Forse al terzo lungometraggio e dopo una serie di documentari e cortometraggi, il regista Ivano De Matteo ce l’ha fatta a ritagliarsi un meritato spazio nel panorama del Cinema italiano. Con “Gli equilibristi” presentato nella prestigiosa rassegna veneziana ‘Orizzonti’ ha scaldato i cuori e le mani di molti critici e di tanti spettatori. Il giovane regista romano che spesso appare in veste d’attore in film di altri registi non ha dovuto cambiare registro per approdare a questo parziale successo. Poteva indurlo a fare una scelta diversa la scandalosa mancata distribuzione del precedente “La bella gente” del 2009 vincitore al festival francese di Annecy e che contava oltretutto su un cast di rilievo (Elio Germano, Iaia Forte, Monica Guerritore e Antonio Catania). Anche in quel film si percepiva la capacità di Ivano De Matteo di saper raccontare un’Italia vera, malata, narrata con durezza, ma anche con un grande respiro cinematografico tale da non poter essere confuso con un cinema di stampo documentaristico. La drammatizzazione dei personaggi che popolano le storie di De Matteo è forte ma mai eccessiva, se ti giri poco intorno te li ritrovi tutti davanti ogni giorno ed ogni sera, sia i suoi protagonisti che le figure più sfumate. Ecco che con “Gli equilibristi” un salto in avanti per Ivano avviene, grazie alla decisione di puntare l’obiettivo principale su un solo personaggio, senza ovviamente trascurare gli altri. Ovvero se il protagonista Giulio, un Valerio Mastandrea in stato di grazia, vede proiettato su di se il fascio di luce privilegiato, se lo seguiamo passo per passo dal risveglio la mattina fino a notte inoltrata, non da meno valgono per interesse drammaturgico le figure dei suoi colleghi di lavoro, della moglie e dei due figli, di tutta la fauna di emarginati che lungo la strada della disperazione si presenteranno davanti agli occhi sempre più smarriti di Giulio, un uomo prima forte abbastanza da decidere di accollarsi sacrifici e colpe sulle proprie spalle per poi non avere più la forza nemmeno di parlare.
Ho accennato all’inizio di un grande Mastandrea che forse in ruoli come questo da il meglio di se. Questa volta ha fatto il miracolo di avere la cinepresa sempre ‘addosso’ e di saperla sostenere in modo superlativo. Dalle battutesarcastiche, alle quali ci ha ormai abituato, di inizio film per arrivare all’abbrutimento fisico e morale del finale del film. Un vero campionario di recitazione. Addirittura da solo e senza sottofondo musicale avrebbe potuto sostenere anche quelle scene in cui sta fumando una sigaretta o se ne va sbandato per le strade di una Roma talmente bella e triste perché inusuale, mai vista prima al cinema. Proprio qui secondo me s’è stato un abuso delle musiche che troppo romantiche, troppo spesso e troppo forte hanno sottolineato alcuni momenti fondamentali del film.
Se ripensando a quelle scene avessimo potuto ascoltare i rumori di fondo di una città distante dal dramma di Giulio forse qualche corda in più avrebbe vibrato in noi. Come nella splendida scena del ritorno a casa per il cenone di fine anno, dove è il silenzio e l’imbarazzo dagli sguardi a diventare protagonista, dove anche il rumore di una forchetta e di un piatto rendono la scena ‘madre’. Ma ovviamente non si può chiedere a un autore di realizzare scene del quotidiano come lo farebbe un Bresson, un Rossellini o in tempi più recenti i fratelli Dardenne. Ivano ha il suo stile ed è giusto rispettarlo, dico solo che stavolta l’intensità delle immagini così come sono state riprese gli avrebbero permesso di evitare quella che per molti registi è un compendio a qualcosa che manca nel girato. Naturalmente terminerò il mio commento con un altro complimento: l’incipit del film e della tragedia familiare è nella scena iniziale fra gli scaffali dell’ufficio dell’Anagrafe dove lavora Giulio. Girata da maestro.
Vedere per credere. E l’invito si estende a tutto il film. “Gli equilibristi” è degno delle nostre emozioni e della nostra storia.
Marco Castrichella