Abbiamo incontrato il regista neozelandese Vincent Ward, classe 1956, in un’area storica della città di Shanghai, vicino al Suzhou River dell’omonimo film di Lou Ye. Ward è stato in Cina per un ciclo di conferenze, ma anche per il progetto con il quale ha preso parte alla Biennale di Shanghai del 2012. Il regista, vincitore dell’Oscar per gli effetti visivi del film “Aldilà dei Sogni” (1998), “mancato” regista di “Alien 3” (la sua versione mai realizzata del film è considerata un cult dagli amanti del sci-fi) e produttore de “L’Ultimo Samurai” (2003), dopo aver girato film indipendenti incentrati su temi sociali come la problematica integrazione di minoranze etniche e culturali, e seguendo la sua iniziale vocazione di pittore, si è dedicato alla realizzazione di opere video che gli hanno permesso di esplorare la pura immagine in movimento, nei suoi colori e nel modo dinamico che ha di occupare lo spazio e dargli forma, modellarlo con luci e ombre, ma anche con il suono.
Ward esprime una certa amarezza per l’esperienza hollywoodiana, la stessa che si trova nelle parole di molti registi non-americani che hanno lavorato a lungo nella capitale del cinema mainstream. Non manifesta il suo disappunto in modo esplicito o enfatico, ma dalle sue parole si evince come la frustrazione per una fondamentale mancanza di libertà “creativa” lo abbia portato alla decisione di dedicarsi esclusivamente a progetti lontani dal cinema commerciale e rivolti al pubblico delle mostre d’arte e degli esperimenti “inter” o “crossmediali” che negli ultimi anni, grazie alla comparsa di canali di diffusione sempre più numerosi e differenziati (non ultima la rete), hanno trovato un numero sempre maggiore di estimatori ed esponenti. Si possono citare registi a cavallo tra i due mondi – arte e cinema – come Peter Greenaway e il più giovane Steve McQueen.
Il caso di Vincent Ward è estremamente interessante nella sua anomala esemplarità: il film più noto del regista è certamente “Aldilà dei Sogni”, premiato nel 1999 con un Oscar per gli effetti visivi. Il film è uno strano ibrido, sottilmente deprimente come forse solo i film “oceanici” – ovvero provenienti da Australia e Nuova Zelanda – riescono a essere (penso a Peter Weir e ai suoi riusciti esperimenti sull’isolamento materiale ed esistenziale di un popolo), ma anche eccezionale dal punto di vista visivo: visioni che prendono vita per diventare paesaggi e rappresentazioni/interpretazioni di paradisi, limbi e inferni evidentemente ispirati alle descrizioni dantesche. Quello che fa Ward è abbinare immagini a un immaginario pregresso fatto di ricordi e atmosfere: per realizzare questa non facile impresa il regista ha fatto confluire nei suoi film la vocazione iniziale per la pittura – ha una laurea in Belle Arti dell’Ilam School of Fine Arts, Università di Canterbury – partendo dalla tecnica di animazione di sfondi dipinti con tecniche tradizionali. Il trattamento delle immagini presente del film sembra però contraddire la sua struttura narrativa convenzionale (e in questo tipicamente “hollywoodiana”), che non rende giustizia all’approccio sperimentale di Ward. Questo approccio sfocia oggi in ripetute incursioni nel mondo dell’arte contemporanea. Uno dei suoi progetti più recenti, come già anticipato, è stato presentato come progetto collaterale alla Biennale di Shanghai 2012 con il titolo di Auckland Station: Destinies Lost and Found e consiste in un’istallazione multi-screen combinata a dipinti su seta: soggetto delle proiezioni sono eteree danzatrici che si muovono all’interno di un cilindro di luce, immerse nell’acqua. Proiettate nell’ambiente scuro e solenne di una chiesa sconsacrata sul Bund – l’area di Shanghai famosa per la sua architettura coloniale che si sviluppa sulla sponda occidentale del fiume Huangpu – queste immagini evocano come in un déjà vu un mondo perduto che non ci è dato conoscere, o che forse appartiene al passato di Ward e alle sue tante vite. Durante l’incontro e la piacevole chiacchierata con il regista abbiamo ripercorso le tappe più importanti della sua carriera e della sua esperienza umana:
Che tipo di influenza ha esercitato il tuo paese di provenienza, la Nuova Zelanda, sulla tua esperienza di vita e sul tuo lavoro, stile ed evoluzione come regista?
