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Napoli Film Festival

Martedì 25 Settembre 2012 17:13 Pubblicato in News

Uno sguardo al passato sulle orme di Truffaut, e molto spazio agli esordienti e al cinema indipendente. Doppio passo quindi per questa XIV edizione del Napoli Film Festival che dal 24 settembre al 3 ottobre invaderà la città con proiezioni, incontri e workshop.

Da segnalare il cartellone della sezione “Incontri Ravvincinati” che, come ogni anno, porterà a Castel Sant’Elmo i protagonisti del nostro cinema. Il trittico di incontri comincia il 30 settembre con una conversazione con Maurizio Casagrande, interprete di tante commedie di Salemme ora passato dietro la macchina da presa con Una donna per la vita.

Il giorno dopo, lunedì 1 ottobre, toccherà invece a Renzo Arbore entrare nell’auditorium di Castel Sant’Elmo per una chiacchierata con il pubblico prima della proiezione del film-culto FF.SS. - Cioè: "...che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?.  Il 2 ottobre Tinto Brass si racconterà al pubblico napoletano presentando uno dei suoi film più “politici”, L’urlo, del1970. L'evento di chiusura del festival al Castello sarà, il 3 ottobre, la prima napoletana di Enzo Avitabile Music Life, il documentario firmato da Jonathan Demme e presentato con successo di pubblico e critica nella Selezione Ufficiale della 69ª Mostra del Cinema di Venezia.

 

Ma il Napoli Film Festival conferma anche la sua funzione di palestra di giovani cineasti non solo attraverso le sezioni di Schermo Napoli, che danno da anni l’opportunità agli esordienti di mettere alla prova le loro qualità e farsi conoscere. Anche quest’anno, infatti tornano le lezioni della sezione “Parole di Cinema”, condotta dal professore Augusto Sainati dell’Università Suor Orsola Benincasa.

Per il 2012 è pronto un parterre di professori di primo piano. Ad aprire il ciclo sarà il 28 settembre Renato Carpentieri che incentrerà la sua lezione al Grenoble sul film Porte aperte di Gianni Amelio. Dal 29 settembre, Parole di Cinema si sposta nella tradizionale sede dell’auditorium di Castel Sant’Elmo con, in sequenza, le lezioni del musicista Enzo Gragnaniello, dello sceneggiatore e regista Ivan Cotroneo, dei musicisti Pietra Montecorvino e Peppe Servillo e del regista francese Paul Vecchiali.

 

La kermesse napoletana anche quest’anno si pone come un appuntamento per riflettere su alcuni temi di attualità nel mondo del cinema inteso non solo come arte ma anche come motore economico. Se ne parlerà in due incontri a Castel Sant’Elmo. Il primo, sabato 29 settembre alle 18, con l’associazione Indinapolicinema, impegnata a promuove il cinema indipendente in città. In quella sede verrà illustrata la proposta di Legge Regionale per il cinema indipendente.

Martedì 2 ottobre, alle 11, ci sarà invece una discussione sul tema “L’accesso al mercato audiovisivo internazionale. Istruzioni per l’uso per giovani produttori” a cui sono attesi Alain Modot, Vicepresidente Media Consulting Group di Parigi, Claudia Bedogni, Head of Acquisitions&Co-productions, SATINE FILM Srl e Giuseppe Massaro, Direttore Media Desk Italia.

 

Tra gli eventi speciali, infine, spiccano il 30 settembre la presentazione del volume Cronache Futuriste (1932-1935) di Emanuele Caracciolo a cura di Salvatore Iorio e il lancio, in anteprima nazionale martedì 2 ottobre, di Legends - la serie Web, la prima webseries fantasy interamente prodotta a Napoli.

