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Autopsy

Mercoledì 08 Marzo 2017 13:41
L'universo horror ha lungamente esplorato il mondo dei morti per mezzo di pellicole più o meno riuscite. In molti hanno trattato le esperienze post mortem e l'agghiacciante fenomeno della resurrezione degli esseri non vivi, più noti come zombie. Tuttavia pochi lavori di questo genere hanno sapientemente intrapreso la strada del mondo legato alla medicina legale. La figura del cadavere suscita un naturale senso di sgomento in quasi tutti gli esseri umani, conducendo di conseguenza ad uno stato di terrore e ribrezzo. La presenza di numerosi cadaveri contorna sovente l'atmosfera di cimiteri o obitori, ambienti che affascinano per la lugubre caratteristica di essere attorniati dalla morte. Ed è proprio all'interno dell'obitorio Tilden che ha inizio la macabra vicenda narrata dal regista norvegese André Ovredal al suo debutto cinematografico in lingua inglese. Tommy Tilden (Brian Cox)  è un medico legale che esercita da moltissimi anni e che gestisce assieme al figlio Austin (Emile Hirsch) un obitorio collocato proprio al piano inferiore della propria abitazione. Padre e figlio lavorano in simbiosi e con molta passione, un affiatamento che permette loro di vivere e lavorare nel massimo dell’equilibrio mentale. Un giorno lo sceriffo del posto arriva con un caso piuttosto particolare, si tratta del cadavere di una giovane donna in perfetto stato e apparentemente illeso rinvenuto nel seminterrato di un’abitazione protagonista di una scena del crimine. I due dovranno fare i conti con un episodio alquanto anomalo e incongruente, infatti sebbene il cadavere presenti una condizione esteriore di perfetta conservazione, all’interno di esso gli organi sono estremamente danneggiati se non addirittura vessati. Tutti gli elementi a disposizione rimandano ad una morte lenta, dolorosa, procurata da efferrate torture, tuttavia l’impossibilità che queste ultime non abbiano minimamente danneggiato l’involucro esterno pone al centro del caso sempre più interrogativi e perplessità. Nel frattempo fenomeni oscuri avvengono all’interno dell’obitorio, Tommy e Austin Tilder avranno ben presto a che fare con qualcosa di molto più lugubre di uno strano cadavere. Autopsy si presenta come un horror molto diverso, lontano anni luce dalla snervante serialità degli splatter o delle pellicole capaci solamente di saziare il grande pubblico e lasciare a bocca asciutta i veri amatori del genere. André Ovredal realizza un’opera in cui non si rinuncia a tensione e momenti raccapriccianti, ma dove si cerca di canalizzare in modo ricercato il climax proprio nella gestione della suspence. Una prima parte molto particolare e coinvolgente permette di entrare entusiasticamente in un ambiente agghiacciante e allo stesso modo conturbante, quale l’obitorio. La coerenza nell’indagine svolta dai due medici sfiora la perfezione creando un raro momento di curiosità misto a terrore. Autopsy è un film ben realizzato che gode di un ottimo cast, ma che fa della propria forza in maggior misura la capacità di bloccare lo spettatore in uno stato di trepidazione, in cui nulla viene goffamente riposto nel limbo della banalità. 
 
