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Jupiter's Moon

Giovedì 25 Maggio 2017 21:00
Jupiter’s moon è ambientato nei giorni nostri e tratta parecchi temi, forse troppi. Uno di questi è di caldissima attualità: il problema profughi. La terra promessa, in questo preciso caso, è l’Ungheria. I clandestini faticano non poco per varcare il confine. La maggior parte vengono scoperti e fucilati senza pietà. In questo clima di rappresaglia e di odio, Aryan (Zsombor Jéger), giovane siriano in cerca di salvezza, è sul punto di entrare illegalmente nel paese. Ma qualcosa va storto e durante un inseguimento viene ferito a morte. Di lì a poco si risveglia miracolosamente e scopre di poter levitare. Aryan viene portato in un campo profughi dove il Dottor Stern (Merab Ninidze), affascinato dalle sue doti mistiche e vedendo il lui la possibilità di fare parecchi soldi, lo aiuta a fuggire. La loro sarà una fuga colma di imprevisti. Laszlo (György Cserhalmi), il direttore del campo, gli starà perennemente alle costole, convinto di poterli acciuffare e sbatterli in gatta buia. Il Dottore, persona corrotta e pronta a tutto per soddisfare i propri interessi, sa a chi rivolgersi per guadagnare denaro con i miracoli del giovane siriano. La corruzione sporca e becera e la fede religiosa, che qui si confonde troppo con il fantastico, sono gli altri aspetti alla base del nuovo lavoro di Kornél Mundruczó. La sua Luna di Giove, che realisticamente si chiama Europa, è una terra promessa irrimediabilmente compromessa. 
 
Questa strana parabola fa parte del concorso ufficiale del Festival di Cannes 2017. Il suo autore, nel 2014, vinse il premio per il miglior film nella sezione Un Certain Regard, con White God – Sinfonia per Hagen. Una specie di favola dai risvolti inquietanti, che aveva come tema di fondo il maltrattamento e l’abbandono dei cani. Se 3 anni fa uscì dal Festival francese con il plauso di aver dato un’originale vetrina ai diversi, lo stesso non si può dire per il suo Jupiter’s moon: opera pesante, confusionaria e ricattatoria.
 
Mundruczó spinge lo spettatore a riflettere su qualcosa di profondo, ma solo lui trova la profondità. La sua bussola si spinge oltre i normali punti cardinali. Punta con eccessiva presunzione verso l’alto, in tutti i sensi. La mescolanza dei generi: oggettivo (aspra denuncia verso il suo popolo decomposto e marcio) e immaginario (uomo risorto come angelo che porta alla redenzione) non funziona. È lodevole la ricerca di una morale costruttiva, ma il suo modus operandi è accartocciato su se stesso e troppo ambizioso. 
Il regista pretende oltre la misura consentita, volendo dare alla religione o a chissà quale potere superiore, il compito di significare l’unica via d’uscita per il genere umano, ormai relegato a virus che infetta tutto quello che trova sulla sua strada (la sua Budapest è descritta come l’inferno in terra).
 
Ed è proprio da questa descrizione che si tirano fuori gli unici punti a favore della pellicola. Uno sguardo presente, pronto e scattante sulla contemporaneità della città. Il viaggio del medico (il vero protagonista) nelle strade della capitale ungherese è ben diretto. La camera da presa sta appiccicata ai personaggi, li insegue senza sosta. Dinamicità e soggettività ben mixate. Entra nella vita delle persone: ottima la carrellata dall’alto verso il basso di un appartamento. Qui la regia è estremamente esplicativa e curata. 
 
A conti fatti Jupiter’s moon si può ricordare solo per qualche buon spunto tecnico, che almeno delinea con realismo i contorni di un paese, che ascolta solo il richiamo dell’immoralità. Non c’è spazio per una redenzione vera e propria. Del resto, l’esagerata carne al fuoco è chiaramente gestita male. Parte si brucia e parte non si capisce bene com’è cotta.
 