Magic Mike

Sabato 22 Settembre 2012 14:02 Pubblicato in Recensioni

L'ultimo lavoro di Soderbergh è una scelta adulta e stanca che ci trasporta in un mondo da clichè preconfezionato: quello dei club di streaptease maschile, dove uomini formato Big Jim si apprestano a fomentare orde di donne più o meno giovani.
Per un pubblico pronto ad un certo tipo di esposizioni mediatiche, non esiste più alcun tabù ad approcciarsi a tale universo, pur considerando la prospettiva ribaltata: non sono più donne che si spogliano per uomini ma uomini che si esibiscono per il puro piacere di donne paganti e compiacenti. La mercificazione del corpo è ormai sdoganata e all'ordine del giorno per far scalpore, pur continuando a garantire quel tocco di torbido che non guasta per un'ambientazione cinematografica. Lo sfondo di una forte crisi economica, sottolineata da qualche battuta ad hoc, con un gancio dato dai soldi facili, è il contorno adatto per ricollocare sociologicamente la vicenda. Il trentenne Mike (Channing Tatum), intraprendente tuttofare alla ricerca di realizzare il proprio Sogno Americano, si muove in questo contesto molto agilmente e a ritmo di danza. Un personaggio con basi solide, che ha dei progetti concreti, non un perdigiorno (e in questo c'è della retorica) che avanza lungo l'asse della propria crescita personale, con le idee chiare su quello che vuole fare e diventare. L'idea di ambientare un film nel mondo degli spogliarellisti covava già da diversi anni nella mente di Tatum, che a 18 anni per alcuni mesi si era trovato a svolgere proprio quell'attività, ma l'incontro con Soderbergh è stato decisivo per poter realizzare un progetto dalle mille potenzialità, come sostiene lo stesso regista. La pellicola ruota attorno alla figura di Mike, ragazzo dalle mille risorse, di giorno muratore, di notte (s)veste i panni del ricercatissimo Magic Mike.   Mike incontrerà Adam (Alex Pettyfer), parecchio più giovane di lui, che prende sotto la sua ala protettiva iniziandolo allo scintillio dei club, i due diventano inscindibili, compiendo il medesimo percorso che Mike aveva già attraversato anni prima, fino a quando Alex non decide di volgersi a tutt'altra via. Il discorso sull'evoluzione individuale si avverte fortemente, filo conduttore di tutto il lavoro, ripiegando in un lieve intento moralizzatore quando si parlerà proprio di scelte di vita. Il tutto risulta godibile, spiccano le ottime performance legate al ballo di Tatum che già in passato (Step Up) aveva dimostrato doti di ballerino. Tuttavia un senso di poco spessore aleggia costantemente nell'aria. Sarà per dei personaggi troppo stereotipati come la figura di Dallas, il capo del Night (interpretata da un Mattew McConaughey con deliri di onnipotenza troppo eccessivi e a tratti imbarazzanti), o per la scarsissima espressività emotiva del protagonista stesso che il film scade in una commedia dove luci, lustrini e qualche lacrimuccia sul senso della vita e sul gioco di maschere che ognuno di noi attua, non bastano a giustificare il tutto. Poca originalità la si ritrova persino in un finale che per lo meno riesce a coinvolgere, strappandoci un tenero sorriso.

Chiara Nucera
 

Gli Equilibristi

Mercoledì 19 Settembre 2012 15:43 Pubblicato in Recensioni

 

Forse al terzo lungometraggio e dopo una serie di documentari e cortometraggi, il regista Ivano De Matteo ce l’ha fatta a ritagliarsi un meritato spazio nel panorama del Cinema italiano. Con “Gli equilibristi” presentato nella prestigiosa rassegna veneziana ‘Orizzonti’ ha scaldato i cuori e le mani di molti critici e di tanti spettatori. Il giovane regista romano che spesso appare in veste d’attore in film di altri registi non ha dovuto cambiare registro per approdare a questo parziale successo. Poteva indurlo a fare una scelta diversa la scandalosa mancata distribuzione del precedente “La bella gente” del 2009 vincitore al festival francese di Annecy e che contava oltretutto su un cast di rilievo (Elio Germano, Iaia Forte, Monica Guerritore e Antonio Catania). Anche in quel film si percepiva la capacità di Ivano De Matteo di saper raccontare un’Italia vera, malata, narrata con durezza, ma anche con un grande respiro cinematografico tale da non poter essere confuso con un cinema di stampo documentaristico. La drammatizzazione dei personaggi che popolano le storie di De Matteo è forte ma mai eccessiva, se ti giri poco intorno te li ritrovi tutti davanti ogni giorno ed ogni sera, sia i suoi protagonisti che le figure più sfumate. Ecco che con “Gli equilibristi” un salto in avanti per Ivano avviene, grazie alla decisione di puntare l’obiettivo principale su un solo personaggio, senza ovviamente trascurare gli altri. Ovvero se il protagonista Giulio, un Valerio Mastandrea in stato di grazia, vede proiettato su di se il fascio di luce privilegiato, se lo seguiamo passo per passo dal risveglio la mattina fino a notte inoltrata, non da meno valgono per interesse drammaturgico le figure dei suoi colleghi di lavoro, della moglie e dei due figli, di tutta la fauna di emarginati che lungo la strada della disperazione si presenteranno davanti agli occhi sempre più smarriti di Giulio, un uomo prima forte abbastanza da decidere di accollarsi sacrifici e colpe sulle proprie spalle per poi non avere più la forza nemmeno di parlare.

