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La prima neve

Mercoledì 09 Ottobre 2013 10:48

È abbastanza evidente, pur non conoscendo la sua traiettoria cinematografica, che dietro la macchina da presa di “La prima neve” non c’è solo un bravo regista, ma anche un sociologo, esperto di comunicazione sociale, personalmente impegnato nei temi della cooperazione internazionale. Approdato alla fiction con “Io sono li”, dopo aver girato documentari che narrano i mondi albanesi, africani, zingari, Andrea Segre si è imposto all’attenzione di critica e pubblico per la sua capacità di raccontare storie di persone e luoghi attraverso una cifra stilistica assolutamente personale, riconoscibile. La sua umanità è sempre costituita da quei soggetti marginali che, più di altri, vivono sulla propria pelle le contraddizioni di un capitalismo cieco e di uno stravolgimento del senso di comunità. Che si tratti di documentari o di fiction – in Segre, rintracciando quasi intuitivamente una tendenza fortunata del cinema contemporaneo,  il confine non è molto netto – lo spettatore sperimenta immediatamente quella sorta di straniamento rispetto alla sua realtà, a cui segue una totale immersione nella realtà raccontata ed un ritorno alla propria, arricchito da una serie di spunti alla riflessione che non possono fermarsi ai titoli di coda. Si potrebbe in un certo senso affermare che le sue storie accompagnano lo spettatore oltre lo spettacolo (ammesso che ci sia ancora spazio per un’autenticità non fagocitata all’interno dell’industria del tempo libero)

Anche con “La prima neve”, secondo lungometraggio dell’autore veneto presentato a Venezia ’70 nella sezione Orizzonti, Segre ci restituisce un mondo lontano dai riflettori mediatici in cui i personaggi si incontrano dentro ad un territorio che molto spesso divide anziché unire. Il paesaggio ostico e affascinante di questo piccolo comune del Trentino, ai piedi della Val de Mocheni, narra la storia di Deni, fuggito dal Togo e poi dalla Libia, approdato in Italia e rimasto vedovo, padre di una bambina di cui non riesce a prendersi cura perché ha lo stesso volto della donna da cui si è dovuto tragicamente separare. Nello spazio dell’attesa dei tempi lunghi della burocrazia che gli permetterà di raggiungere Parigi, Deni lavora per un anziano apicoltore, nonno di Michele, ragazzo “problematico”, anche lui segnato da una distacco improvviso da un padre che ha perso la vita proprio in quelle montagne innevate. L’empatia non può che far nascere un rapporto di mutuo rispetto e condivisione: Deni e Michele si riconoscono l’uno nell’altro in quanto soggetti mutilati dell’affetto più forte, entrambi in collisione con coloro che rappresentano i reduci di quell’affetto (la figlia di Deni, la madre di Michele) e che impongono loro di fare i conti con una realtà che non può essere accettata. Quest’incontro fra due solitudini stabilisce un dialogo altrimenti impossibile, un dialogo che apre possibilità nuove per entrambi. “Fare cinema è – per Segre - concedere spazio allo sguardo, per rendere possibile l’incontro che è contaminazione” L’incontro fra differenze – non macchiato, come nel precedente “Io sono li”, dal razzismo identitario dei locals - è detonatore di un nuovo rapporto, sia con gli altri esseri umani che con la natura. 
I luoghi diventano personaggi, veri e propri attori con cui lo stesso regista entra in rapporto per scoprire come possono interagire emotivamente nel racconto. L’impianto narrativo de “La prima neve” è, infatti, indissolubilmente legato ai suoi boschi, al suo popolo, e in particolare ai bambini. “Avevo bisogno di bambini ancora capaci di vivere e giocare nei boschi, di arrampicarsi sugli alberi, di lanciarsi in discesa lungo prati e pendii, e sono loro che mi hanno guidato nella valle. È seguendo loro che ho imparato a conoscerla”. 
A tratti pericolosamente didascalico, “La prima neve” poggia su di una struttura che rivela, passo dopo passo, il vissuto e la complessità di persone piuttosto che personaggi, di modo che una vitale autenticità degli esseri umani al centro del racconto ci impedisce quasi di percepire il meccanismo illusorio del cinema che trasforma un attore in un personaggio. Il confine fra documento e finzione si fa labilissimo, caratteristica che, se da un lato trattiene lo spettatore dall’immersione emotiva nelle maglie del racconto, d’altro lato lo previene da facili retoriche piagnucolanti. La sensazione che ci lascia, a tratti amara, a tratti straripante di umanità, non è mai disgiunta da una certa attività del pensiero che ci costringe a fare i conti con quelle persone e con quel territorio.
Resta da capire se la scarsa attenzione ricevuta a Venezia sia totalmente amputabile a canonici aggiustamenti in seno alla giuria (con il Leone d’oro a Rosi e la Coppa Volpi a Elena Cotta non c’era spazio per un altro film italiano) o ad una riflessione che ha coinvolto pubblico e critica in un paragone dal quale “Io sono li” è uscito vincente.
 