David Siena
 

Radiance (Hicari)

Venerdì 26 Maggio 2017 21:08
Masaya (Masatoshi Nagase), che di professione fa il fotografo, discende verso una cecità senza speranza. Per integrarsi con il mondo dei non vedenti partecipa a proiezioni di film, dove una giovane interprete di immagini, ne descrive le scene. Questo ruolo spetta alla sensibile Misako (Ayame Misaki). Il suo compito non è solo quello di esprimere oggettivamente, ma di riuscire con realismo, nell’arduo compito di trasmettere le emozioni ed i sentimenti, che sono presenti all’interno dalla pellicola. Per lei il suo lavoro è tutto. Questa sua passione gli permette di interagire nel profondo con Masaya, scoprendo le sue fotografie ed il suo sguardo. Tra di loro nasce un intimo e sussurrato rapporto, che permetterà ad entrambe di trovare la luce. Assaporeranno insieme l’abbagliante e calda luminosità della vita e dell’amore, fino ad allora reclusa nell’oscurità. 
 
Nel giorno dei festeggiamenti di Cannes 70, il concorso viene aperto da Radiance, l’ultimo e delicato lavoro della regista giapponese Naomi Kawase. (Le ricette della signora Toku – 2015). Il film è basato sui sensi e sul loro potere, e su come sia difficile accettare di perdere una parte di noi stessi.
Ancora una volta il suo cinema è contraddistinto da un lirismo pronunciato. Alle due stelle della valutazione critica andrebbe aggiunta una mezza stella. A conti fatti il film è ben curato, la messa in scena è capillare e la fotografia si armonizza finemente con gli argomenti trattati. Le note dolenti risiedono in una regia che segue il dramma e l’improvviso amore con troppo incanto. Le inquadrature intime ed i movimenti della macchina da presa sono leggeri come il battito delle ali di una farfalla, ma a questa morbidezza manca un po’ di entità. Sostanza che non ritroviamo neppure nella narrazione, complice anche la poca originalità ed un bagaglio di retorica oltre il peso consentito. Radiance ha una storia semplice, non per questo parte svantaggiata, ma ha qualche esitazione di troppo e le emozioni presenti rimangono incollate ai protagonisti e meno al pubblico.
 
L’autrice e sceneggiatrice nipponica realizza un film simile ad una canzone, peccato che i ritornelli non possano diventare un tormentone. Nelle foto di Masaya e nei frames raccontati dalla perseverante Misako troviamo il cuore dei protagonisti, peccato che il tutto sia troppo convenzionale. Momenti chiave insipidi dove la ricerca del primordiale è esente dallo stupire.
 
Radiance lascia l’amaro in bocca. Il linguaggio usato nella sua forma metacinematografica, mixato con la poesia, è sicuramente ben calibrato, ma eccessivamente semplicistico. Anche la metafora dominante della luce è proprio basica. Infine troviamo anche un commento musicale sproporzionatamente invasivo. La   sensazione nel finale, che la foto di se stessi sia a fuoco e nitida può anche essere legittimata, ma il percorso che intraprende nella camera oscura è incompleto e manca di un concreto colore.
 
David Siena

Loveless

Sabato 27 Maggio 2017 21:15
Boris (Aleksey Rozin) e Zhenya (Maryana Spivak) sono una coppia che non ha più nulla da dirsi. Anzi, quello che esce dalle loro bocche fa solo male al piccolo Alyosha (Matvey Novikov). Prossimi al divorzio, visto che entrambe hanno già nuovi rapporti, sono alle prese con la vendita della loro casa. Nessuno dei due presta molta attenzione al figlio e l’affidamento sembra essere un peso per entrambe. Zhenya è concentrata sul suo nuovo partner, che sembra in procinto di chiederle la mano e Boris si è già portato avanti, visto che la sua giovane compagna è in dolce attesa. In questo sontuoso egoismo, il dodicenne Alyosha scompare. Variabile che nessuno ha messo in preventivo. Iniziano ricerche su larga scala per ritrovare il ragazzino. In Loveless l’esplorazione non è solo materiale, ma anche nelle coscienze dei genitori. Monografie terribili che stanano l’arrogante individualismo, neppure così tanto velato, che è parte viva e consenziente dell’uomo contemporaneo.
 
