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Rester Vertical

Venerdì 20 Maggio 2016 15:57
Rester Vertical ha aperto la competizione del Festival di Cannes 2016. E se il buongiorno si vede dal mattino, possiamo affermare che qualche nuvoletta di troppo quella mattina c’era. Non come nel meraviglioso cielo, che sovrasta le sterminate praterie della Lozère francese, dove il film ha inizio. Leo (Damien Bonnard), giovane sceneggiatore e regista, durante una scampagnata alla ricerca di un lupo, si imbatte nella giovane e carina Marie (India Hair). Il loro incontro esplode e fa scintille dal primo sguardo. Insieme hanno un figlio, che per lei subito dopo diventa ingombrante. Leo però è un giovane senza una fissa dimora e il suo andirivieni dalla città alla campagna fa nascere in Marie dei dubbi sulla sua persona. Lei lo lascia con il pargoletto da accudire. La vita, già un po’ stramba di Leo, si complica maggiormente. Succedono tante cose strane che mettono a repentaglio l’intera esistenza del ragazzo. Avvenimenti discutibili sotto la calda lente della società. Ci domandiamo: “Forse stanare quel lupo è stata una buona idea?” 
Negli intenti del regista Alain Guiraudie c’è proprio quello di andare a cercare quell’animale feroce per provocarlo e dimostrargli che si può rimanere in verticale (in tutti i sensi possibili), con orgoglio davanti a lui, qualsiasi sia il modo di approcciare la vita. Dimostrare di non avere paura per non farsi mangiare. Sbattergli in faccia, e il regista francese lo fa con scioccanti immagini: genitali in primo piano, un vero parto e un rapporto omosessuale, che la libertà di espressione è fondamentale e primaria nella vita di un individuo. 
 
Guiraudie, non alla prima presenza al Festival di Cannes, con il suo Lo sconosciuto del lago (L'Inconnu du lac), presentato nella sezione Un Certain Regard nel 2013, ha vinto il premio per la regia.
Diretto con mano ferma, l’autore posiziona la telecamera esattamente dove il suo occhio e il suo spirito voglio andare a parare. Oggetto di alta tecnologia che diventa un proseguimento di se stesso, il mezzo per farci capire quanto ci sia di autoreferenziale in questa sua nuova pellicola.
 
La pecca maggiore che possiamo imputare al film è quella di riempirsi fino all’accesso di situazioni bizzarre. Non c’era bisogno di traumatizzare all’eccesso. Scuotere fa bene allo spirito e alla mente, ma quando si riempie, nel vero senso della parola, un contesto con troppe esplicite provocazioni, lo spettatore si ritrova esasperato e in continuazione balzato dentro e fuori dal significato del film. Non che poi ci si senta vuoti, ma sinceramente un po’ depistati e costretti ad assistere a qualcosa che sembra essere prettamente autoreferenziale. Un sali e scendi che non aiuta a portare in porto quella che inizialmente sembrava un ottima idea. 
 
Non si può dimenticare di lodare la splendida fotografia del lungometraggio. Paesaggi che sembrano coccolare il povero Leo, che nel suo ferreo giustificare le proprie azioni, tramuta la sua figura in qualcosa di borderline: bamboccione o difensore della patria? Non si dovrebbe arrivare fino a questo punto.
Eccedendo si passa quasi dalla parte del torto.
L’agnellino tenuto in braccio nel finale davanti a lupi è chiaramente l’essere più innocente in balia del mostro. Come se Leo avesse in mano il proprio bambino, che non fosse altro che la versione in fasce di se stesso.
 
 
David Siena

120 Battements par minute

Domenica 28 Maggio 2017 13:24
120 Battements par minute è un viaggio nel tempo che ci riporta nella Francia dei primi anni novanta. E precisamente nel cuore pulsante di Act Up-Paris: un gruppo di attivisti che lottano contro la politica di Mitterrand e le lobby farmaceutiche. La loro battaglia è contro l’Aids, giovane e spietata malattia che dai primi anni ottanta ha mietuto vittime in ogni parte del globo. Rivendicano a voce alta di poter essere adeguatamente curati, colpendo i punti nevralgici dell’indifferenza. All’interno di questa coesa comunità spicca Sean (Nahuel Pérez Biscayart), militante malato che nella sua radicalità trova la sua ragione di vita. Nathan (Arnaud Valois), neofita del gruppo, rimane affascinato la carisma di Sean. Tra di loro nasce una complice ed appassionata intesa, che li vedrà lottare giorno per giorno nella speranza di salvare le proprie vite dalla morte. 
 