Giada Farrace

The Ring 3

Giovedì 16 Marzo 2017 18:54
Esistono film che hanno la straordinaria capacità di togliere il sonno senza mai mostrare una goccia di sangue, senza eccedere in sequenze splatter. Storie lugubri e ipnotiche, in grado di sedurre anche lo spettatore più scettico per la loro naturale predisposizione al brivido. 
Nel lontano 1991 lo scrittore giapponese Koji Suzuki scrive quello che diventerà uno dei suoi più noti romanzi, Ringu. La storia narrata nel libro ruota attorno all’indagine di Asakawa Kuzuyuki, un giornalista in cerca di risposte sulla misteriosa morte della nipote avvenuta a causa di un attacco cardiaco. Egli scoprirà ben presto che come lei altri ragazzi hanno perso la vita nella stessa modalità ed alla stessa ora. In relazione a questi raccapriccianti decessi c’è una videocassetta, veicolo di una lugubre maledizione capace di provocare cessazione di vita a chiunque la guardi.  Una storia che raccoglierà in poco tempo consensi in tutto il mondo, fino a divenire un manga, e dare vita a una saga di film horror sempre made in Japan. Proprio  nel 1998 esce il primo “Ringu” diretto da Hideo Nakata, destinato a divenire un cult del cinema di genere, spianando la strada a svariati sequel. Nel giro di pochi anni le macabre vicende di Samara seducono anche il territorio d’oltreoceano, e nel 2002 arriva la prima versione made in Usa diretta dal magnetico Gore Verbinski. Il titolo è The ring, e stavolta a indagare sul caso è una donna, Rachel Keller, interpretata da un’intensa Noami Watts. La pellicola convince per la rigorosa cura nel dettaglio, per le ambientazioni, e per la coerenza. Un ottimo remake degno di nota, che lascia il segno, e stuzzica la curiosità anche del pubblico che non conosce la saga giapponese. Il caso di Samara si impianta nell’immaginario degli amanti del cinema horror, terrorizzando un’intera generazione, divenendo fonte d’ ispirazione per molti altri film. 
Così la Paramount Pictures decide di riprovarci, e nel 2017 vede per la prima volta la luce Rings (The ring 3 in Italia), diretto dal giovane regista spagnolo F. Javier Gutiérrez. 
Il lavoro di Gutiérrezz in apparenza si presenta come sequel di The ring 2 (2005), ma nel concreto ha tutte la carte in regola per risultare un remake insapore del primo film del 2002. 
La pellicola, che si allaccia a un leitmotiv di pseudo tensione, è infatti abile solo nel disgustare e stancare per le innumerevoli ingenuità. Lo script è debole ai limiti dell'accettabile, e pone l’accento su un legame piuttosto instabile con il film di Verbinski. Rings ha pertanto le fattezze di una dissertazione approssimativa e sciatta della storia magistralmente narrata nel 2002. L'indagine condotta dai due protagonisti Julia e Holt (Matilda Lutz e Alex Roe), è priva di meticolosità e totalmente incapace a creare situazioni di tensione. Monocorde l'atmosfera che permea la vicenda, come privo di sfaccettature è il personaggio di Samara, maltrattato in termini di particolari ed elementi inquietanti. Eclissata una delle figure più conturbanti del recente cinema horror, Gutiérrez orienta maggiore interesse sulle dinamiche subito precedenti la nascita della strana bambina. Si indaga attorno alle origini e all’identità della madre di Samara, Evelyn, vissuta in una sperduta frazione della California, e protagonista di un'oscura e minacciosa storia.
Forse solo la verità sul passato di Evelyn potrà spezzare la fatale maledizione della cassetta, e placare una volta per tutte l’inarrestabile Samara. 
Ma le ricerche sulla figura di Evelyn e la conseguente ricostruzione del suo passato non vengono restituiti in modo meticoloso e trascinante da poter coinvolgere e inquietare.
Rings tesse una trama di eventi tra loro scollegati e avvolti da uno spesso velo di inverosimiglianza, al punto da intrappolare anche lo spettatore più sprovveduto in un labirinto di noiosa stasi. Un lavoro che purtroppo non riesce a superare la prova, e che non convince neanche un pò.  La paura si genera iniettando piccole dosi di angoscia, giocando per mezzo del turbamento con l'immaginario dello spettatore allo scopo di sorprenderlo  mediante inaspettati shock. Ogni pellicola horror necessita di innumerevoli accorgimenti per non cadere nel banale. Spaventare in mezzi termini, equivarrebbe ad accendere la luce in una notte di tempesta.
 