Sono cresciuto in una fattoria nella campagna neozelandese, dove la mia infanzia è trascorsa in solitudine, vagando nelle terre selvagge della mia famiglia. Mia madre, una giovane ebrea tedesca sposa di guerra, ha lavorato duramente per adattarsi alla vita di moglie di un agricoltore, in una famiglia cattolica. Penso che queste circostanze affiorano all’interno del microcosmo delle storie che racconto. L’adolescente protagonista del mio primo film “Vigil” (1984) è spesso solo, mentre in “In Spring One Plants Alone” mi sono calato nei panni di un outsider all’interno di un’isolata comunità insulare Maori.
Se la Nuova Zelanda sarà sempre la mia “casa”, come molti “kiwi” (N.B. modo colloquiale con cui i neozelandesi chiamano se stessi) ho un’indole avventurosa e infatti ho vissuto in molti paesi del mondo. In realtà sono una specie di vagabondo, con una costante fascinazione per le altre culture. La memoria e le storie individuali, di qualsiasi persona, sono una fonte costante di ispirazione. Raggiungere gli spettatori all’interno di uno spazio emotivo e psicologico è essenziale per me: quello che lo spettatore legge in un film, per sua volontà o perchè gli viene dato lo spazio per farlo, equivale almeno alla metà dei dialoghi. I miei film intercettano la psiche del protagonista o degli altri personaggi per esplorare il loro coinvolgimento, sempre unico, nella memoria e nelle esperienze. Nel fare questo spero possano raggiungere una verità sull’esistenza.
Molti dei miei film riguardano amicizie e relazioni tra culture diverse – ad esempio “Map of the Human Heart” (1993), “River Queen” (2005) e “Rain of the Children” (2008) – cosa che deriva probabilmente dalla mia infanzia. La negoziazione tra culture infatti è stata sempre parte del mio contesto domestico. Come già accennato, mia madre era tedesca mentre mio padre neozelandese, perciò ho dovuto sempre cercare di trovare l’equazione tra la mia terra e la loro relazione.
C’è qualche tratto distintivo che puoi individuare all’interno della tua cultura di appartenenza?
Dicono spesso che c’è un elemento lirico e una crudezza di fondo nel mio lavoro. Per esempio in “Vigil” ho cercato di ritrarre il paesaggio misterioso e aspro che fa da sfondo alle vicende di un contadino, un uomo solido, d’altri tempo. Essendo un paese giovane, la nostra relazione con la terra e la nostra identità nazionale sono ancora in via di formazione. Il paesaggio volubile e indomito della Nuova Zelanda è qualcosa che penso pervada la nostra coscienza nazionale e emerga a sua volta in buona parte del nostro cinema più crepuscolare e umanistico (a volte persino gotico). I film sono davvero un fantastico veicolo di espressione ed esplorazione culturale.
Puoi dirci qualcosa della tua esperienza a Hollywood?
Ho vissuto a Los Angeles per sette anni. Quello che mi ha portato lì per la prima volta è stata la necessità di trovare una storia originale per “Alien 3”, dal momento che mi era stato chiesto di girarlo.