Il soggetto scelto dalla compagna del regista, la bravissima Valentina Ferlan, che ha scritto anche la sceneggiatura insieme a Ivano, è tutto qui. Un soggetto che, come lo fu per il francese “A tempo pieno” di Laurent Cantet, ha la forza della spaventosa attualità e va giù duro sulle colpe di una società che schiaccia come insetti le esistenze di numerose famiglie del ceto medio. Per queste famiglie che alla fine del mese devono far quadrare i conti con i salti mortali, da veri equilibristi, incappare in un incidente di percorso come potrebbe essere una separazione, può diventare letale. In una delle battute più significative del film viene espresso questo elementare concetto: “Giulio, lo vuoi un consiglio? Tornatene a casa, il divorzio è per quelli ricchi.” Al contrario di quello che è stato uno dei migliori film della scorsa stagione, il capolavoro iraniano “Una separazione” di Asghar Farhadi, Ivano De Matteo non vuole raccontare la cronaca della separazione e quello che questa comporta a livello di legami sentimentali e intellettuali nella coppia. Lui affonda il suo sguardo e quindi il nostro, sulla perdita concreta dei protagonisti, di un padre che lentamente, inesorabilmente vede allontanarsi la casa, la moglie e i due piccoli figli sperando sempre di poter riassestare tutto grazie al lavoro, doppio, triplo se possibile. La crisi in questo senso ti affonda. Un amore finito può darti dolore ma l’aspetto materiale di una separazione ti trascina giù, ti ritrovi ad affogare per non voler chiedere aiuto. Forse perché sei convinto di saper nuotare e di arrivare a riva sano e salvo.

Ho accennato all’inizio di un grande Mastandrea che forse in ruoli come questo da il meglio di se. Questa volta ha fatto il miracolo di avere la cinepresa sempre ‘addosso’ e di saperla sostenere in modo superlativo. Dalle battutesarcastiche, alle quali ci ha ormai abituato, di inizio film per arrivare all’abbrutimento fisico e morale del finale del film. Un vero campionario di recitazione. Addirittura da solo e senza sottofondo musicale avrebbe potuto sostenere anche quelle scene in cui sta fumando una sigaretta o se ne va sbandato per le strade di una Roma talmente bella e triste perché inusuale, mai vista prima al cinema. Proprio qui secondo me s’è stato un abuso delle musiche che troppo romantiche, troppo spesso e troppo forte hanno sottolineato alcuni momenti fondamentali del film.

 

Se ripensando a quelle scene avessimo potuto ascoltare i rumori di fondo di una città distante dal dramma di Giulio forse qualche corda in più avrebbe vibrato in noi. Come nella splendida scena del ritorno a casa per il cenone di fine anno, dove è il silenzio e l’imbarazzo dagli sguardi a diventare protagonista, dove anche il rumore di una forchetta e di un piatto rendono la scena ‘madre’. Ma ovviamente non si può chiedere a un autore di realizzare scene del quotidiano come lo farebbe un Bresson, un Rossellini o in tempi più recenti i fratelli Dardenne. Ivano ha il suo stile ed è giusto rispettarlo, dico solo che stavolta l’intensità delle immagini così come sono state riprese gli avrebbero permesso di evitare quella che per molti registi è un compendio a qualcosa che manca nel girato. Naturalmente terminerò il mio commento con un altro complimento: l’incipit del film e della tragedia familiare è nella scena       iniziale fra gli scaffali dell’ufficio dell’Anagrafe dove lavora Giulio. Girata da maestro.   

Vedere per credere. E l’invito si estende a tutto il film. “Gli equilibristi” è degno delle nostre emozioni e della nostra storia.