Giada Farrace

Moglie e Marito

Mercoledì 12 Aprile 2017 13:26
Con empatia si intende comunemente quella capacità di immedesimazione e compenetrazione nei confronti dei sentimenti altrui. Di derivazione greca, il termine empatia significa alla lettera “sentire dentro”, ed era utilizzato in antichità per descrivere il rapporto di stretta partecipazione emotiva che congiungeva pubblico e cantore. Attraverso tale atteggiamento si è come riflessi in uno specchio, condividendo lo stato d'animo di chi è di fronte, quasi fosse la propria rappresentazione. Una capacità che appartiene a pochi eletti, e che costituisce una vera ricchezza d'animo. In assenza di empatia ci si allontana da chi ci circonda, finendo per ignorare alcuni tra i più importanti aspetti delle nostre relazioni, quali la tolleranza e la complicità. E’ cio che accade a Sofia e Andrea, moglie e marito da ben dieci anni, ma oramai lontani anni luce da quel rapporto saldo e vivace dei primi tempi. In una continua altalena di incomprensioni e polemiche, i due pensano al divorzio. Tuttavia, a seguito di un esperimento scientifico di Andrea, i coniugi si ritroveranno a fare i conti con una situazione alquanto fuori dal comune: Andrea è nel corpo di Sofia, e Sofia in quello di Andrea. Fino a quando Andrea non riuscirà a trovare una soluzione per risolvere questo inconveniente l’uno dovrà adattarsi alla vita e ai ritmi dell’altro. Due realtà diametralmente opposte si invertiranno dando origine a innumerevoli disastri e situazioni esilaranti. Moglie e Marito è apparentemente una semplice commedia imperniata sull’equivoco. Tuttavia, quello diretto da Simone Godano è molto più che un piacevole film su uno scambio di identità. L’immersione  l’uno nella vita dell’altra, è un’esperienza che cambierà per sempre il rapporto di Sofia e Andrea, dapprima fievole e quasi cristallizzato. Costretti in un corpo e in una vita che non appartiene loro, giungeranno a comprendere più da vicino cosa popola l’esistenza del partner, e cosa significhi davvero cambiare il proprio punto di vista.  L’incompresione nella coppia deriva pertanto dall’assurda pretesa che l’altro sia conforme alla nostra immagine, che rispecchi molti aspetti che appartengono alla nostra indole. Un’ambizione inattuabile che porta quasi sempre a litigi e conseguenti contrasti nel rapporto, al pericolo di non capirsi più come prima, finendo per sentirsi sconosciuti. Moglie e Marito è una riflessione su come la negligenza e l’individualismo possano trasformare le nostre relazioni, e allo stesso tempo una commedia romantica che utilizza l’ elemento “supernatural” allo scopo di approfondire due inversi punti di vista. La coppia Favino Smutniak funziona perfettamente, divertendo con estrema disinvoltura e smisurata naturalezza. Nelle sale dal 12 aprile, Moglie e Marito è un film che delizia senza mai sovraccaricare, in cui l’incompatibilità diviene  terreno di confronto.
 
Giada Farrace 

Wonder Woman

Giovedì 01 Giugno 2017 14:49
Nella segreta e remota Isola di Themyscira, la principessa delle amazzoni Diana cresce addestrata a divenire una temibile guerriera, in un ambiente paradisiaco costellato da armonia e pace. Tutto a Themyscira scorre seguendo un preciso ritmo quotidiano fino a quando l’aereo del pilota americano Steve Trevor precipita a largo delle sponde dell’isola, attirando l’attenzione della giovane Diana. La principessa accorre subito in aiuto del ragazzo, salvandolo dall’annegamento. Steve racconterà presso le amazzoni di un conflitto scoppiato nel mondo esterno, una guerra brutale e inarrestabile capace di mietere vittime senza sosta, distruggendo città e villaggi. Diana convinta di poter porre fine a tal ferocia decide di abbandonare l’isola guidata da Steve.  Soltanto combattendo coraggiosamente Diana scoprirà appieno i suoi straordinari poteri, arrivando a scontrarsi con una forza oscura, la più pericolosa di tutte.  Basato sui personaggi della DC, Wonder Woman è un film diretto dalla carismatica Patty Jenkis (Monster, The killing), primo lavoro per il grande schermo sulla Superoina ideata da William Moulton Marston. Accanto alla Jenkins un team di tutto rispetto all’interno del quale spiccano nomi come Matthew Jensen Direttore della fotografia (Chronicle, Il trono di spade), la scenografa Aline Bonetto (Il favoloso mondo di Amelie) e il premio Oscar Martin Walsh (Chicago, Jack Ryan). Lunga attesa e aspettative piuttosto alte nei confronti di un film che aveva tutte le carte in regola per risultare epico e coinvolgente, e che aveva come cardine lo splendore e il magnetismo di una Gal Gadot più in forma che mai. Purtroppo come sovente accade nel cinema più recente, la prova non è stata superata. La promessa di un’avventura appetitosa per gli appassionati e non, è stata sfortunatamente disattesa.  Il film diretto da Patty Jenkins riesce a coinvolgere solamente nella prima parte, dove lo spettatore si trova immerso nel prodigioso mondo delle amazzoni. 
Dopo questa iniziale ed interessante parentesi, l’intensità e la qualità della storia iniziano a cedere il passo ad una costante mancanza di materia, o per essere più precisi, penuria di accadimenti esaltanti.  Le abbondanti (ed eccessive) due ore di film si snodano attorno a dialoghi tiepidi, personaggi con cui si empatizza troppo poco, e scontri costellati da una lunghezza temporale eccedente, che finisce coll’indebolire la già oscillante concentrazione. La Wonder Woman interpretata da Gal Gadot è incantevole, giusta e determinata, ma anch’essa non convince appieno per l’eccessiva mitezza, le manca quella dose di aggressività che bene si accompagna ad un personaggio tenace e fiero come Diana. 
Quello nelle sale dall’ 1 giugno è un film che tradirà in buona parte dei casi le aspettative degli appassionati, incapace nell’adempiere all’agognato compito di intrattenere. 
 