 
L’incubo HIV disturba ancora i nostri sonni e Robin Campillo con il suo 120 Battements par minute ci sensibilizza e ci sprona a non sottovalutare il problema, attualmente snobbato soprattutto dai più giovani. 
Il regista marocchino (conosciuto per la sceneggiatura de La Classe: nominato all’Oscar come miglior film straniero nel 2008 e vincitore della Palma d’Oro nello stesso anno) confeziona un film non retorico e politicamente corretto, che rapisce la critica internazionale (vince il premio Fipresci) e lascia il segno nella giuria del festival. Almodovar & C. lo premiano con il Gran Premio della Giuria. Dirige, scrive e monta la sua opera allontanandosi dal moralismo più semplicistico, entrando realisticamente nella malattia e nei cuori dei malati, elevandosi anche ad essere manifesto dell’orgoglio omosessuale. 
 
Campillo stupisce con una regia a tratti intima e a tratti concitata. La prima è pura confidenza, con delicatezza racconta i protagonisti, le loro fragilità e le loro forze. Li guarda da vicino, in ogni senso possibile: meccanico e umano. Riesce nello scopo di raccontare a 360° la persona, non solo quella parte che si avvicina alla morte. Contesto individuale profondo che si raccorda alla perfezione con la highway corale ed animata, dove la direzione artistica diventa un tutt’uno con la protesta e la lotta. Nella sede di Act Up si assapora spirito di unione. I partecipanti si scontrano duramente, ma sono tremendamente coesi. Comunità che esce comunque vincitrice. La verbosità perpetua diventa l’urlo di protesta, che scuote ognuno di noi. Il potente dibattito è il linguaggio che il regista usa per raggiungere il suo scopo e che rende il film diverso da altri del suo genere: ricordarci energicamente che l’Aids è vivo e vegeto e chi ne fa parte non deve essere dimenticato o ghettizzato. 
La spinta di Campillo perde decisamente di mordente quando si sposta sul dolore. Eccede in drammaticità, focalizzando per troppo tempo l’attenzione della camera da presa su immagini che hanno già ampiamente svolto il proprio compito narrativo. Le intenzioni stazionano facendo nascere dei tempi morti indesiderati. Qui il costruttivo lascia troppo spazio al distruttivo. Aspetto concentrato sul corporale che stona, rispetto alle vivide scene di sesso che ricordano l’amore de La Vie d’Adèle (Palma d’Oro 2013), dove il corpo è il mezzo per esprimere noi stessi. 
 
A conti fatti 120 BPM risulta sbilanciato, come quando sia passa dalla lotta (comizi che finisco anche nel sangue) al ballo liberatorio in discoteca. Non per il passaggio materiale, questo è ben costruito, ma per l’ingresso sullo schermo di fantomatiche molecole del virus. Qui sconfina: l’espressione è troppo invasiva e dalle sfumature pacchiane.
 
Rimane un po’ di amaro in bocca dovuto a queste dissonanze. Se da una parte ci apre gli occhi con perle visive (Senna color sangue), dall’altra abbatte l’edificato forse per troppa foga. La lunghezza eccessiva della pellicola è un altro punto a sfavore. 
Una menzione di riguardo va fatta per il giovane attore argentino Nahuel Pérez Biscayart, regala una performance sentita: sensibilità e grinta rendono il suo personaggio dominante e memorabile.
 