Dopo il meritato successo di Leviathan (premio alla regia qui a Cannes nel 2014 e Golden Globe come miglior film straniero nello stesso anno), Andrey Zvyagintsev torna in concorso al Festival di Cannes. Il regista russo si ricorda anche per il suo colpo di fulmine: il Ritorno, vincitore del Leone d’Oro a Venezia 2003. Ed ancora una volta lascia il segno, Loveless si aggiudica il Premio della Giuria. Fin da subito possiamo affermare che avrebbe meritato qualcosa di più. Il cineasta russo confeziona una nera parabola sull’amore e sul non prendersi cura di nessuno, neppure di se stessi. Lascia il dramma mitologico per il dramma famigliare, anche se l’amore può essere inteso come utopia, soprattutto nella nostra epoca, dove ha perso il suo vigore. Ora più che mai sentimento effimero paragonabile ad un selfie.
 
La sua è una regia compatta, spietata e cinica, che trasmette un angosciante senso di vuoto e paura, in grado di scavare nel profondo. Si sofferma sui momenti più drammatici, rimane lì per creare scompiglio. Scruta attentamente i protagonisti e le loro reazioni davanti al male. Scene strazianti che entrano prepotentemente nella carne dello spettatore. Nella più rappresentativa, gioca con il bene ed il male, relegandoli nel fuori campo, creando così una sorta di ambiguità. Il risultato che ne consegue è potentissimo, come un pugno alla bocca dello stomaco. Tutto chirurgicamente incorniciato da un registro rigoroso, privo di punti deboli e sbavature.
 
Zvyagintsev, come sempre, trova anche lo spazio per criticare la propria madre patria. Russia che sembra guardare avanti, ma che si ferma volentieri ancora sui propri ideali.  Sotto testo che cammina a braccetto con le vicende di questa sfasciata famiglia. Non possiamo dimenticare di elogiare, come fiore all’occhiello di Loveless, la sua splendida fotografia. Le gelide immagini della maestosa natura che ci circonda aprono e chiudono il film, come fu anche per Leviathan. Madre sovrana che regna sul piccolo e misero mondo dell’uomo. Cosmo innevato e puro, fatto di calmi ruscelli, non corrotto dalla soggettiva natura dell’uomo, che allo stesso tempo è affine al freddo che domina le nostre anime.
 
Il moralista e viscerale Loveless presenta, come una unica pecca, qualche piccolo difetto di sceneggiatura. Per raggiungere il suo scopo si priva di alcune logicità e determinate situazioni risultano un po’ al limite. 
Gli si può perdonare perché la pellicola riesce nel suo scopo: maltrattare l’amore con un riuscita prepotenza scolpita a freddo nell’animo dei protagonisti. Qui le radici (nucleo famigliare) sono veramente spezzate.
 
David Siena
 

The Killing of a Sacred Deer

Mercoledì 24 Maggio 2017 21:22
Il brillante cardiochirurgo Steven (Colin Farrell, qui a Cannes anche con The Beguiled di Sofia Coppola) decide di prendere sotto la sua ala protettrice il giovane Martin (Barry Keoghan, che tra poco vedremo in Dunkirk di Chris Nolan). Il loro è un rapporto strano, un alone di mistero lo avvolge. L’adolescente pian piano si fa largo all’interno della famiglia del medico, ed il dottore stesso viene invitato a casa del ragazzo. Improvvisamente qualcosa di inspiegabile capita a Bob (Sunny Suljic), figlio di Steven. Nessuno riesce a capire cosa stia succedendo, in quanto il ragazzino sembra essere perfettamente sano. Da qui in poi le parole, che sarebbero spoiler, si fermano per lasciare spazio alla disamina critica. The Killing of a Sacred Deer è un film da scoprire in un crescere di suspense attanagliante. L’ultima fatica del regista Yorgos Lanthimos è inquietudine allo stato puro. 
 