Giada Farrace

Miss Sloane

Domenica 27 Agosto 2017 21:11
Elegante, astuta e calcolatrice, Elizabeth Sloane è una lobbista di successo a Washington. Dopo aver abbandonato l’agenzia capitanata dal controverso Goerge Dupont, la donna decide di intraprendere un nuovo capitolo della sua carriera iniziando a lavorare per Rodolfo Schmidt. Miss Sloane dovrà fare i conti con un caso assai spinoso, una legge a favore di un più semplice possesso di armi da fuoco da parte di ogni individuo. Lo scopo della società Schimdt è quello di bloccare questa norma, mettendosi così contro una delle lobby più potenti,  quella delle armi. Se la corrotta politica Americana è un mare torbido e ambiguo, Elizabeth Sloane è un pesce vorace che si muove in queste acque con estrema abilità, soprattutto se la posta in gioco si fa alta. 
John Madden dirige un film complesso, cinico,  ben strutturato che forse presenta solamente un piccolo difetto, ossia un incipit troppo contenuto. Infatti è proprio nella seconda parte del film che si dispiegano alcuni tra gli aspetti più interessanti della pellicola. Tra questi, la ricercatezza dei dialoghi, protagonisti indiscussi nel film, tanto sagaci quanto spietati nel rendere appieno un retroscena politico pregno di tracotanza e arrivismo. 
Punto cardine della storia risulta indubbiamente l’interprete principale Jessica Chastain, splendida, ammaliante e abile come poche, capace di rendere ancora più intenso un personaggio forte e tagliente come quello di Miss Sloane. 
 Madden dirige un film molto diverso dai precedenti (Ritorno a Marigold Hotel, Shakespeare in love) cambiando decisamente registro, e offrendo allo spettatore un disegno piuttosto articolato della politica Americana. 
Miss Sloane è nel complesso un film che sa intrattenere, senza scivolare nel tedio, mantenendo sempre un ritmo costante, e avvincente. 
 