David Siena

Happy End

Lunedì 29 Maggio 2017 13:43
Quando è stata presentata la line up ufficiale del Festival di Cannes 2017 ed è comparso nella lista il nome del due volte vincitore della Palma d’Oro Michael Haneke (Il nastro bianco - 2009 e Amour - 2012), tutto il mondo del cinema avrà pensato che il titolo "Happy End" nascondesse delle Molotov cariche della benzina più infiammabile pronte a squarciare la patina buonista dell’apparenza. L’effetto “Boom” questa volta però è minore. Qui troviamo tutta la cinematografia del regista austriaco, certamente attualizzata, ma sempre spietata. Dirige con mano caustica, ma leggermente meno graffiante rispetto alle sue opere precedenti. Ne consegue un film comunque utile, che vuol essere un’impegnata riflessione sul peso dei social network e delle moderne tecnologie, che invade e smonta la privacy della borghesia, sempre più zoppicante, egoista ed indifferente. Alienazione che si spinge fino alla consapevolezza che non esiste nessun problema rifugiati. Questione estranea a chi pensa che tutto quello che non lo tocca da vicino non esiste. 
 
Oggi. Adesso. Una famiglia benestante è strettamente presa in esame dall’occhio indiscreto della telecamera di un cellulare. Ci troviamo nel Nord della Francia e precisamente a Calais. Il patriarca Georges Laurent (Jean-Louis Trintignant), profondamente in crisi, ha lasciato la propria azienda in mano alla figlia   Anne (Isabelle Huppert) e al nipote Pierre (Franz Rogowski). Un grave incidente all’interno della ditta deve essere ora risolto da queste due neofite e svogliate figure. Gli equilibri della famiglia vengono scombinati anche dal volubile fratello Thomas (Mathieu Kassovitz), che si trova per casa la figlia avuta dal primo matrimonio, dato che l’ex coniuge è ricoverata in ospedale in gravi condizioni di salute. I comportamenti spogli di virtù e di coraggio e le dinamiche (false), che interessano ai membri di questa disomogenea comunità sono l’esempio perfetto della decadenza della borghesia, perennemente insoddisfatta ed infelice.
 
Happy End è scritto e diretto da Michael Haneke. Quest’anno il re delle negazioni, che analizza il mondo sempre per sottrazione, esce a bocca asciutta dal prestigioso Festival francese. 
Per la sua personale e provocatoria ricognizione nell’attuale (e disagiato) ceto medio usa diversi tipi di regia: l’uso diegetico dello smartphone (vedi locandina, icona riuscita che riassume il contenuto del film) è intervallato da riprese statiche e da piani sequenza. Così facendo il regista si avvicina per poi entrare con violento realismo nei contradditori meandri del benessere, convincendo lo spettatore che quello a cui sta assistendo è tutto vero. Il suo è uno sguardo indiscreto e critico sulle attuali convenzioni sociali.
Bravura nel mixare, così da riuscire a trasmettere tutti i significati e farne sentire il peso. Il tutto incorniciato con delirante leggerezza. Un ottimo cinema intellettuale dalla potenza nascosta, che scuote alla distanza. Happy End sembra quasi essere lo spin-off di Amour.
 
Per mettere in scena il cinismo, nei legami umani nel mondo concupiscente dei benestanti, si avvale di un Parterre de rois di attori di primissima fascia. Su tutti, si lasciano mettere a nudo con impressionante bravura, il sofferto ma sempre soprannaturale Jean-Louis Trintignant e l’icona del cinema d’autore made in Europe Isabelle Huppert. Prime donne di un cinema corale, che mette volutamente la narrazione in secondo piano, per dar spazio alle solitudini solitarie, che si spingono da sole verso una drammatica deriva. 
 
David Siena
 

Suburbicon

Mercoledì 06 Dicembre 2017 09:55
Un vecchio detto dice: “l’evidenza è la cosa a cui facciamo meno caso”. E’ davanti ai nostri occhi ogni santo giorno, ma è vittima dei nostri assurdi sistemi mentali, il più delle volte falsi, ridicoli e autodistruttivi. Tutto questo riassume buona parte della drammaturgia di Suburbicon, il nuovo lavoro di regia di George Clooney (il suo ultimo film da regista fu il discusso Monuments Men, del 2014), presentato in concorso al Festival del cinema di Venezia 2017. Sceneggiato dai fratelli Coen (Fargo), che scrissero la storia addirittura nel lontano 1986, forse già sapendo che il plot sarebbe stato efficacemente attuale anche oltre il futuro. Non proprio una novità dal punto di vista della messa in scena, ma rimane un cinema ferocie che mette sagacemente in mostra le malefiche perversioni che si celano dietro una comunità perbene e dalla splendida facciata.
 