Al Festival di Cannes 2015 il suo The Lobster si portò a casa il Premio della Giuria. Anche in questa edizione non rimane a bocca asciutta. Ex aequo con You Were Never Really Here di Lynne Ramsay, l’autore greco vince il premio della miglior sceneggiatura, scritta con Efthymis Filippou. Ed è proprio da qui che partiamo, da un soggetto ispirato alla mitologia greca: la dea Artemide che si vendica con Agamennone per aver ucciso un cervo a lei sacro. Su questa base si articola la geometrica scrittura di quest’opera tanto originale quanto angosciante. Script lineare che si sviluppa su un unico strato temporale, in grado di cambiare con disinvoltura registro, spostando il campo gravitazionale su gag feticiste e grottesche, senza mai far cadere la tensione. Anzi, le stranezze ed i rapporti ambigui amplificano il senso di disagio nello spettatore. Tutto diviene estremamente horror. Splendidamente codificato ed articolato. In più ci si mette una regia che si concentra su inquadrature a 180°, che inglobano i protagonisti all’interno degli ambienti. Quest’uso eccessivo diventa disturbante da poter essere paragonato agli avvenimenti proposti. Tutto fa atmosfera: la vera forza di The Killing of a Sacred Deer.
 
Direzione artistica potente e compiaciutamente distorta che incolla allo schermo in un’ascesa verso la sacralità e l’espiazione dei propri peccati. Diventa film di genere, del tutto decifrabile e spiccatamente moralista, ma per nulla scontato. Non mancano i tratti stilistici di Lanthimos: immagini atte ad impressionare, come il cuore aperto della primissima inquadratura o il sangue mistico di Bob. Forma che si incolla alla colpevolezza ed innocenza dei personaggi. Colpa ma non dolo, sottolineata anche da un commento musicale che taglia come un bisturi. Ti apre senza pietà potenziando la drammaticità della sceneggiatura.
 
L’ansia che ti prende lo stomaco è tremenda, complice un cast glaciale, che si armonizza con le intenzioni dell’autore. Su tutti Anna (Nicole Kidman, quest’anno con ben quattro film sulla Croisette), moglie di Steven, la sua è un’interpretazione energica, ma calibrata. Il suo sguardo si adatta ad ogni situazione, all’occorrenza deciso o sterile. La semplicità di passaggio è sinonimo di padronanza e grandezza attoriale.
 
Lanthimos si lascia andare solo nel finale. Il suo orologio infernale stecca solo verso la mezzanotte. L’ultimo rintocco non è che non realizzi in suo scopo, li ci è arrivato con largo margine. Una vetrina finale un po’ troppo compiaciuta stride con il resto della giostra. Palio infernale che sarebbe piaciuto anche al puntiglioso, ma geniale Stanley Kubrick.
 
David Siena
 

DOGMAN

Sabato 19 Maggio 2018 09:58
Dogman è il nuovo lavoro di Matteo Garrone, in concorso al Festival di Cannes 2018. Il regista romano decide di ambientare il suo nuovo racconto, che forse più del suo “Il Racconto dei Racconti” diventerà il suo racconto con la “R” maiuscola, in un luogo dimenticato da Dio. In una periferia distopica, che vede la città solo in lontananza, la vita del toelettatore di cani Marcello (Marcello Fonte) è condivisa con una famiglia acquisita di amici e colleghi, con negozi e bar. Lui (forse) non appartiene a questa cultura western, in quanto Marcello si presenta calmo e a modo con tutta la comunità. Ma sotto sotto è anche lui un delinquente, di basso profilo, ma pur sempre con le mani in pasta. Spaccia cocaina e ha stretti rapporti con Simoncino (Edoardo Pesce), il boss del quartiere. Quest’ultimo è un ex-pugile, che tiene sotto scacco l’intera borgata. Con la sua moto sfreccia nella strada principale invadendo questo piccolo mondo con il suo rumore assordante, che risuona come sirena di allerta che urla: “Eccomi, io sono qua! E tutti dovete tremare!”.
Marcello è praticamente obbligato a sottostare a Simoncino. Non si può permettere di sgarrare. La figlia Sofia (Alida Baldari Calabria) rimarrebbe senza padre se Marcello dovesse tradire l’ex-pugile. Ma quando il danno si fa irreparabile, visto il profondo tradimento che il dogman procura all’intero quartiere, lui stesso decide di uscire allo scoperto. Costretto a farsi comunque un anno di galera per colpa di Simoncino, alla sua uscita la sete di vendetta è forte e studia un piano per riprendersi la propria dignità. Punta anche a recuperare la stima dei compaesani; valore che forse non potrà mai più riacquistare, qualsiasi cosa lui metta in atto. 
 