Giada Farrace

Amityville: Il risveglio

Mercoledì 23 Agosto 2017 23:03
Amityville, Long Island, 1965. Ronald De Feo si trasferisce al 112 di Ocean Avenue assieme alla moglie e ai 5 figli. L'acquisto dell'adorabile villetta è un affare unico, l'immobile è infatti accogliente e posizionato in una zona tranquilla. Tutto sembra andare per il meglio, e i De Feo sono entusiasti della nuova casa tanto da decidere di ribattezzarla High Hopes ( grandi speranze). Nessuno avrebbe mai immaginato futuro tanto funesto. Esattamente nove anni dopo nel 1974, i coniugi De Feo e quattro dei loro figli vengono ritrovati senza vita all'interno della loro abitazione. Ognuno di essi freddato nel proprio letto, assassinati nella loro graziosa casa. Il tragico episodio ha fin da subito una risonanza incredibile, attirando giornalisti, fotografi e curiosi. sospettato dell'efferrata strage il 23enne Ronnie De Feo, figlio maggiore nonché unico sopravvissuto alla tragedia. Egli infatti confesserà di essere il responsabile della morte della propria famiglia dichiarando inoltre di essere stato spinto a commettere l'omicidio da una voce oscura che lo tormentava da tempo all'interno delle mura domestiche. I fatti realmente accaduti ad Amityville divennero ben presto fonte d’ispirazione per romanzi e adattamenti cinematografici, tra cui  “The Amityville Horror”  del 1979 diretto da Stuart Rosenberg, e il più recente “Amityville Horror” del 2005. La casa maledetta più intrigante torna ancora una volta al cinema, con la regia del francese Franck Khalfoun ( Maniac, Wrong torn at Tahoe) al suo quinto lungometraggio. Nel film la giovane Bella, si trasferisce al 112 di Ocean Avenue assieme alla sua famiglia, composta rispettivamente da madre, sorella minore e fratello gemello, che a seguito di uno sfortunato incidente è in coma. Presto Bella scoprirà che la vecchia casa dove ora vive con la famiglia è stata teatro di un macabro omicidio. Strani eventi avvengono all’interno di essa, allucinazioni spaventose e incubi notturni saranno solamente l’incipit di un terribile sviluppo. Amityville è un film che intraprende subito un percorso ben preciso, giocando sulla suspence e su un riuscito climax di tensione potenziato da un impianto sonoro di tutto rispetto. Un lavoro che si espande al massimo nella prima parte, ponendo delle basi molto interessanti a livello di terrore, ma che perde sfortunatamente vigore nel corso della seconda parte, lasciandosi eclissare da un pressapochismo fatale. Quello diretto da Khalfoun è pertanto un horror godibile e nel complesso ben fatto, ma che manca purtroppo di identità. 
 
Giada Farrace

Barry Seal

Giovedì 14 Settembre 2017 10:42
Rischiare è come tuffarsi in acque oscure, inesplorate, di cui si ignora la profondità e il pericolo. Si può emergere e gioire per il trionfo, oppure si può affondare,  trascinandosi dietro il rimorso di essersi tuffati. Forse non tutti conoscono Barry Seal, e probabilmente le sue vicissitudini possono risultare ignote ai più. Bene, Doug Liman (The Bourne identity, Edge of tomorrow) torna  a dirigere Tom Cruise, ma questa volta  decide di raccontarci la vita di un vulcanico e controverso personaggio. 
Barry Seal, all’anagrafe Adler Barriman Seal, nasce in Louisiana, più precisamente a Baton Rouge, città che nel corso della sua vita non abbandonerà mai completamente.  Il giovane Seal entra a far parte dell’aviazione Americana a partire dagli anni sessanta, periodo in cui dimostra di avere delle eccellenti doti di pilotaggio. Ma il monotono lavoro per la compagnia aerea TWA risulta sin da subito piatto e non appagante per uno spirito solerte come quello dell’aviatore. Egli pertanto abbandonerà l’impiego per la  TWA, iniziando a lavorare per la CIA, e finendo per ricoprire il ruolo clandestino di trafficante d’armi e droga per il cartello di Medellin, fondato e gestito da Pablo Escobar e i fratelli Ochoa. Arrestato numerose volte, Seal arrivò in ultima istanza a determinare la condanna di alcuni tra i più ricercati narcotrafficanti colombiani. Tale mossa fu amaramente pagata con la morte,  egli fu infatti freddato proprio a Baton Rouge nel 1986, sotto incarico dei fratelli Ochoa. Ad interpretare un personaggio tanto irruente quanto deprecabile un Tom Cruise più in forma che mai, totalmente a suo agio nel ruolo di aviatore.
Il film diretto dal regista di Mr. & Mrs. Smith, ha la capacità di iniettare pura adrenalina nelle vene dello spettatore, senza perdersi in eccessi. In Barry Seal si gioca con il pericolo, alternando momenti di tensione a sequenze più divertenti. 
Un film che ha riscosso da subito ampi consensi da parte di critica e pubblico in territorio d'oltreoceano, e che  probabilmente conquisterà il pubblico europeo. Adrenalina e tensione al cinema dal 14 settembre. 
 