I maldestri eventi, dei quali sono protagonisti Gardner Lodge (Matt Damon, qui a Venezia anche con Downsizing di Alexander Payne) e famiglia, sono il fulcro di questa cinica commedia umana, che vede l’impeccabile e patinata cittadina di Suburbicon esserne lo sfondo ideale. Siamo nel 1959, in pieno sogno americano. I Gardner sono vittime di una violenta irruzione. La loro casa è teatro di paura e avidità. Forte ripercussioni si scaglieranno su ogni membro della famiglia. Lodge, vista la flemma delle forze dell’ordine locali, cercherà da solo di far luce su quanto successo nella sua bella e colorata casetta. E’ il contesto dal quale inaspettati eventi faranno la loro comparsa. Il male più assurdo ed impensabile farà naufragare una volte per tutte l’aurea di assoluta conformità nella quale il paese si specchiava. I mostri sono comodamente seduti nel nostro giardino e solo i più piccoli con il loro sguardo innocente avranno l’onere di smascherarli.  
La curata cittadina californiana ricorda in tutto e per tutto quella burtoniana di Edward mani di forbice. Generi diversi, ma con la stessa spietata morale.
 
George Clooney si limita a fare il compitino, guidato dai due quotati fratelli del Minnesota. Per carità anche il compitino può essere fatto male, ma il regista americano dimostra di conoscere bene il contesto in cui si trova ed inserendo note hitchcockiane mantiene integro l’interesse. L’ironica e la grottesca drammaticità delle sequenze più riuscite garantisce alla pellicola una solida ed allo stesso tempo sfacciata consistenza narrativa. Commedia nera dove le gag la fanno da padrone. Non declinano mai il messaggio, anzi lo rinvigoriscono giocando proprio sui contrasti. Non manca il ritmo e la compattezza. 
Clooney recupera in pieno la filosofia coeniana frantumando le linee guida del genere Noir, proponendoci sì le stesse dinamiche del genere, ma ridicolizzando i carnefici, spogli di caratteristiche prettamente di genere e portati a figure insicure e sotto certi punti di vista comiche. 
I protagonisti sono degli emarginati e confermano il fallimento del sogno americano. Personaggi (Julianne Moore nel doppio ruolo di Rose e Margaret, e lo stesso Damon) ben caratterizzati dalla scrittura, che inconsuetamente, dal punto di vista attoriale, risultano un po’ impacciati e sottotono. 
 
In questo crollo continuo della razza bianca, che diventa lei minoranza, si scorge con insistenza la parabola del peccato originale mai ripulito. Un film che guarda volutamente nella direzione sbagliata. Verso l’assurdità dei comportamenti di questo mondo razzista e cieco. Non apertamente politico, lascia spazio e strada libera all’etica che ne è una colonna portante.
 
L’arrangiamento musicale è firmato da Alexander Desplat ed è un dichiarato omaggio alle musiche dei film di Alfred Hitchcock. 
 
David Siena
 
 
 
 
 
 
 