In quel momento stava crescendo la mia reputazione di regista in grado di rappresentare una voce originale, in sintonia con le idee dei personaggi, capace di descrivere i loro mondi interiori e di creare universi di forte impatto visivo. La laurea in belle arti mi permetteva una certa abilità nel disegno e nell’ideazione, nonchè nella narrazione di storie. I miei film precedenti erano stati in concorso a Cannes e avevano vinto diversi premi. Ho lavorato ad “Alien 3” e alla sua sceneggiatura per nove mesi, ed è stata un’esperienza decisamente frustrante; tra gli aspetti positivi, c’è il fatto che il tipo di immaginario cui ho dato vita ha conquistato negli anni un grosso seguito cult, però allo studio fece paura l’audacia dell’idea perciò il risultato è che il film esiste principalmente negli articoli e in pubblicazioni come il libro ‘The Greatest Sci-fi Movies Never Made’ scritto da un giornalista del London Times. Mi è stata accreditata la storia ma non mi sono voluto adeguare a quel tipo di compromesso, così mi sono dedicato a un progetto indipendente e ugualmente ambizioso, “Map of the Human Heart”, prodotto da Australia, Gran Bretagna e Canda, prima di ritornare a Hollywood quattro anni dopo.
È stato un periodo entusiasmante. Avevo una piccola compagnia e alcune persone disposte ad aiutarmi, con le quali andavamo soprattutto in cerca di progetti originali, da sviluppare in direzione di una realizzazione materiale in cui potessero confluire le mie capacità e il mio stile. In quel periodo sviluppai un numero di sceneggiature, inclusa quella che sarebbe diventata “L’ultimo Samurai” e un film diretto da me, “Aldilà dei Sogni”, con Robin Williams. Ho lavorato nella convinzione di poter realizzare una serie di film amibiziosi, dentro e fuori il sistema. Dopo “Aldilà dei Sogni” sono tornato in Nuova Zelanda per fare film più personali e alla fine sono tornato al mio interesse iniziale per l’arte.
Cosa ti ha portato a concepire e scrivere What Dreams May Come (Aldilà dei Sogni)?
“What Dreams May Come” è basato su un racconto di Richard Matheson. Quello che inizialmente mi ha affascinato era il potenziale psicologico e scenico di questa storia, narrata dal punto di vista di un Orfeo e ambientata in larga parte nell’aldilà. La mia prima priorità è stata trovare il nucleo del film, un fulcro da cui partire e da reinventare attraverso le immagini e la storia. In pratica ho dovuto prima identificare il concetto visivo che avrebbe trainato l’intero film. La chiave è stata immaginare una vita soggettiva nell’aldilà. Questo quando mi sono reso conto se il personaggio centrale del film fosse stata una pittrice, nuove e fantastiche possibilità estetiche sarebbero emerse. E quindi decisi che il film avrebbe evocato un mondo simile alla pittura dell’Ottocento e Novecento, viva ed emozionante.
Ora che avevo il cardine concettuale, mi restava da capire come dare vita al ricco ambiente materico che volevo creare: per rendere il mondo viscerale della pittura viva che avevo immaginato avrei dovuto osare inoltrarmi in territori inesplorati; dovevo spingere la tecnologia che avrei usato al punto da farla sembrare e “sentire” credibile, far vedere la trama pittorica sullo schermo. Ho fatto scelte che hanno conferito autenticità al progetto: per esempio all’artista digitale specializzato in pittura a olio ho affiancato un bravo pittore per dare forma alle singole pennelate. È così che abbiamo sviluppato una nuova tecnica chiamata “motion painting”, che ha ottenuto un Oscar per i risultati tecnici e visivi raggiunti.
Cosa è successo con Alien 3?
Fui contattato dai produttori di “Alien 3” perché avevano visto un mio film precedente,”The Navigator: a Medieval Odyssey” e, per usare le loro stesse parole, ne erano rimasti “sconvolti”. Mi chiesero di unirmi alla squadra e io accettai, anche se non volevo fare una copia degli altri capitoli. Per “Alien 3” ero intenzionato a portare il genere della fantascienza in un’altra direzione. Decisi che la mia storia sarebbe stata incentrata su un gruppo di monaci-ludditi isolati in un monastero satellite nello spazio. Il solito trucchetto del bottone che fa cento cose diventò così cento cose – o meglio cento monaci – che facevano una sola cosa, con la loro tecnologia arcaica. La storia si sarebbe sviluppata in un mondo tanto distintivo da risultare indimenticabile.