Giada Farrace

L'Inganno

Sabato 27 Maggio 2017 20:26
Un’innocente bambina passeggia nei boschi con il suo cestino in cerca di funghi freschi. Improvvisamente si imbatte in un uomo ferito. Siamo in piena Guerra di Secessione americana ed il soldato in cerca di cure è il caporale John McBurney (Colin Farrell, a Cannes anche con The Killing of a Sacred Deer di Yorgos Lanthimos). L’uomo trova così ristoro in una sontuosa tenuta sudista, dove un’insegnate di nome Martha (Nicole Kidman, lei è presente con ben 4 film in questa edizione del Festival) gestisce un’esclusiva scuola per il gentil sesso. Il gruppo di donne è variegato, ci sono adulte e giovincelle. Insieme offrono una calorosa assistenza al soldato nordista, in attesa della sua completa guarigione e della consegna all’esercito. Ma le attenzioni femminili alla lunga diventano pericolose. Sorgono rivalità inaspettate per accaparrarsi l’affascinate preda. Il desiderio sessuale sale con il passare dei giorni e il frutto proibito è proprio lì davanti, pronto per essere colto. Le situazioni si complicano e la tensione schizza alle stelle verso un finale torbido e dalle decise tinte horror.  
 
Il nuovo lavoro di Sofia Coppola, in concorso a Cannes 70, è il remake de “La notte brava del soldato Jonathan” del 1971, di Don Siegel con Clint Eastwood. La regista figlia d’arte ne cura anche la sceneggiatura, liberamente ispirata al romanzo A Painted Devil di Thomas P. Cullinan. 
La vera mattatrice di The Beguiled è la regia, premiata con la prestigiosa Palma dalla giuria del Festival. Conduzione artistica con pregi e difetti. Piace per il suo formalismo e per i suoi primi piani compiaciuti. E’ una regia tanto complice quanto soddisfatta. Sofia Coppola, nella costante del suo mondo femminile, cambia gradualmente genere, da film di guerra sentimentale si passa all’horror gotico, sublimando in una sentita suspense. Orgogliosamente mostra le sue protagoniste in un’emblematica inquadratura finale (sembrano in vetrina per sfoggiare il loro abito migliore). Femminismo massimizzato, del quale però non manca di mettere in risalto le contraddizioni: tanto caste quanto impure, donne misericordiose e devote al Signore, ma allo stesso tempo vampire pronte a castrare il maschio.
La regista americana mantiene una facciata morale impeccabile, dietro alla quale vige una repressione sessuale malata. Desiderio troppo a lungo messo a tacere. Le intenzioni covano nella psiche e si tramutano in pura violenza. 
 
In questa perdita corale dell’innocenza, il punto direzionale sfavorevole fa capolino nel momento in cui la regista smette di ammiccare e di essere ambigua. Fin quando rimangono sirene ammagliatrici (prima parte), uno speziato interesse nasce nello spettatore, al contrario quando le troppe parole riempiono lo schermo (seconda parte), il coinvolgimento diminuisce e lo scontato prende il sopravvento. Ed è il motivo per il quale The Beguiled vale tre stelle, rafforzato anche da un finale un po’ sbrigativo.
 
Il film è arricchito da una meravigliosa fotografia crepuscolare che esalta la messa in scena, anch’essa studiata nel minino dettaglio, che aiuta e celebra i personaggi nel proprio contesto narrativo. Parterre de Roi composto, oltre ai sopracitati Farrell e Kidman, da Elle Fanning (lo scorso anno qui con The Neon Demon di Refn) e Kirsten Dunst (vincitrice come miglior attrice nel 2011 con Melancholia). Complessivamente ben amalgamato ed in grado di dare quel quid in più alla pellicola nel momento in cui le situazioni avvengono troppo in superficie.
 
Anche se con delle sbavature, The Beguiled ci restituisce lo sguardo di Sofia, dopo i discutibili The Bling Ring e Somewhere. Nelle sue donne, nel bene o nel male, troviamo qualcosa di contemporaneo, descritto con profondità. Donne che celano le loro intenzioni e che la fanno in barba al malcapitato uomo di turno.
 