DOGMAN

Sabato 19 Maggio 2018 09:58
Dogman è il nuovo lavoro di Matteo Garrone, in concorso al Festival di Cannes 2018. Il regista romano decide di ambientare il suo nuovo racconto, che forse più del suo “Il Racconto dei Racconti” diventerà il suo racconto con la “R” maiuscola, in un luogo dimenticato da Dio. In una periferia distopica, che vede la città solo in lontananza, la vita del toelettatore di cani Marcello (Marcello Fonte) è condivisa con una famiglia acquisita di amici e colleghi, con negozi e bar. Lui (forse) non appartiene a questa cultura western, in quanto Marcello si presenta calmo e a modo con tutta la comunità. Ma sotto sotto è anche lui un delinquente, di basso profilo, ma pur sempre con le mani in pasta. Spaccia cocaina e ha stretti rapporti con Simoncino (Edoardo Pesce), il boss del quartiere. Quest’ultimo è un ex-pugile, che tiene sotto scacco l’intera borgata. Con la sua moto sfreccia nella strada principale invadendo questo piccolo mondo con il suo rumore assordante, che risuona come sirena di allerta che urla: “Eccomi, io sono qua! E tutti dovete tremare!”.
Marcello è praticamente obbligato a sottostare a Simoncino. Non si può permettere di sgarrare. La figlia Sofia (Alida Baldari Calabria) rimarrebbe senza padre se Marcello dovesse tradire l’ex-pugile. Ma quando il danno si fa irreparabile, visto il profondo tradimento che il dogman procura all’intero quartiere, lui stesso decide di uscire allo scoperto. Costretto a farsi comunque un anno di galera per colpa di Simoncino, alla sua uscita la sete di vendetta è forte e studia un piano per riprendersi la propria dignità. Punta anche a recuperare la stima dei compaesani; valore che forse non potrà mai più riacquistare, qualsiasi cosa lui metta in atto. 
 
La pellicola ha tratto ispirazione da un fatto realmente accaduto nel 1988: Il delitto del canaro della Magliana. 
A 30 anni esatti dal cruente misfatto, Matteo Garrone ha deciso di girare il suo nuovo film basandosi su questo evento, prendendo comunque le distanze dai veri fatti di cronaca. 
Siamo dalle parti dell’Imbalsamatore, anch’esso scritto dallo stesso regista con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso. Ambiente/campo prediletto da Garrone, che anche qui come allora, riesce a mostrarci un’esistenza senza luce, dove tutto è decadente e oscuro. 
 
Perché non mettere in scena un alba? O una rinascita? Solo privazioni e soprusi nel cinema del regista romano. Forse perché si sente addosso il peso dei nostri tempi. Contemporaneità degradata e senza un prosperoso futuro. Dal canto suo dobbiamo dagli atto che in questa sua messa in scena è un maestro. Anche trattando un argomento così malvagio e ruvido non è mai eccessivo e retorico. Risulta sommamente potente. La sua telecamera si fa largo prepotentemente attraverso le condizioni di vita di un determinato habitat, riuscendo ad estrapolarne lo stato esistenziale, sia in superficie che segreto. Portando così ai nostri occhi la vera essenza di quella condizione, senza filtri.
 
Qui, nel particolare, lo sguardo del regista sì concentra su Marcello, che diviene l’anima del film. Scruta intimamente il suo mutamento psicologico. Primi piani che mettono in evidenza la riflessione del canaro. Riesce a farci sentire il disagio della sua vita anonima e spezzata dai più forti. Guardando così da vicino si può anche notare la sua dolcezza, che sembra non poter sfociare poi in una rabbia irrefrenabile. E allora ci rendiamo conto che gentilezza e brutalità possono coesistere e di quanto ci sia ignoto l’animo umano. 
Garrone studia due pulsioni diametralmente opposte, ma così vicine. E’ un po’ alla base del suo cinema il doppio opposto. In Gomorra, quanto è sottile linea che separa delinquenza da legalità? Nell’Imbalsamatore,      
gli animali imbalsamati con tanta cura servono anche per nascondere la droga. In Primo amore, il corpo che declina verso l’anoressia è allo stesso tempo ributtante ed amabile.
 