La pellicola ha tratto ispirazione da un fatto realmente accaduto nel 1988: Il delitto del canaro della Magliana. 
A 30 anni esatti dal cruente misfatto, Matteo Garrone ha deciso di girare il suo nuovo film basandosi su questo evento, prendendo comunque le distanze dai veri fatti di cronaca. 
Siamo dalle parti dell’Imbalsamatore, anch’esso scritto dallo stesso regista con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso. Ambiente/campo prediletto da Garrone, che anche qui come allora, riesce a mostrarci un’esistenza senza luce, dove tutto è decadente e oscuro. 
 
Perché non mettere in scena un alba? O una rinascita? Solo privazioni e soprusi nel cinema del regista romano. Forse perché si sente addosso il peso dei nostri tempi. Contemporaneità degradata e senza un prosperoso futuro. Dal canto suo dobbiamo dagli atto che in questa sua messa in scena è un maestro. Anche trattando un argomento così malvagio e ruvido non è mai eccessivo e retorico. Risulta sommamente potente. La sua telecamera si fa largo prepotentemente attraverso le condizioni di vita di un determinato habitat, riuscendo ad estrapolarne lo stato esistenziale, sia in superficie che segreto. Portando così ai nostri occhi la vera essenza di quella condizione, senza filtri.
 
Qui, nel particolare, lo sguardo del regista sì concentra su Marcello, che diviene l’anima del film. Scruta intimamente il suo mutamento psicologico. Primi piani che mettono in evidenza la riflessione del canaro. Riesce a farci sentire il disagio della sua vita anonima e spezzata dai più forti. Guardando così da vicino si può anche notare la sua dolcezza, che sembra non poter sfociare poi in una rabbia irrefrenabile. E allora ci rendiamo conto che gentilezza e brutalità possono coesistere e di quanto ci sia ignoto l’animo umano. 
Garrone studia due pulsioni diametralmente opposte, ma così vicine. E’ un po’ alla base del suo cinema il doppio opposto. In Gomorra, quanto è sottile linea che separa delinquenza da legalità? Nell’Imbalsamatore,      
gli animali imbalsamati con tanta cura servono anche per nascondere la droga. In Primo amore, il corpo che declina verso l’anoressia è allo stesso tempo ributtante ed amabile.
 
Dogman si porta a casa dal Festival di Cannes uno dei premi più prestigiosi: la Palma d’oro alla Migliore interpretazione maschile a Marcello Fonte. Non si può non provare empatia per il suo ruolo, reso così

Shoplifters

Sabato 19 Maggio 2018 00:15
Da qualche parte in Tokyo, Osamu Shibata (Lily Franky) e sua moglie Nobuyo (Sakura Ando) vivono una vita di stenti. Purtroppo Osamu ha solo dei lavori occasionali. La vera foraggiatrice di casa è la nonna (Kirin Kiki) con la sua pensione, ma da sola non riesce a sopperire alle molte mancanze. Perciò, per arrotondare, Osamu e il figlio Shota (Kairi Jō) si dedicano a piccoli furti nei supermercati della zona. Vizio scomodo, ma che gli garantisce la sopravvivenza. Padre e figlio sono dei maestri nel raggirare la sorveglianza e hanno anche l’ardire di prendersela con se stessi, perché si sono dimenticati di rubare lo shampoo. Un giorno trovano sulla loro strada una piccola senzatetto, la sperduta ed impaurita Yuri (Miyu Sasaki). Hanno la brillante idea di portala a casa con loro, visto che la famiglia di sangue della bambina sembra essere violenta e non molto attenta alle esigenze d’affetto della piccola. Contro ogni previsione, la piccola Yuri viene adottata dai poveri Osamu, ma questo non avviene ufficialmente e anche se per fin di bene, è dichiaratamente un sequestro. Ora il loro nucleo famigliare è più coeso che mai. Solo un malaugurato evento metterà a rischio l’integrità del legame creatosi.
 
