericordiose e devote al Signore, ma allo stesso tempo vampire pronte a castrare il maschio.
La regista americana mantiene una facciata morale impeccabile, dietro alla quale vige una repressione sessuale malata. Desiderio troppo a lungo messo a tacere. Le intenzioni covano nella psiche e si tramutano in pura violenza. 
 
In questa perdita corale dell’innocenza, il punto direzionale sfavorevole fa capolino nel momento in cui la regista smette di ammiccare e di essere ambigua. Fin quando rimangono sirene ammagliatrici (prima parte), uno speziato interesse nasce nello spettatore, al contrario quando le troppe parole riempiono lo schermo (seconda parte), il coinvolgimento diminuisce e lo scontato prende il sopravvento. Ed è il motivo per il quale The Beguiled vale tre stelle, rafforzato anche da un finale un po’ sbrigativo.
 
Il film è arricchito da una meravigliosa fotografia crepuscolare che esalta la messa in scena, anch’essa studiata nel minino dettaglio, che aiuta e celebra i personaggi nel proprio contesto narrativo. Parterre de Roi composto, oltre ai sopracitati Farrell e Kidman, da Elle Fanning (lo scorso anno qui con The Neon Demon di Refn) e Kirsten Dunst (vincitrice come miglior attrice nel 2011 con Melancholia). Complessivamente ben amalgamato ed in grado di dare quel quid in più alla pellicola nel momento in cui le situazioni avvengono troppo in superficie.
 
Anche se con delle sbavature, The Beguiled ci restituisce lo sguardo di Sofia, dopo i discutibili The Bling Ring e Somewhere. Nelle sue donne, nel bene o nel male, troviamo qualcosa di contemporaneo, descritto con profondità. Donne che celano le loro intenzioni e che la fanno in barba al malcapitato uomo di turno.
 
David Siena
 
 
 
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Soltanto un occhio penetrante è in grado di dipingere un quadro dettagliato e suggestivo. Perdersi nell'osservazione di esso può coincidere con l'immedesimazione più aderente.
The beguiled - L’inganno, sembra evocare una situazione pittorica, che nei primi atti da evanescente, acquista gradualmente intensità fino a lasciare col fiato sospeso. A quattro anni di distanza da Bling Ring, Sofia Coppola realizza un film intenso, ben fatto e estremamente curato , stilisticamente lontano dall'ultimo lavoro. La vicenda prende parte in un tranquillo collegio femminile del Sud durante la Guerra civile Americana. La vita delle sei ragazze nel collegio scorre in modo ordinario e costante, ovattata dalle crudeltà della Guerra. Ad occuparsi di loro la direttrice del collegio Miss Martha, donna acuta e pratica, la cui presenza è affiancata dalla più giovane Edwina Dabney, insegnante di francese. Quando un mercenario nordista viene trovato ferito da una delle ragazze, l’equilibrio della mite esistenza nel collegio verrà radicalmente sovvertito. Egli diverrà oggetto di sorpresa e timori, fino a determinare un brusco cambiamento nei rapporti delle fanciulle e delle istitutrici. Presentato allo scorso Festival di Cannes, L’inganno, è un film diretto abilmente, in grado di assumere molteplici aspetti, conducendo lo spettatore in una direzione dai tratti prevedibili, ma non banali. Un ritratto femminile molto asciutto capace di analizzare con grande precisione lo sviluppo e il climax del rappporto tra i due sessi. Sofia Coppola dirige un film elegante e autentico,  contraddistinto da quella perfetta combinazione tra leggerezza ed efferratezza. 
 
 
Giada Farrace
 

Final Portrait

Sabato 25 Febbraio 2017 22:00
Parigi, 1964. James Lord (Armie Hammer, The Social Network - 2010), giovane scrittore americano, viene invitato dall’amico Alberto Giacometti (Geoffrey Rush, Il discorso del Re - 2010), a posare per un ritratto. Lusingato dalla proposta dell’artista svizzero/italiano, accetta di buon grado. James, amante dell’arte, si presenta due giorni nel laboratorio del pittore, convinto che bastino per compiere l’opera. Ma non ha fatto i conti con l’animo tormentato dell’autore. Non bastano venti giorni per terminare il dipinto e James è costretto a posticipare il ritorno in patria. Durante queste settimane di continui rifacimenti della tela, lo scrittore vive tutte le contraddizioni che albergano nel cuore di Giacometti. Processi artistici che sono frutto di un pronunciato ascetismo e della ricerca maniacale di una realtà totale. Final Portrait racconta una piccola porzione di vita del grande artista Giacometti (non solo pittore, ma anche scultore). James si presta da Virgilio, accompagnando lo spettatore nei meandri dell’esistenzialismo e del surrealismo di questo indiscusso maestro. Tra le vie di Parigi, nei suoi bar, nei suoi bordelli e tra le mura grigie della casa dello scultore conosciamo anche le sue persone. Figure che incrementano, mitigano e soffocano il suo genio: l’amante Caroline (Clémence Poésy), l’indulgente fratello Diego (Tony Shalhoub) e la moglie Annette (Sylvie Testud).   
 