Dogman si porta a casa dal Festival di Cannes uno dei premi più prestigiosi: la Palma d’oro alla Migliore interpretazione maschile a Marcello Fonte. Non si può non provare empatia per il suo ruolo, reso così

E’ nata una stella

Martedì 04 Settembre 2018 10:02
E’ arrivato il momento, forse il più atteso dal punto di vista mediatico e del glamour, qui al Festival di Venezia: oggi è il giorno di A star is born, pellicola fuori concorso e quarto rifacimento di un classico del cinema musicale/melodrammatico. Il primo fu quello diretto nel 1937 da Wellman, poi seguirono i remake del 1954 e del 1976. La versione 2018, diretta da Bradley Cooper (American Sniper) al suo esordio alla regia, si avvicina molto a quella del 76’ con Barbra Streisand e Kris Kristofferson. Lo stesso Cooper ne è il protagonista principale, affiancato dalla stella del pop Lady Gaga, al suo debutto come protagonista in un film hollywoodiano. Spogliata della sua immagine di star colma di travestimenti, qui la si vede acqua e sapone e probabilmente è l’immagine perfetta, che calza a pennello con le intenzioni narrative del film. Raccoglie la pesante eredità di Janet Gaynor, Judy Garland e Barbra Streisand.
Jackson Maine (Cooper) è un famoso cantante country con al suo attivo migliaia di concerti e altrettante bottiglie di alcol bevute. E’ perennemente ubriaco ed una sera come tante, quando si accorge che non ha più neanche un goccio da sgolarsi, si ferma in un bar qualunque per far rifornimento. Qui rimane folgorato dalla voce e dalla grinta di Ally (Lady Gaga). Giovane ragazza con un marcato talento per il canto. La passione non gli è bastata per sfondare, in quanto non sufficientemente graziosa per entrare a far parte del mondo dello show business. Jack vede il lei una stella pronta a brillare di luce propria. La porta con se in tour e tra una nota e l’altra tra i due nasce un amore unico ed intenso. Una storia passionale, profonda e simbiotica. Ma Jack deve fare i conti con i suoi fantasmi, ormai prossimi a rovinagli la carriera. Al contrario Ally vede la sua fama aumentare di giorno in giorno. Stare insieme diventa sempre più dura. Gli scontri diventato litigi furiosi. La popolarità di Ally sovrasta quella di Jack, che si rende conto che è il momento di farsi da parte, sia nella relazione che sul palco. 
Per ora il bel Bradley, che qui ha partecipato anche alla sceneggiatura e alla produzione, affascina più davanti allo schermo che dietro. Ne consegue un film comunque dignitoso che, soprattutto nei momenti musicali, emoziona con la sua onesta energia. La macchina da presa gigioneggia troppo sui due protagonisti, mai veramente arricchiti dai dialoghi, che risultano un po’ piatti. Viene trascurata la scrittura e l’ascesa drammaturgica ne risente. Si opta per un romanticismo nell’epoca dei social: fast food, consumato e poi subito dimenticato, o almeno in questo caso non reso indimenticabile. Non si accendono tutte le luci sul palco e quello che ne risente è la magia del cinema di questo genere. Sono le canzoni a farla da mattatore. Ci regalano dei momenti piacevoli e almeno in questi contesti si sente la giusta veridicità romantica. Tutti i brani sono originali e scritti proprio dalla coppia Cooper/Gaga. Coadiuvati e consigliati da artisti quali Mark Ronson e Lukas Nelson. Registrati dal vivo senza affidarsi all’aiuto del playback.
Sicuramente, l’11 ottobre data italiana di uscita nelle sale, questo melò contemporaneo richiamerà folle di spettatori. Forte anche di una risonanza mediatica planetaria legata alla coppia Bradley Cooper/Lady Gaga. Peccato non sia riuscito fino in fondo. Una delle mancanze è di non aver pescato qualcosa della classicità dei suoi predecessori. Lo script contiene grandi protagonisti e le loro altrettanto grandi pecche nella vita, fatta di scelte sbagliate, che qui trovano solo in parte la giusta ribalta. Poteva diventare veramente una love story di tutto rispetto. 
Il trailer spara tutte le cartucce migliori. In due minuti e trenta si percepisce: amore e forza, che impattano sullo spettatore con una carica travolgente.
 
