Non abbiamo ricordo di momenti gioiosi che accumuniamo all’ex Jugoslavia, terra purtroppo maledetta dove il male cova fin da tempi dell'assassinio dell'Arciduca Ferdinando da parte di Gavrilo Princip. Correva l’anno 1914, momento storico di assoluto rilievo, che sancisce l’inizio della prima grande guerra per l’umanità. Nell’Hotel Europa, che fu il centro nevralgico d’accoglienza durante le Olimpiadi Invernali di Sarajevo del 1984, forse unico momento storico di mediatico interesse non belligero, sono in corso i preparativi per la celebrazione del centenario della prima Guerra Mondiale. L’hotel non è in un buon momento economico ed i suoi dipendenti sono pronti a scioperare. Quale momento migliore di questo, per richiamare un po’ di clamore, che consentirebbe ai lavoratori di ottenere lo stipendio che manca da due mesi. Un ferreo direttore sta cercando, in ogni modo possibile, di far saltare la protesta con l’aiuto di una indomita collaboratrice, ahimè figlia della leader del gruppo di manifestanti. Parallelamente agli eventi che avvengono nei corridoi dell’albergo, sulla terrazza si stanno svolgendo una serie di interviste proprio per ricordare la Grande Guerra. Infine per non farci mancare nulla, sono state messe delle telecamere nella suite dove alloggia l’oratore principale, indaffarato a ripetere il suo discorso, che di lì a poco lo vedrà raccontare gli eventi della guerra in Bosnia.
In questo clima da polveriera, Danis Tanovic, regista delle guerre slave, ha pensato bene di metterci il proprio zampino, dirigendo ed adattando il romanzo “Hotel Europe” di Bernard-Henry Lévy.
Il regista premiato con l’Oscar nel 2002 per il memorabile No Man’s Land riceve, per la seconda volta, il Gran Premio della Giuria al Festival di Berlino. Il primo Orso d’Argento lo vinse nel 2013 con An Episode in the Life of an Iron Picker, pellicola che mostrava i pesanti problemi sanitari della Bosnia-Herzegovina, suo paese d’origine.
Morte a Sarajevo non fa altro che mettere in evidenza i pregi ed i difetti di un regista accurato come Tanovic. Cineasta capace di guizzi di grazia e raffinatezza con la macchina da presa, che qui però, ancora una volta, sembra un po’ troppo legato al suo linguaggio. Modus operandi che alla lunga non disturba, ma di fondo non stupisce più come in passato. Rimane comunque un buon sapore, un’essenza di compiuto. Risplendente lucidità nel fotografare i sogni e gli incubi politici di una terra tribolata e senza pace. Si scorge anche la sua mano di esperto documentarista. Attraverso le voci delle interviste mette sul tavolo l’oggettivo che ha disintegrato la Jugoslavia. Con la sua onestà ci regala un “Birdman” incentrato sull’incomunicabilità atavica tra razze.
Sviscerando la sceneggiatura, che si sviluppa in una mattinata, si mettono in evidenza la disarmonie odierne del popolo slavo. Dal latino medievale “slavus”, che significa schiavo. Proprio come lo sono le popolazioni, schiave di se stesse. Senza comunicazione. Dialogo obbligato a stare alla base di un muro del quale non si vede la fine. Nei gironi danteschi dell’Hotel Europa risiede il messaggio asciutto e senza fronzoli di come le incomprensioni riescono a sferrare il proprio attacco e di come sotto forma di virus si sono fatte largo nella gente comune.
Consigliato a chi piace l’enfatizzazione, segno distinguibile di Danis Tanovic. La storia della Jugoslavia attraverso i suoi discussi monumenti. Anch’essi simboli di destini certi e prestabiliti, come quelli che usa l’autore, che con acume e sagacia imbastisce situazioni delle quali si può presagire l’esito e puntualmente diventano realtà.
David Siena