David Siena
 
 
 
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Soltanto un occhio penetrante è in grado di dipingere un quadro dettagliato e suggestivo. Perdersi nell'osservazione di esso può coincidere con l'immedesimazione più aderente.
The beguiled - L’inganno, sembra evocare una situazione pittorica, che nei primi atti da evanescente, acquista gradualmente intensità fino a lasciare col fiato sospeso. A quattro anni di distanza da Bling Ring, Sofia Coppola realizza un film intenso, ben fatto e estremamente curato , stilisticamente lontano dall'ultimo lavoro. La vicenda prende parte in un tranquillo collegio femminile del Sud durante la Guerra civile Americana. La vita delle sei ragazze nel collegio scorre in modo ordinario e costante, ovattata dalle crudeltà della Guerra. Ad occuparsi di loro la direttrice del collegio Miss Martha, donna acuta e pratica, la cui presenza è affiancata dalla più giovane Edwina Dabney, insegnante di francese. Quando un mercenario nordista viene trovato ferito da una delle ragazze, l’equilibrio della mite esistenza nel collegio verrà radicalmente sovvertito. Egli diverrà oggetto di sorpresa e timori, fino a determinare un brusco cambiamento nei rapporti delle fanciulle e delle istitutrici. Presentato allo scorso Festival di Cannes, L’inganno, è un film diretto abilmente, in grado di assumere molteplici aspetti, conducendo lo spettatore in una direzione dai tratti prevedibili, ma non banali. Un ritratto femminile molto asciutto capace di analizzare con grande precisione lo sviluppo e il climax del rappporto tra i due sessi. Sofia Coppola dirige un film elegante e autentico,  contraddistinto da quella perfetta combinazione tra leggerezza ed efferratezza. 
 
 
Giada Farrace
 

IT

Giovedì 12 Ottobre 2017 20:52
La paura è la risposta più immediata ad una situazione di pericolo e dolore. Essa è infatti in grado di generare una proiezione di minaccia esistenziale, che trascina l’individuo in differenti gradi di intensità. A seconda della sua intensità, la paura può dare vita a traumi indelebili, eccessi di stress che equivalgono a rotture con il normale bioritmo di ogni essere umano. Tutti hanno paura di qualcosa, alcuni temono entità extraumane e intangibili, altri serial killer o eventi disastrosi.  Tuttavia nessuno può sfuggire alle proprie paure, poiché il comune senso di paura è un concetto universale, il più democratico, che accomuna grandi e piccini. Era il 1986 quando fu pubblicato It,  tra i  romanzi più influenti e terrificanti della letteratura horror, scritto da Stephen King maestro del brivido e del conturbante. Il romanzo ebbe da subito grande successo, terrorizzando un’intera generazione di lettori e continuando ancora oggi a spaventare una vasta fetta di pubblico.  La figura di Pennywise raccapricciante veicolo di terrore, diviene oggetto di simbolismi nel cinema e nella letteratura, reinventando completamente la stereotipata immagine del clown nell’immaginario collettivo. It divora ferocemente bambini, egli vive pertanto grazie alle loro paure, le quali lo rendono invincibile. 
Nel 1990 Tommy Lee Wallace dirige la prima forma di adattamento su schermo del romanzo di King, It diventa così una miniserie televisiva con protagonista il carismatico Tim Curry nei panni dell’agghiacciante pagliaccio. Un esperimento evidentemente riuscito a metà,  indebolito dalla lunghezza temporale e da un ritmo dilatato, ma che possiede, ora come allora, un aspetto inquietante, capace di disturbare, alimentato da un’intensa interpretazione di Curry. A circa ventisette anni di distanza è Andy Muschietti, regista di   La Madre,  a portare per la prima volta su grande schermo il celebre best seller di King. La scelta è rischiosa data la vastità della storia, e la complessità di un personaggio così particolare e inquietante come quello di Pennywise, pertanto quello che uscirà nelle sale il prossimo 19 ottobre sarà soltanto la prima parte della vicenda. 
Questo primo capitolo racconta di sette giovani emarginati di Derry( Maine), che si autodefiniscono Perdenti,  ognuno di loro vittima di bullismo. I ragazzi vedranno ben presto materializzarsi le proprie paure sotto forma di un antico predatore di innocenti, di nome Pennywise. Un’entità che emerge dalle fognature della città ogni 27 anni per cibarsi delle paure delle sue prede. Soltanto uniti I Perdenti potranno combattere una forza così malvagia e insaziabile quale quella di It, per poi sconfiggerla. Muschietti dirige un film godibile, ben fatto e completo sotto svariati punti di vista, quali storia, profilo dei ragazzi e sense of humour. Si tratta infatti di un lavoro accattivante, che ha la capacità di combinare brevi momenti di tensione a sequenze più divertenti e leggere, molto vicine a drammi d’avventura come Stand By me . Un esperimento che si lascia guardare senza alcuna difficoltà, risultando piacevole e stimolante, ma che cela delle debolezze evidenti.   Purtroppo a risultare   poco convincente è proprio Pennywise, perno della storia e da sempre simbolo di terrore. Nel film, il clown non assolve pienamente alla funzione disturbante alla quale è originariamente destinato.  Manca molto l’atmosfera cupa e impressionante propria del Pennywise di Curry, protagonista di un film ingenuo e acerbo, ma forse più conturbante.  
E’ giusto e comprensibile che un horror alterni momenti di terrore a sequenze più leggere, purchè queste ultime non travalichino un confine ben preciso, al di là del quale l’horror cede il passo al divertissement. 
 