David Siena
 
 
 
 

Cold War

Domenica 20 Maggio 2018 11:11

Nella Polonia del dopoguerra e della Guerra Fredda (dalla fine degli anni ’40 ai primi anni ’60) è molto difficoltoso rialzarsi. Ma in qualche modo bisogna reagire e per riportare la gente a credere nello Stato si organizza una compagnia di canto, con tanto di balli popolari. Dal folklore si cerca di restituire al popolo quelle sensazioni, ormai perdute, di amore per la patria e di voglia di ricominciare, che però sotto sotto sanno tanto di propaganda. Durante le audizioni per entrare a far parte della Mazurek Ensemble, l’affermato pianista Victor (Tomasz Kot) si invaghisce della proletaria Zula (Joanna Kulig). Ne nasce un amore passionale, ma tormentato. La loro storia prenderà, dapprima, la strada verso l’occidente, per poi ritornare a casa base. Parigi, città dove il musicista trova la sua dimensione ideale, lontano dal regime, non sta bene a Zula. Ma il loro amarsi è come poter respirare dopo anni di apnea forzata: è vitale. Si rincorrono di città in città senza mai veramente fare famiglia. Sono sempre ostacolati da qualcosa: di matrice diplomatica o da cause che riguardano la sfera interiore. Questa impossibilità di amarsi è sviscerata tramite una mise-en-scène originale, composta da diverse cartoline in movimento, momenti emblematici della loro esistenza. Punti di svolta focali contraddistinti da romanticismo, tensione e da un senso di annullamento perfettamente incastonati in un bianco e nero, tanto affascinante quanto nebuloso.

 

Pawlikowski torna nella sua Polonia, dopo averci ambientato anche il precedente Ida (Oscar 2015 come Miglior film straniero). L’autore ha dichiarato apertamente che per la realizzazione del film si è ispirato alla vita dei propri genitori. Cold War, in concorso al Festival di Cannes 2018, vince (meritamente) la Palma per la Miglior Regia. E se ci fosse stato un premio per la fotografia sarebbe andato a Lukasz Zal, fido collaboratore del regista (nomination Oscar per Ida). Le sue luci e i suoi bui portano lo spettatore lì, a vivere pienamente quel periodo storico.

 

In questo melodramma colpisce l’estetica (fiore all’occhiello del regista). Una bella, nel senso più aggraziato della parola, regia. Il fascino delle immagini, in contrasto con l’argomento trattato, è il vero punto di forza di Cold War. Opera ipnotica, concentrata e marmorea. Pawlikowski dimostra lucidità nel dirigere e narrare. Il film ha i giusti tempi e la lunghezza ridotta, marchio di fabbrica dell’autore, calza a pennello con lo sviluppo narrativo: ago di una puntura che entra ed esce con estrema rapidità (ma il suo compito lo svolge appieno), lasciando indelebilmente una sensazione di dolore acuto, sia per l’impossibilità di amare, sia per il dolore che subisce una Polonia depressa e smarrita. A Pawlikowski gli si potrebbe imputare di non essere completamente empatico nello sviscerare i sentimenti più caldi; questo suo modus operandi, dal climax tenuto sotto zero, non è per forza sinonimo di deficit. Anzi è una peculiarità, che lo accomuna ad un altro grande cineasta contemporaneo: David Fincher (Seven, Gone Girl).

 

Con questo film il regista avvalora il suo amore per la patria, messo in scena con intermittenza, ma mai interrotto. L’amore tra Viktor e Zula, che subisce ripetute tamponate di cloroformio, è un desiderio anestetizzato, non per questo meno profondo ed essenziale. E’ l’icona perfetta per dire allo spettatore che l’amore per la propria terra non muore mai, ma può vivere momenti di sbandamento.

Vedendo Cold War sembra proprio di sfogliare un album di fotografie di una vita di coppia martoriata. Critica non troppo velata al partito comunista di quella Polonia stretta in una gelida morsa. E probabilmente, dopo la visione del film, che non dovete perdere, capirete anche l’attuale e marcata disapprovazione verso le istituzioni dei giorni nostri, prive di tangibili e benevole speranze.