Anche se il film non è mai stato realizzato e questa visione non è stata più portata sullo schermo, molte persone sentirono che quell’universo fantastico era in qualche modo nuovo e diverso, forse persino in anticipo sui tempi. Senza alcun tipo di pubblicità, un articolo su “The Wooden Planet” uscito sul Empire Online del 2010 ha avuto 136.000 visualizzazioni solo nella prima settimana.
… e con la sceneggiatura de L’ultimo Samurai?
Ho sviluppato le basi di “The Last Samurai” in un arco di tempo di tre, quattro anni, durante il quale ho condotto molte ricerche sul Giappone del diciannovesimo secolo. Avevo avuto anche la fortuna di collaborare con uno scrittore vincitore del Pulitzer entrato a far parte del progetto. Alla fine capii che avrei preferito lavorare come produttore per questo film, per cui scelsi una regista per portare avanti la lavorazione. Anche se devo dire che il prodotto finito mi è piaciuto abbastanza, il mio timore – che poi era anche la logica stessa alla base del film – era che nelle mani di uno studio americano il risultato finale non avrebbe avuto l’integrità culturale cui do sempre la massima importanza.
Quale pensi sia la direzione che il cinema mainstream ha preso in questo momento? E quale il ruolo di Hollywood in questo scenario?
Il cinema mainstream è diventato come un franchising. Considerate le spese enormi che l’uscita di un film richiede, molto sono diventati cauti e i prodotti più interessanti sono ormai le serie via cavo (penso a Breaking Bad o In Treatment) e occasionalmente qualche esempio di cinema indipendente dagli Stati Uniti. Ovviamente il cinema europeo ha una tradizione più rigorosa da questo punto di vista.
Pensi che questo sistema sarà messo in discussione dall’ascesa di realtà produttive relativamente nuove come quella indiana o cinese?
Non credo, l’America ha una rete distributiva così forte e i film americani sono così popolari presso il pubblico più giovane che continueranno a detenere la loro egemonia in questo settore.
Quando hai iniziato a sviluppare i tuoi progetti indipendenti e a considerarli centrali della tua carriera di regista?
Mi sono sempre dedicato a questo. Ho sempre voluto tornare alla mia prima passione – la pittura. Ho iniziato a lavorare a progetti di questo tipo dopo “Aldilà dei Sogni”, sviluppando schizzi e dipinti ispirati alla ricca tavolozza del film. Mi sono dilettato con qualche lavoro negli anni, ma è stato quando la Govett-Brewster Gallery in Nuova Zelanda mi ha chiesto di fare una mostra che l’arte è passata in primo piano. Nei due anni successivi ho partecipato a una serie di mostre in grosse gallerie, devo dire che quel periodo è incredibilmente intenso ma ha segnato un cambiamento che ho accolto con gioia.
Per quanto riguarda l’esplorazione del linguaggio artistico, qual è l’aspetto cui sei maggiormente interessato?
La percezione. L’intepretazione delle culture e la disparità. E ancora la psiche, i momenti di trasformazione nel cinema e nell’arte. Il titolo cinese del libro sul mio lavoro scritto da Dan Fleming è Making the Transformational Moments in Film (“Fare Momenti di Trasformazione nel Cinema”) e ritengo che in diversi punti rintracci con esattezza i miei principali oggetti di interesse e studio.
Attraverso quali canali vorresti che la gente si avvicinasse ai tuoi lavori?
Tramite media di tutti i tipi. Lungometraggi, installazioni, pittura, fotografia, testi. Per me sono tutti interconnessi.
Mariagrazia Costantino