La sinossi appena stesa è quella di una meritevole Palma d’Oro, o almeno quella di un racconto che ha messo d’accordo tutti gli addetti ai lavori. La Presidente di Giuria Cate Blanchett ha motivato così la decisione del giurì: “Siamo stati completamente travolti da Shoplifters. Le performances degli attori si sono intrecciate alla perfezione con le intenzioni registiche.” Tutto vero, perché Hirokazu Kore-eda (già vincitore del Premio della Giuria 2013 con Father & Son e molto simile a Shoplifters), che qui non solo dirige, ma scrive e cura il montaggio, ci dona un’opera dal doppio risvolto. Crime story sottosopra, vista dai buoni propositi. Lo sguardo del regista demonizza quello che per logica è male e riflette sulle conseguenze di prove di affetto in un ambiente dove i legami di sangue non esistono. La vera famiglia rimane sempre e solo quella genetica o può essere quella che ci ha veramente a cuore? La risposta arriva grazie alla messa in scena: l’intera famiglia chiusa in 4 mura, che sembrano 4 metri quadri. Lì, saldamente vicini gli uni agli altri, stretti ma uniti, unione che si eleva a felicità. Corroborato da attori genuini e sul pezzo, Kore-eda conferma le sue ottime doti di regista: spicca la forma e la facilità nella gestione di un argomento delicato come questo. Leggerezza e scorrevolezza sono il fiore all’occhiello di Shoplifters. 
 
La narrazione è corposa, ma lo spettatore non ha un compito arduo per portarla a termine. Anche grazie ad una regia dolce e classica, che mette in scena un mondo fatto di bugie a fin di bene, menzogne che comunque avranno voce e porteranno delle conseguenze. Tutto quello che la macchina da presa inquadra lo inquadra con finezza, si allontana consapevolmente dai cliché, privilegiando un realismo che riconosce i gesti quotidiani, capaci di autenticità e mai di vergogna. La telecamera del regista non viene usata per giudicare, ma per sorprendere. 
E non aspettatevi di piangere a dirotto. L’eccesso non è nel dna di Kore-eda. 
 
Il regista giapponese ancora una volta si sofferma su storie di famiglia. La pellicola vuole anche essere una piena rivalutazione dei padri e del senso di famiglia, criticati nel suo Little Sister del 2015. Shoplifters ha un non so ché di poetico tra le sue righe. Ha la grazia di una farfalla, priva di inestetismi dopo una gestazione dolorosa ed oscura. Vola tra i fiori più colorati e profumati, orgogliosa della sua bellezza. Senza preoccuparsi della difficoltà, che è insita nel vivere.
 
David Siena
 

Cold War

Domenica 20 Maggio 2018 11:11

Nella Polonia del dopoguerra e della Guerra Fredda (dalla fine degli anni ’40 ai primi anni ’60) è molto difficoltoso rialzarsi. Ma in qualche modo bisogna reagire e per riportare la gente a credere nello Stato si organizza una compagnia di canto, con tanto di balli popolari. Dal folklore si cerca di restituire al popolo quelle sensazioni, ormai perdute, di amore per la patria e di voglia di ricominciare, che però sotto sotto sanno tanto di propaganda. Durante le audizioni per entrare a far parte della Mazurek Ensemble, l’affermato pianista Victor (Tomasz Kot) si invaghisce della proletaria Zula (Joanna Kulig). Ne nasce un amore passionale, ma tormentato. La loro storia prenderà, dapprima, la strada verso l’occidente, per poi ritornare a casa base. Parigi, città dove il musicista trova la sua dimensione ideale, lontano dal regime, non sta bene a Zula. Ma il loro amarsi è come poter respirare dopo anni di apnea forzata: è vitale. Si rincorrono di città in città senza mai veramente fare famiglia. Sono sempre ostacolati da qualcosa: di matrice diplomatica o da cause che riguardano la sfera interiore. Questa impossibilità di amarsi è sviscerata tramite una mise-en-scène originale, composta da diverse cartoline in movimento, momenti emblematici della loro esistenza. Punti di svolta focali contraddistinti da romanticismo, tensione e da un senso di annullamento perfettamente incastonati in un bianco e nero, tanto affascinante quanto nebuloso.