Elisa Fiorucci

La sedia della felicita'

Lunedì 08 Settembre 2014 11:06
Bruna (Isabella Ragonese), graziosa estetista tradita dal fidanzato e pressata dai
creditori, riceve una confessione in punto di morte da una cliente, a cui lima le unghie in carcere. Norma Pecche (Katia Ricciarelli), madre di un famoso bandito, ha nascosto un tesoro di gioielli in una delle otto sedie del suo salotto. Sprezzante del pericolo, Bruna comincia una rocambolesca ricerca delle sedie, sequestrate dal tribunale e vendute separatamente all'asta. Ad aiutarla ci sono Dino (Valerio Mastandrea) disilluso tatuatore divorziato, e Padre Weiner (Giuseppe Battiston) prete cattolico con il vizietto dei videopoker. 
La commedia è un'arte nobile e  nel suo ultimo film Carlo Mazzacurati ne mette in scena i codici con sicurezza e dedizione. 
Scomparso lo scorso gennaio dopo una lunga malattia, il regista padovano conclude con un sorriso una carriera lunga più di trent'anni (cominciò come aiuto regista per Nanni Moretti), chiudendo anche una brillante trilogia di commedie, iniziata nel 2000 con La lingua del santo e proseguita nel 2011 con La passione.
Tornano immancabilmente due elementi centrali della filmografia di Mazzacurati: lo sfondo della tanto cara provincia veneta e la figura dei losers, piccoli uomini inadeguati a raggiungere il proprio obiettivo.
La trama ricorda in parte quello del romanzo russo Le dodici sedie di Il'ja Arnol'dovič Il'f e Evgenij Petrovič Petrov, già adattato per il cinema da Mel Brooks nel 1970 (Il mistero delle dodici sedie) e al quale Mazzacurati ammette di essersi ispirato in fase di scrittura. Il romanzo, ambientato nella Russia del 1927, racconta le imprese di un nobile zarista decaduto e di un astuto truffatore per recuperare dei diamanti nascosti nell'imbottitura di un antico servizio di dodici sedie, saccheggiate durante la rivoluzione d'ottobre. Ma a parte l'idea iniziale, il film di Mazzacurati vira verso altri obiettivi.
Nella loro ricerca, i protagonisti si imbattono in una serie di situazioni e personaggi surreali dello spaccato veneto - e non solo -, sempre in bilico fra le ombre di un passato diffidente e bifolco, e quelle di un futuro multietnico, che si affaccia timidamente. Si passa dal vile squallore del Mago Kasimir (Raul Cremona), celebre fenomeno da baraccone regionale, all'inquietante ambiguità della comunità cinese, da un fioraio indiano estorsore (Marco Marzocca), ai due singolari pastori confinati nelle montagne sperdute ed estranianti del Trentino. Estremi opposti che mettono in luce le contraddizioni di un paese tanto proiettato verso il futuro quanto ancora chiuso e reazionario. 
Non è un segreto che in Veneto, molto più che in altre regioni d'Italia, le istanze qualunquiste e filo-razziste della Lega Nord, data per morta due anni fa poi tornata sorprendentemente alla ribalta, siano ancora maggiormente radicate.
Questo legame morboso non è mai palesato all'interno film da chiassose ambizioni civili, ma osservato e descritto con “la giusta distanza” - come recita il titolo di uno dei più celebri film di Mazzacurati - e delinea proprio quel contesto sociale che tende a trasformare i protagonisti in outsiders del loro tempo.
La ricerca del tesoro diventa quindi un pretesto per mettere in scena le diverse facce di una regione, a sua volta specchio dell'intera penisola, e le mutazioni subite da essa negli ultimi decenni.
Mazzacurati disegna i suoi protagonisti con un affetto smisurato – compresa la tragicomica uscita di scena di Battiston -, che sfocia a volte in un affettuoso paternalismo. 
La tenera intesa fra Dino/Mastandrea e Bruna/Ragonese è talmente scontata che nasce da sé, senza però rispondere alla canonica formula “elemento amoroso = compromesso commerciale”, sulla quale la maggioranza delle commedie romantiche italiane basano un intero plot - vedi Fausto Brizzi o il sopravvalutato Paolo Genovese.
Il trio Ragonese-Mastandrea-Battiston azzecca perfettamente i tempi comici delle situazioni, ma il film conta anche una serie di “amichevoli partecipazioni”: Antonio Albanese, nel duplice ruolo di due burberi gemelli, Milena Vukotic, nominata ai David di Donatello come miglior attrice non protagonista, Silvio Orlando, Fabrizio Bentivoglio e Roberto Citran.
È come se Mazzacurati avesse voluto riunire nel suo ultimo film gli attori che più fedelmente lo hanno servito nel corso degli anni. 
La sedia della felicità è infatti un ideale film-testamento, in cui il regista ripercorre i luoghi e i volti che lo hanno accompagnato nel suo cinema e nella sua vita personale; compreso il soggiorno a Roma, rappresentato iconograficamente dalla new entry Mastandrea, tatuatore romano finito a Jesolo per seguire una donna. 
Una ballata dedicata ai perdenti, priva sia dell'eroe senza macchia o del cinico senza redenzione, ma filtrata attraverso una sensibile malinconia, tipica del regista.
Il modo migliore per ricordare Mazzacurati con un sorriso. 
 
Angelo Santini