Final Portrait, in concorso al Festival di Berlino 2017, è scritto e diretto da Stanley Tucci (attore da anni sulla breccia, grazie alla sua spiccata versatilità). La pellicola si basa sul libro di memorie dello scrittore americano James Lord. Spiccatamene teatrale (lo studio di Giacometti è il palcoscenico dove si svolge buona parte dell’opera), Final Portrait è una sorta di biopic, con luci ed ombre. 
 
Le luci, inversamente proporzionali, le troviamo nello studio del grande artista. Lì risiede tutto il concetto e l’arte di Giacometti: nella riuscita scenografia di James Merifield (Le regole del Caos – 2014, Mortdecai – 2015). Il respiro del film, che rispecchia nel totale il maestro, esce grazie al design scelto per descrivere il suo ambiente di lavoro. I muri grigi, le grandi finestre sporcate di pioggia, le tele impolverate, i pennelli ferrigni e l’argento del denaro disseminato a caso, rendono tutto così viscerale e sono in perfetta simbiosi con l’onnipresente sigaretta tra le labbra dello scultore e le sue originali figure allungate. Un grigio perenne e claustrofobico, che inghiotte l’anima e brucia dentro. Nel suo laboratorio troviamo Giacometti, il suo modus operandi tumultuoso, caotico e a tratti disastroso.
 
Le ombre sono evidenti nella sceneggiatura e soprattutto nella regia. Tucci dimostra tecnica, ma poco estro. La sua è una direzione spenta, che si ostina ad inquadrare intimamente senza realmente estrarre dai personaggi. Non troviamo l’uomo Giacometti e solo a sprazzi l’artista. Si perché, il regista si limita ad etichettare e non ad esaltare, candendo nello stereotipo dell’artista bevitore e donnaiolo. L’arte di Alberto Giacometti è molto di più e qui esce solo in parte.            
 
Un film spaccato in due. Quel senso di incompiuto, in realtà non è legato al dipinto di James, ma piuttosto al film, che lascia lo spettatore privo della meraviglia, gridando così all’occasione sprecata. Final portrait non dipinge un quadro memorabile su quella grande tela che è la pellicola cinematografica. Non basta un immenso Geoffrey Rush per salvare la pellicola, dove sono presenti tangibili e visibili imperfezioni. L’attore australiano è come sempre immenso, un genio attoriale ruvido e burbero, che strappa meritati sorrisi e consensi.
 
 
David Siena

Bright Nights

Sabato 25 Febbraio 2017 22:07
Il lunedì è sempre stato e sempre sarà il giorno più odiato della settimana. Ma quando partecipi ad un Festival, il lunedì segna l’inizio della seconda settimana di kermesse. Il film del mattino, che inaugura il giro di boa, ha l’obbligo di rinvigorire il palinsesto e dare quel brio in più per affrontare le numerose pellicole ancora in programma. Quindi, il lunedì da Festival si contrappone con vigore a quello della quotidianità, fa purtroppo eccezione il lunedì della Berlinale 2017, che apre il suo concorso con il deludente Bright nights. Seduti sulle poltrone del cinema quasi quasi rimpiangiamo l’ufficio o l’aula scolastica. Poco coinvolgente ed a tratti tedioso, il film tedesco di Thomas Arslan (Gold – 2013), non lascia traccia. Evidente l’utilizzo di piani sequenza per aumentare la tensione drammatica, ma questi sono fini a se stessi, appesantiscono il film, che invece di rinvigorirsi si svuota. 
 
La storia, decisamente classica, ma sempre appetibile, meritava un risultato finale più consono al Festival di appartenenza. Michael (Georg Friedrich, a Berlino anche con Wild Mouse), che nella vita fa l’ingegnere ed è separato dalla moglie, apprende della morte improvvisa del padre. I funerali avranno luogo in Norvegia, dove il genitore viveva ormai da parecchi anni. A seguirlo in terra scandinava sarà il figlio Luis (Tristan Göbel), che vive con la madre. L’adolescente non ha un buon rapporto con il padre. Michael convince il figlio a restare con lui qualche giorno di più in Norvegia. I due intraprendono un viaggio on the road immersi nella splendida natura di un paese dove non si dorme mai. L’estate regala luce fino a mezzanotte. In questo contesto, molto simbolico, il loro legame si rafforza, senza però prima scontrarsi con decisione. Il bagliore continuo, portatore di pace, aiuta a far luce e chiarezza negli animi del padre e del figlio; un po’ meno nello spettatore, che rimane sbigottito dal minimalismo della trama, dove veramente non succede nulla.
 