Giada Farrace
 

La signora dello zoo di Varsavia

Lunedì 13 Novembre 2017 16:09
Il 1939 fu un anno terribile e sanguinoso, che segnò indelebilmente la storia d’Europa. La Polonia, più di molti altri paesi, subì danni gravissimi, la brutale invasione nazista portò lo stato polacco ad una deriva sociale e morfologica. L’inarrestabile forza tedesca devastò con continui bombardamenti la pacifica città di Varsavia, la quale divenne scenario di violenza e rovina. Antonina e suo marito Jan, custodi dello zoo di Varsavia, sono i protagonisti di una storia in cui il coraggio e la speranza fanno da padroni. Uniti nell’ambito privato e in quello professionale, i coniugi si adoperano sin da subito per mettere in salvo i pochi animali sopravvissuti agli impietosi bombardamenti tedeschi. Ma nel frattempo nei ghetti di Varsavia si consumano quotidiane tragedie e incessanti massacri di ebrei, così Antonina e Jan stanchi di restare a guardare impotenti, decidono di agire per mettere in salvo delle vite umane. Utilizzando  gabbie e  gallerie sotterranee presenti nello zoo, iniziano a collaborare con la Resistenza, riuscendo a salvare molti ebrei dall’infernale ghetto.  Una missione eroica, pregna di valore,  che metterà in pericolo  la stessa Antonina e la sua famiglia.  
Tratto dall’omonimo libro di Diane Ackerman, La signora dello zoo di Varsavia è un film intenso e allo stesso modo elegante, diverso dalle altre storie sulla Seconda Guerra mondiale.  La vicenda di Antonina sottolinea la dimensione privata tra moglie e marito, ponendo l’accento sul valore della vita e sull’importanza della lotta per la libertà. La protagonista del film diretto da Niki Caro( la ragazza delle balene, The Vintner’s Luck), è un’eroina forse sconosciuta ai più, colonna portante di una storia molto importante, che non poteva non essere narrata.  Una donna capace di comprendere da vicino gli animali,  di porsi nella delicata situazione di sostegno e aiuto, riuscendo così a occuparsi di essi nel massimo rispetto e controllo. Una figura disposta a mettere in pericolo tutto e tutti pur di salvare delle vite umane, accettando una rischiosa sfida con la morte.  Nel ruolo di Antonina  Jessica Chastain,  semplicemente sublime, perfetta in ogni sfumatura. La Chastain, anche produttrice esecutiva del film,  è intensa dall’inizio alla fine, trascinando lo spettatore in un denso vortice emozionale, facendolo empatizzare totalmente con la sua Antonina. La signora dello zoo di Varsavia è un lavoro onesto, asciutto senza essere arido, costellato da momenti di grande cinema. 
 
Giada Farrace
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