Al suo 48esimo lungometraggio Woody Allen rende omaggio al cinema e al suo potere salvifico. A quel cinema ostaggio di un tempo passato, in cui cineasti come Bergman, Fellini, Truffaut, rendevano fruibili ai più il senso profondo della vita attraverso la settima arte.
E’ un ipocondriaco nostalgico il protagonista di Rifkins Festival: Mort Rifkins (Wallace Shawn) ex insegnante di cinema all’università e aspirante scrittore intrappolato da anni in un blocco creativo che cammina di pari passo con il suo barcollante matrimonio. Mort è sposato con Sue (Gina Gershon), press agent del giovane e affascinante regista Philippe Germain (Luis Garrel), nuova icona di una nouvelle vague del nuovo millennio e idolatrato da critica e pubblico per la sua ultima acclamata opera, presentata al San Sebastian film festival, scenario in cui si svolge la vicenda.
L’ultimo lavoro del regista newyorkese è condito da un coacervo di citazioni cinematografiche riviste nella sarcastica chiave alleniana, con una ironia mai compiacente e il coraggio dissacratore che omaggia bonariamente ma al contempo significativamente, senza mai scimmiottare.
Ritroviamo in questo film le tracce, ultimamente sbiadite, di un Woody Allen della prima ora, immerso egli stesso nella figura del protagonista, che domina a fatica le sue paure e le sue insicurezze, cedendo a vorticose e ossessionanti ipocondrie prive di fondamento.
Il giovane regista, suo contraltare artistico e rivale in amore, rappresenta tutto ciò che Mort ha sempre criticato e disprezzato: un cinema oleografico che poco ha a che fare con il vero senso della vita. Un cinema corrivo che strizza l’occhio alla critica, riecheggiando la vitalità degli autori del passato e vendendosi come strumento di risoluzioni politiche, che in una ironica iperbole arrivano addirittura a descrivere il film come arma di pace nella questione bellica palestino-israeliana.
E mentre Mort si barcamena tra un tentativo e l’altro di arrivare a una conclusione e una consapevolezza definitiva sul suo matrimonio e l’eventuale adulterio della moglie, conosce inaspettatamente una giovane e bella cardiologa: Jo Rojas (Elena Anaya).
Il continuo e stimolante confronto con la giovane dottoressa fa risorgere emotivamente il protagonista, inizialmente disegnato come un eterno perdente, un predicatore snob senza particolare talento, bravo a imbonire le persone che lo conoscono perché considerato un intellettuale, grazie alle capacità critiche di chi nutre un nostalgico rimpianto per l’arte del passato, esotica ed esistenzialista, così inarrivabile che lui stesso non riesce ad esserne degno. Il suo fallimento sta nell’impossibilità di portare a termine la stesura del romanzo della vita e nell’essersi ritrovato costretto quindi a insegnare cinema all’università. Se questa sua condizione, all’inizio, è considerata un ripiego, quando la storia prosegue, Mort si rende conto che forse quello che considerava una scelta di serie B, era diventato il segno del suo passaggio nel mondo. Abitato da crisi esistenziali e da paranoie psicologiche, il protagonista della storia riesce ad alleggerire la sua condizione grazie all’incontro con la dottoressa sfortunata in amore e appassionata di cinema.
Wody Allen torna alle origini e trova nuova linfa vitale da tematiche a lui care che rimangono i topoi preferenziali e più riusciti del suo cinema. Sono quelli più intimi, più autentici. Quelli che hanno a che fare con le ansie esistenziali, con le crisi psicologiche. Quelli che sembrano portare lo spettatore verso un baratro esistenziale, mettendolo avanti a verità incontrollabili ma che, inaspettatamente, lo sorreggono con una battuta laconica e impenitente.
Quelli che portano Mort a giocare a scacchi con la morte (Christoph Waltz) che finisce per dargli consigli pratici su come allungare la vita.
Perché se dalla morte non si può fuggire, che sia allora per lei più difficile raggiungerti.
Valeria Volpini