 

Pawlikowski torna nella sua Polonia, dopo averci ambientato anche il precedente Ida (Oscar 2015 come Miglior film straniero). L’autore ha dichiarato apertamente che per la realizzazione del film si è ispirato alla vita dei propri genitori. Cold War, in concorso al Festival di Cannes 2018, vince (meritamente) la Palma per la Miglior Regia. E se ci fosse stato un premio per la fotografia sarebbe andato a Lukasz Zal, fido collaboratore del regista (nomination Oscar per Ida). Le sue luci e i suoi bui portano lo spettatore lì, a vivere pienamente quel periodo storico.

 

In questo melodramma colpisce l’estetica (fiore all’occhiello del regista). Una bella, nel senso più aggraziato della parola, regia. Il fascino delle immagini, in contrasto con l’argomento trattato, è il vero punto di forza di Cold War. Opera ipnotica, concentrata e marmorea. Pawlikowski dimostra lucidità nel dirigere e narrare. Il film ha i giusti tempi e la lunghezza ridotta, marchio di fabbrica dell’autore, calza a pennello con lo sviluppo narrativo: ago di una puntura che entra ed esce con estrema rapidità (ma il suo compito lo svolge appieno), lasciando indelebilmente una sensazione di dolore acuto, sia per l’impossibilità di amare, sia per il dolore che subisce una Polonia depressa e smarrita. A Pawlikowski gli si potrebbe imputare di non essere completamente empatico nello sviscerare i sentimenti più caldi; questo suo modus operandi, dal climax tenuto sotto zero, non è per forza sinonimo di deficit. Anzi è una peculiarità, che lo accomuna ad un altro grande cineasta contemporaneo: David Fincher (Seven, Gone Girl).

 

Con questo film il regista avvalora il suo amore per la patria, messo in scena con intermittenza, ma mai interrotto. L’amore tra Viktor e Zula, che subisce ripetute tamponate di cloroformio, è un desiderio anestetizzato, non per questo meno profondo ed essenziale. E’ l’icona perfetta per dire allo spettatore che l’amore per la propria terra non muore mai, ma può vivere momenti di sbandamento.

Vedendo Cold War sembra proprio di sfogliare un album di fotografie di una vita di coppia martoriata. Critica non troppo velata al partito comunista di quella Polonia stretta in una gelida morsa. E probabilmente, dopo la visione del film, che non dovete perdere, capirete anche l’attuale e marcata disapprovazione verso le istituzioni dei giorni nostri, prive di tangibili e benevole speranze.

 

David Siena

 

7 uomini a mollo

Venerdì 18 Maggio 2018 15:39
Bè, che dire? I francesi sanno fare le commedie. E questa ne è l’ennesima conferma. Scomodando, non ce ne vogliate, ma la somiglianza dei titoli e della presentazione ci impone di provarci, il meraviglioso Il Grande Freddo di Lawrence Kasdan, dove già nell’introduzione i protagonisti erano perfettamente identificati; anche qui si intuisce da subito chi abbiamo di fronte. Uomini di mezza età che non sono a loro agio nel mondo. Ma se nel film americano del 1983 si puntava sulla nostalgia, Le Grand Bain (Il Grande Bagno) è un crogiolo di divertimento, che ha il suo sguardo puntato sulla rinascita; film corale al maschile, che vede un gruppo di sfigati moderni alle prese con il nuoto sincronizzato.
 
