Diceva Karl Marx "Tutta la società si va dividendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte tra loro: borghesia e proletariato". L'ampia forbice tra gli elementi qui contrapposti dal filosofo tedesco dimostra come nella Storia ci sia continuamente un divario ideologico che somiglia di volta in volta alla forma che assume l'uomo nella società.
Da questo substrato intellettuale, scevro però dal mero intellettualismo o dalla ideologia autarchica di chi si crogiola nello stereotipo politico, Bong Joon-Ho costruisce la sua pellicola mattoncino su mattoncino, tenendo sempre ben presente la forza che una immagine può elicitare in chi la fruisce.
Ed è infatti di grande potenza iconografia, oltre che narrativa, l'opera coreana che, per la prima volta nella storia del cinema, si è accaparrata con decisione la statuetta più ambita degli Academy di Hollywood: quella per il miglior film (oltre che altre tre per il miglior lungometraggio internazionale, miglior regia e miglior sceneggiatura originale).
Le immagini di questo film, definito da molti come un capolavoro della cinematografia moderna, evocano, da sole, una potenza narrativa che elude dal rincorrere un manierismo formale asettico. Portano lo spettatore, insieme al regista, a sussultare a ogni cambio di scena e a seguire i personaggi sullo schermo come incantati da una coreografia che assurge a metafora del messaggio filmico. Ogni volta che i personaggi si muovono sullo schermo, ogni volta che salgono, scendono dalle scale, che cadono o che lottano, si ha la sensazione di assistere a una "danza cinematografica" in cui gli elementi scenografici e allegorici creano una vera e propria filosofia.
Ogni elemento è rappresentato con un senso estetico squisitamente cinematografico e ogni personaggio (dallo studente universitario giovane e intellettuale, all’imprenditore cultore dell’arte moderna; dall’adolescente arrivista, al padre di famiglia fallito; dall’ex atleta, al viziato e sedicente bambino prodigio; dalla ingenua aristocratica, all’aspirante studente universitario disoccupato…) esprime un puntuale punto di vista sulla scena della lotta di classe vista dagli occhi di un autore moderno.
Con la scena iniziale della finestra, vista dall'interno, del seminterrato dove vive la famiglia protagonista Ki-taek, il contraltare proletario, povero, disoccupato e maleodorante, della famiglia altoborghese dei Park, che presto entreranno in contatto tra loro in modi del tutto inaspettati, lo spettatore subito si trova a familiarizzare con ciò che sarà poi esplicitato e sviluppato lungo tutte le due ore successive. L’episodio iniziale vede infatti il padre di famiglia Ki-Taek esortare il figlio a lasciare le finestre aperte durante la disinfestazione della strada per approfittarne e fare in modo di godere i vantaggi di un servizio gratuito.
Questa scena sarà il prodromo di un domino che porterà l'intera famiglia ad insinuarsi tra i favori dei ricchi Park, altolocati rappresentanti di quella parte di società capace di fondare imperi, ma che necessita parassitariamente del lavoro altrui per svolgere le più elementari mansioni domestiche, come guidare o cucinare.
La metafora degli scarafaggi che vivono nei seminterrati, esseri da eliminare, allegoria di un parassitismo privo di vigore e di virtù, porta lo spettatore ad esporsi subito con un giudizio morale sulla famiglia proletaria. La loro condizione economica non sembra giustificare l'idea che si possa vivere di espedienti o l'idea che il fallimento possa essere una opzione realistica, seppure involontaria, ma mai resipiscente.
Gli stratificati livelli su cui s'inerpica il film di Bong Joo-Ho pongono però subito una successiva domanda: esistono più tipologie di parassitismo? O meglio ancora: chi possiamo definire il vero parassita nell'epoca moderna, in cui il concetto di classi sociali, seppure più sfumato e diversamente delineato, è sicuramente ancora integro nelle menti di chi la vive? Il regista ripone la risposta a questa domanda nella ossimorica ascesa verso l'introspezione.
E le scale rappresentano una materiale ascesa o discesa verso o dal simbolico scranno sociale del prestigio e dell’autorevolezza. Rendono i protagonisti del film, uomini svincolati dalla propria condizione parassitaria perché ne liberano la coscienza e ne rinchiudono l’emotività in un bozzolo di disillusioni. Perché non sempre e non ad ogni costo la guerra tra classi è una gara di supremazia. A volte quello per cui si lotta è una incosciente redenzione, un raggiungimento della presa d’atto che quello a cui si aspira non sempre è pianificabile (“L’unico piano che non fallisce mai è quello di non avere piani” dice il signor Kim), e che per ottenerlo, ciò di cui non si può fare a meno è essere coerente con la propria natura e con la propria identità.
Ma forse quello che il regista coreano vuole dirci è che in fondo siamo tutti parassiti di qualcuno o di qualcosa. Siamo tutti esseri in continuo assestamento. Tutti aspettiamo un’ascesa verso qualcosa che forse non arriverà mai ma a cui dovremmo ambire, facendo sì che le scale che aspiriamo a salire siano quelle dell’autocoscienza e del rispetto verso il prossimo.
Valeria Volpini