Bright Nights, conferma la tendenza del cinema tedesco ad essere estremamente impegnato. Un film che scava, proponendoci silenzi eccessivi. Il suo è un “voluto” andamento muto, fatto di sguardi ed atteggiamenti e di momenti naturali della vita. Una direzione troppo delicata, che trova nelle piccole cose la strada cicatrizzante del rapporto: un tenda in riva ad un lago, una camminata tra gli alberi e un dialogo cinematografico guardando le montagne. Ma questa coerenza narrativa non basta per salvare la pellicola, priva di una vera spina dorsale, con poca carne al fuoco e scarsamente concreta. Nel magma psicologico dei protagonisti ci si addentra, ma non ci si trova mai.  Una narrazione piatta e senza vere svolte rende il film poco invogliante.
 
Bright Nights cerca nella sottrazione il proprio risultato. Purtroppo questo non arriva. Il film rimane perennemente sulla sua linea d’ombra e i raggi di sole non si scorgono neanche in lontananza. Gli attori, ed in primis il protagonista Georg Friedrich, offrono una prova poco carismatica, adagiandosi sulle pochezze dello script. Qui a Berlino si vocifera di un possibile Orso d’Argento come migliore attore proprio per l’attore austriaco. Sarebbe alquanto discutibile, viste le sontuose performance dell’intero cast di The Party della britannica Sally Potter. (su tutti il monster di bravura Timothy Spall).
 
David Siena

Como Nossos Pais

Domenica 26 Febbraio 2017 22:13
Just like our parents, titolo nella versione anglofona, riassume alla perfezione quella che sarà la spina dorsale del film: viviamo influenzati dalla famiglia e nella nostra esistenza, nel bene o nel male, ripercorreremo parte della vita dei nostri genitori. A questo non c’è scampo. Fin da subito il film brasiliano si strappa di dosso i luoghi comuni legati al proprio paese: favelas, povertà, delinquenza e ignoranza, offrendoci una storia diversa, moderna e appassionante. Film tutto in rosa, come il nome della protagonista, che ci porta tra gli alti e i bassi della sua vita borghese, influenzata dal rapporto burrascoso con la madre e il matrimonio in stato di crisi. Tradimenti, scoperte ed una sana innocenza, senza cadere mai nel moralismo, avvicinano molto il film di Laìs Bodanzky alla visione del maestro Pedro Almodovar.
 
La sequenza iniziale ci propone tutta la famiglia di Rosa (Maria Ribeiro) intorno ad una tavola per un assolato pranzo di famiglia. Durante la presentazioni di tutti i personaggi principali, focalizzate in pochi dialoghi che ben identificano le personalità ed i caratteri, la madre Clarice (Clarisse Abujamra) svela uno scabroso segreto a tutti i partecipanti. La destinataria di tutto questo è proprio Rosa. Scopre alla soglia dei quarant’anni di avere un padre diverso da quello che conosce. Clarice aveva tradito il suo compagno durante un viaggio di lavoro. Marito anch’esso poco incline alla fedeltà. Ormai da molto tempo separati, quello che Rosa pensava fosse essere il vero padre ha bisogno del suo supporto quasi giornaliero. Non si nega tuttavia di conoscere l’uomo che realmente l’ha messa al mondo: un politico di successo. Gli sconvolgimenti non cessano, anzi, vengono amplificati dalla notizia che Clarice sta morendo di cancro. Rosa vede davanti a se muri altissimi, cementati con armatura pesante, visto che anche la sua vita privata non va a gonfie vele. Sostiene lei il suo matrimonio e le due figlie, dato che il marito Pedro (Felipe Rocha) ha un lavoro precario. In più, l’ombra di un tradimento da parte del compagno si fa sempre più largo nella sua mente. La tremenda tempesta davanti a se e dentro il suo cuore la metterà alla prova. Su questi esami si basa la narrazione di Como nossos pais, opera impegnata, ma allo stesso tempo delicata, in competizione nella sezione Panorama al Festival di Berlino 2017.
 
La pellicola è scritta con accuratezza dalla stessa regista con l’aiuto di Luiz Bolognesi. Il film non giudica la donna Rosa, ma la segue semplicemente nella sua vita, fatta di salite e discese. Resistente e forte come una nave durante la peggiore delle tempeste. Senza mai perdersi d’animo, giova sia dei dolori che delle gioie. Nel suo andamento prettamente drammatico ci sono dei momenti di ironia e brio, che regalano al film, con arguzia, una sorta di leggerezza, un anima comprensibile e leggibile da tutti. Argomenti trattari con naturalezza senza calcare troppo la mano, senza mai perdere la tensione drammatica.
 