 

David Siena

 

Dragged Across Concrete

Martedì 04 Settembre 2018 09:35
Ormai S. Craig Zahler è un aficionado della Mostra del Cinema di Venezia. Lo scorso anno portò Cell Block 99: Nessuno può fermarmi, inserito dall’organizzazione nella rassegna di mezzanotte. Ora tarda perché al regista piace la violenza quella “gratuita”, senza offendere nessuno. I suoi sono film di genere, che trovano in una parte di pubblico un seguito sentito e tifoso. E già che ci siamo non possiamo non menzionare Bone Tomahawk, suo primo lungometraggio, che ha fatto da apripista del genere. Quest’anno ci regala “fuori concorso” un poliziesco feroce. Dragged across concrete riesce a concretizzare maggiormente, scusate il gioco di parole, rispetto alla scarsità di contenuti dei suoi due “simili” predecessori. Zahler, che scrive e dirige, irrobustisce la storia e lascia da parte l’horror, confezionando un film che strizza l’occhio sotto certi versi al noir. Meno ampolloso; si viaggia comunque su strade strette con burroni sempre in agguato. Equilibrio instabile, che non manca di creare ansia e concitazione nello spettatore. E assolutamente, sua peculiarità, si discosta dal cinema mainstream.
La storia è quella di due poliziotti sospesi per abuso di potere in cerca di soldi sporchi per garantire alla proprie famiglie un’esistenza dignitosa. I corrotti sono l’agente Brett Ridgeman (Mel Gibson) e il suo collega Anthony Lurasetti (Vince Vaughn). Durante un’investigazione vengono ripresi dalle telecamere mentre catturano dei loschi individui usando delle maniere non proprio convenzionali. Il video incriminato diventa virale e il loro diretto superiore è costretto a ritirargli il distintivo. La loro vita non era già rosea e ora che si trovano anche senza stipendio decidono di provare a rubare a dei criminali spietati un enorme quantità di denaro. Scendendo all’inferno è molto probabile bruciarsi. Brett e Anthony inciampano in qualcosa di inaspettato e fuori dal loro controllo. Forse hanno fatto il passo più lungo della gamba. Stuzzicare il Diavolo lì porterà a giocare una partita a dadi dura e furiosa.
Il film è meno violento rispetto ai precedenti del regista; ottimamente confezionato nella sua dilatata narrazione, che raggiunge alti e coinvolgenti livelli di tensione drammatica. 2h40 incollati allo schermo, l’azione è praticamente in tempo reale, in attesa dello districarsi della vicenda: amara, umana e legata indissolubilmente alle percentuali di successo che Mel Gibson elargisce ironicamente, ma neanche tanto, al suo fidato collega Vaugh. In Dragged across concrete troviamo molto della cinematografia contemporanea. Dal fato, tassello fondamentale nelle opere targate Innàritu/Arriaga: vedi il riuscito incrocio tra narrazione principale e secondaria, che vede come la vita sia ineluttabile per la giovane e neo mamma Kelly Summer (Jennifer Carpenter), tornata al suo lavoro in banca dopo la maternità. Il resto lo lasciamo scoprire a voi. Zahler si affida anche a dettami tarantiniani. Come il geniale Quentin, Zahler apprezza la logorroicità dei dialoghi, i tempi dilatati e la violenza. Di suo ci mette l’infallibile matematica. Dal destino alla scienza il passo è breve perché le percentuali di successo o di fallimento, marchio di fabbrica dell’agente Ridgeman, sbagliano veramente poco. Con tutto questo si poteva stroppiare e lasciare lo spettatore in preda a chissà quale caos, ma il regista americano riesce a far proprie queste filosofie. L’incedere beffardo è il giusto ingrediente per tenere le redini salde e consentire al film di essere compatto.
Tecnicamente ben girato. La regia è diretta e lucida. Sempre nel posto giusto per evidenziare l’azione, ma anche lo stato d’animo dei personaggi. Focalizzata anche nel mettere in evidenza gli innumerevoli scambi di vedute dei due protagonisti, fondamentali nell’avanzare dell’intrigo. Una costruzione minuziosa e perfettamente collaudata, inevitabilmente indirizzata al successo qualsiasi sia il finale. Un film consigliato a chi non vuole essere ricattato dalla regia e agli amanti dei risvolti tetri e cruenti della polizia.
 
David Siena