Un vecchio detto dice: “l’evidenza è la cosa a cui facciamo meno caso”. E’ davanti ai nostri occhi ogni santo giorno, ma è vittima dei nostri assurdi sistemi mentali, il più delle volte falsi, ridicoli e autodistruttivi. Tutto questo riassume buona parte della drammaturgia di Suburbicon, il nuovo lavoro di regia di George Clooney (il suo ultimo film da regista fu il discusso Monuments Men, del 2014), presentato in concorso al Festival del cinema di Venezia 2017. Sceneggiato dai fratelli Coen (Fargo), che scrissero la storia addirittura nel lontano 1986, forse già sapendo che il plot sarebbe stato efficacemente attuale anche oltre il futuro. Non proprio una novità dal punto di vista della messa in scena, ma rimane un cinema ferocie che mette sagacemente in mostra le malefiche perversioni che si celano dietro una comunità perbene e dalla splendida facciata.
I maldestri eventi, dei quali sono protagonisti Gardner Lodge (Matt Damon, qui a Venezia anche con Downsizing di Alexander Payne) e famiglia, sono il fulcro di questa cinica commedia umana, che vede l’impeccabile e patinata cittadina di Suburbicon esserne lo sfondo ideale. Siamo nel 1959, in pieno sogno americano. I Gardner sono vittime di una violenta irruzione. La loro casa è teatro di paura e avidità. Forte ripercussioni si scaglieranno su ogni membro della famiglia. Lodge, vista la flemma delle forze dell’ordine locali, cercherà da solo di far luce su quanto successo nella sua bella e colorata casetta. E’ il contesto dal quale inaspettati eventi faranno la loro comparsa. Il male più assurdo ed impensabile farà naufragare una volte per tutte l’aurea di assoluta conformità nella quale il paese si specchiava. I mostri sono comodamente seduti nel nostro giardino e solo i più piccoli con il loro sguardo innocente avranno l’onere di smascherarli.
La curata cittadina californiana ricorda in tutto e per tutto quella burtoniana di Edward mani di forbice. Generi diversi, ma con la stessa spietata morale.
George Clooney si limita a fare il compitino, guidato dai due quotati fratelli del Minnesota. Per carità anche il compitino può essere fatto male, ma il regista americano dimostra di conoscere bene il contesto in cui si trova ed inserendo note hitchcockiane mantiene integro l’interesse. L’ironica e la grottesca drammaticità delle sequenze più riuscite garantisce alla pellicola una solida ed allo stesso tempo sfacciata consistenza narrativa. Commedia nera dove le gag la fanno da padrone. Non declinano mai il messaggio, anzi lo rinvigoriscono giocando proprio sui contrasti. Non manca il ritmo e la compattezza.
Clooney recupera in pieno la filosofia coeniana frantumando le linee guida del genere Noir, proponendoci sì le stesse dinamiche del genere, ma ridicolizzando i carnefici, spogli di caratteristiche prettamente di genere e portati a figure insicure e sotto certi punti di vista comiche.
I protagonisti sono degli emarginati e confermano il fallimento del sogno americano. Personaggi (Julianne Moore nel doppio ruolo di Rose e Margaret, e lo stesso Damon) ben caratterizzati dalla scrittura, che inconsuetamente, dal punto di vista attoriale, risultano un po’ impacciati e sottotono.
In questo crollo continuo della razza bianca, che diventa lei minoranza, si scorge con insistenza la parabola del peccato originale mai ripulito. Un film che guarda volutamente nella direzione sbagliata. Verso l’assurdità dei comportamenti di questo mondo razzista e cieco. Non apertamente politico, lascia spazio e strada libera all’etica che ne è una colonna portante.
L’arrangiamento musicale è firmato da Alexander Desplat ed è un dichiarato omaggio alle musiche dei film di Alfred Hitchcock.
David Siena