Un viaggio nelle dinamiche della donna moderna: madre, figlia, moglie, amante, sorella e professionista. Oberata di impegni e scelte. Trovare la propria dimensione in una società prettamente maschilista non è facile. Il film riesce a mettere in evidenza quanto la donna abbia una forza sovrumana per far fronte alle battaglie e uscirne vincitrice dalla guerra. E anche quando viene sconfitta non perde mai completamente la dignità del proprio essere, rispetto all’annullamento che molti uomini si procurano. 
 
Como nossos pais ci mostra come sia arduo trovare un punto di equilibrio nell’esistenza. Il film ci prova, non risolvendo l’enigma, ma portandoci dentro ad esso. Forse la vita stessa è qualcosa da risolvere. Siamo sempre in balia degli eventi. Non sappiamo se troverà una distribuzione sul mercato italiano e questo è un peccato perché è un film ben controllato, piacevole e gratificante. 
 
David Siena

The Dinner

Lunedì 20 Febbraio 2017 22:18
Tutti aspettavamo con curiosità The Dinner, ultimo lavoro di Oren Moverman, in concorso qui a Berlino per l’Orso d’Oro. Tratto del best seller omonimo di Herman Koch e secondo adattamento cinematografico dopo il riuscito I nostri ragazzi (2014), del nostro Ivano De Matteo. Come accade di sovente quando le aspettative sono alte, il prodotto non sempre le mantiene. Purtroppo questo The Dinner non fa eccezione. Lo stuzzicante contesto nel quale si svolgono i fatti e vengono sviscerati i ricordi è gestito con un po’ di esteriorità e non usato come valore aggiunto. L’anima del libro è dimenticata e il film risente di una regia monotona e greve, che ci fa rimanere la cena indigesta. 
 
Teatro nel quale si svolgono i fatti è un prestigioso ristorante. Cena organizzata per discutere affari famigliari tra due fratelli con carriere e passati diametralmente opposti, accompagnati dalle mogli. Stan Lohman (Richard Gere) è un famoso politico candidato al ruolo di governatore. Paul Lohman (Steve Coogan) è un insegnante di storia con alle spalle problemi di depressione. Tra loro il rapporto è sempre stato teso, visto che la madre ha sempre preferito Stan, portando così Paul a sentirsi inferiore e di conseguenza a soffrire di insicurezze. Katelyn (Rebecca Hall) e Claire (Laura Linney), la prima moglie di Stan con poca personalità, la seconda invece compagna complice ed affettuosa, assistono all’acceso dialogo dei relativi compagni, contribuendo a raffreddare l’aspro diverbio che divampa come un’incontrollabile falò. I rispettivi figli hanno commesso un atto riprovevole: è questo il piatto forte della cena. Un segreto che mette le due famiglie alla prova. Una sorta di Carnage (2011), peccato che la riuscita del film sia inappagante rispetto all’ottima opera di Roman Polanski. 
 
Moverman, dopo il promettente The Messenger (2009), aveva già dato segno di flessione con Time out of mind (2015); ora prende in mano un egregia base narrativa, dalla quale non riesce ad estrapolarne tutta l’essenza. La sua è una regia monocorde, poco creativa e senza una vera visione. Perde per strada anche l’iniziale sarcasmo; figura retorica che è il fulcro del romanzo. E’ proprio nel non seguire ed assecondare il senso del racconto il difetto più evidente di The Dinner e di conseguenza le riflessioni morali ed etiche riescono solo in parte a farsi largo. I personaggi dovrebbero fingere di essere quello che realmente non sono, ma qui non succede. Anche le prove attoriali dell’intero cast risultano sottotono. Certamente l’estrema verbosità dei dialoghi non aiuta, ma la quota d’espressione è decisamente grigia.
La pellicola è divisa in sequenze come se fossero parti di un menù. Le portate, presentate simpaticamente dal capo del servizio, cercano di sdrammatizzare il tutto, ma anche queste non riescono nello scopo di far uscire il film dalla spirale del pesante. Pietanze che rimangono sullo stomaco allo spettatore, complici anche i flashback (troppi), che non aiutano ad uscire da un climax troppo carico e gravoso. 
Manca chiarezza ed anche noi come i protagonisti non usciamo dall’oscurità, anzi ci perdiamo irrimediabilmente in domande senza risposta. 
 
The Dinner cerca di mostrarci, e questo in parte lo fa, quello che si cela dietro alle società perbene dell’intero pianeta: una finta unità che nasconde ancora profondi odi razziali. Un’unione solo di facciata, perché le divisioni ci sono e sono riscontrabili nei fatti di cronaca nera. Povertà di condotta in mondo che si sente unito solo dai social network. Almeno quest’ultima riflessione ci rende la parte finale del pasto meno amara, un dolce digestivo, che suo malgrado non riesce a smaltire un’ottima materia prima dosata male.
 
David Siena
 
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