Marco Castrichella 

L'intervallo

Martedì 18 Settembre 2012 20:01 Pubblicato in Recensioni

C’era un piccolo film fra quelli presentati a Venezia 69 nella sezione ‘Orizzonti’. Tanto piccolo da stupire per bellezza e originalità, come una perla rara. Il lavoro del regista Di Costanzo, proveniente dal serbatoio sempre più ricco di idee che è quello del Cinema-Documentario, è stato semplice ed essenziale ovvero come raccontare il disagio dei giovanissimi in una terra sottomessa in larga parte alla malavita. Stiamo parlando di Napoli e di camorra ovviamente. La prima scelta vincente è stata il linguaggio, una scelta di recitazione di stampo “teatrale”, sullo sfondo di un vecchio e cadente collegio abbandonato che diventa la ‘prigione’ dei due ragazzi Salvatore e Veronica. Il primo costretto a controllare la seconda per una giornata, una sola giornata delle loro vite rubate da sempre e per sempre al gioco e alla fantasia. Un intervallo dunque, proprio quello del titolo, nel quale bene o male la vera natura dei due adolescenti ha il sopravvento sul brutto, sullo squallido, sulla violenza. Seconda scelta vincente è stata quella di puntare sulla spontaneità emanata dai due giovani attori al loro primo ruolo, due ragazzi di strada per una recitazione fra il saggio scolastico e la dialettica realista, quasi disarmante tipica di questa età e di queste zone. Salvatore recita con il fisico, con gli occhi, è timido e conciso ma non perde un passaggio, la vita se la deve già guadagnare e sa dove mettere i piedi e soprattutto a chi non pestarli. Veronica invece è sfrontata, orgogliosa di una bellezza acerba che non esiste, deve ancora arrivare e quando parla è una lama di coltello, con quella cadenza ‘eduardiana’ capace di ridimensionare l’importanza di ogni cosa.E infine altro grande pregio del film è il fatto, a mio giudizio decisivo, di riuscire in un contesto così duro a non mostrare nessuna arma, forse un cacciavite utile per spaccare il ghiaccio per le granatine, nessuna pistola, non una violenza, al massimo uno schiaffo sul volto di Salvatore, non una goccia di sangue se non quella di un ginocchio sbucciato. C’è si, una presenza forte della violenza, ma che si odora soltanto, non viene mai messa in scena. La violenza trasuda, grazie alla fotografia magistrale di Luca Bigazzi, dai muri del vecchio edificio e dal giardino-giungla che lo circonda. Un labirinto dove sono chiusi Salvatore-Teseo e Veronica-Arianna che anche quando riescono ad uscire fisicamente si ritrovano in un giardino anch’esso labirinto inestricabile. E quando Veronica troverà l’uscita la paura di perdere o meglio di far accadere qualcosa di brutto a Salvatore, la porterà indietro sui suoi passi a difendere la propria innocenza e quella del suo carceriere. C’era un piccolo film, dicevo all’inizio del commento, ma alla fine “L’intervallo” è il film che in tutta la Mostra veneziana ha ottenuto più riconoscimenti. Premi minori, certo, ma ne ha ottenuti addirittura sette!! Molti di più del Leone d’Oro “Pieta” o degli attesissimi nuovi film di P.T. Anderson e T. Malick. E’ bello elencarli e ricordarli tutti e sette anche se sono certo che i riconoscimenti di Venezia per “L’intervallo” non sono finiti qui: Premio Fipresci (della Federazione internazionale dei critici cinematografici), Lanterna Magica (dei Cinecircoli Giovanili Socioculturali in collaborazione con il Comitato per la cinematografia dei ragazzi); Pasinetti, del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici; Fedic (Federazione Italiana dei Cineclub); CICT-Unesco Enrico Fulchignoni; l'Aif-Forfilmfest e l'Uk-Italy Creative Industries Award-Best Innovative Budget.

 

Altrettanto bello è citare il monologo di apertura che meglio e più forte di qualsiasi mio racconto può dare l’idea perfetta di questa storia:

“Succede che gli uccelli che vivono in gabbia,

 anche se gli apri la porta non fuggono.
I cardellini, a volte, dalla rabbia si scagliano contro le sbarre.

Ma pure loro, se gli apri la griglia non scappano.

Se ne stanno lì, in un angolo, a guardare Forse sono tentati di volare via, ma non trovano il coraggio.

Mio padre mi ha spiegato che tra gli uccelli piccoli
il pettirosso è quello più coraggioso,
non ha paura di niente.

A volte lo senti che canta di notte, per sfidare il buio.
Anche l’usignolo canta di notte, ma solo quand’è in amore.

Allora può succedere che anche un orecchio esperto
scambia un canto di sfida per un canto d’amore…"

Marco Castrichella