Come in una barzelletta delle più classiche, ecco i protagonisti: Bertrand il depresso (Mathieu Amalric), Marcus il fallito (Benoît Poelvoorde), Simon lo scarso musicista (Jean-Hugues Anglade), Thierry il custode goffo (Philippe Katerine), Laurent il padre con problemi in famiglia (Guillaume Canet) e John l’infermiere apneista (Félix Moati). Questo gruppo mal assortito si trova abitualmente per gli allenamenti, fortemente voluti perché sono il momento nel quale si possono sviscerare le proprie problematiche. Il senso di comunità da sempre conforto e soprattutto è riparatore. Mano a mano che le sicurezze si ritrovano, guidati da due donne singolari: Delphine (Virginie Efira) e Amanda (Leïla Bekhti) coach disabile, severa e sotto certi versi violenta (nel senso più comico del termine), questi scappati di casa hanno l’ardire di partecipare ai Campionati del Mondo di nuoto sincronizzato. Una gara fuori dalla loro portata. Saranno in grado di non sfigurare o addirittura di andare sul podio? Tra di loro il pathos sale di giorno in giorno e affrontano la competizione già da vincenti. Ora il piede non è più nella fossa, ma camminano con orgoglio verso una nuova e ritrovata vita. 
 
Alla regia di Le Grand Bain troviamo Gilles Lellouche, fresco protagonista dell’esilarante C’est la vie (di Eric Toledano e Olivier Nakache, giusto per rimarcare il concetto iniziale di riuscite e spassose commedie francesi). Presentato fuori concorso al Festival di Cannes ed. 71, in Italia uscirà a ridosso di Natale (il 20 dicembre 2018) con il titolo riduttivo 7 uomini a mollo. 
 
Scritto magnificamente, lo spettatore vive momenti di grandioso divertimento, travolto da un ritmo pressante, che non va mai fuori giri. E’ qui la forza del film: la sincronia del nuoto funge da equilibratore di ogni cosa. Se lo è specificatamente di ogni essere umano, che ritrova se stesso, grazie al rigore, all’unione e alla disciplina, lo è anche per direzione artistica del film. Sempre quadrata e lontana da colpi di testa imperiosi. 
Anche quando la comicità diventa un po’ scorretta non cade mai nel volgare. Anzi la scorrettezza è un valore aggiunto. Humor che punta sul prendere in giro se stessi ed il proprio problema. Non equivoci, ma autogol sui quali puntare il dito e riderci sopra. Gag divertenti, dove la peculiarità di ogni attore è usata ad hoc per caratterizzare il proprio personaggio. Piccola pecca: un finale un po’ troppo ruffiano, ma gli si può perdonare, visto che l’intero percorso narrativo non è mai banale, ma arguto, brillante e genuino.
Se vogliamo trovarci altro in Le Grand Bain, per capirci dei sotto testi, può essere una riflessione sulla paura di invecchiare, contro il bieco strapotere dell’apparire (loro sono orgogliosi delle loro pancette) e con la sua esterofilia, una critica alla politica del paese. Insomma, la confezione è ottima. Una pellicola perfettamente immersa nei giorni nostri. 
 
Dei grandi film sullo sport ci piace accostarlo a Fuga per la Vittoria. E’ vero che Sylvester Stallone e Pelé fuggivano per la libertà e la vita (lontani dalla prigionia dei campi di concentramento), ma sotto sotto anche qui uno sport porta essere liberi. Si diventa eroi di se stessi e si ritorna, dopo una lunga prigionia mentale e sociale, a vivere. 
 
David Siena

Plaire, aimer et courir vite

Venerdì 18 Maggio 2018 15:50
Francia, 1990. Lo scrittore Jacques (Pierre Deladonchamps) è a Rennes per organizzare uno spettacolo teatrale. Amante delle arti non disdegna un buon film e decide di andare al cinema per svagarsi. Sceglie “Lezioni di Piano”, meraviglioso film di Jane Campion, e all’interno della sala non riesce a far a meno di notare un bel ragazzo, che di nome fa Arthur (Vincent Lacoste). La sua è una giovinezza non alterata dai dolori della vita e forse anche da questo è attratto Jacques. Arthur, appena vent’enne, è in Bretagna a studiare. Acerbo e con tanta voglia di vivere, e con palesi dubbi sulla sua sessualità, si avventura in una storia passionale con Jacques. Il drammaturgo però vive a Parigi, dove ha un figlio, ed una storia con un altro uomo. Liaison arrivata al capolinea, visto che quest’ultimo, sta morendo di Aids. Arthur e Jacques, travolti dall’amore, vivono un’ardente estate, sicuri del fatto che potrebbe essere una delle ultime. La loro storia è racchiusa nell’azzeccato titolo della pellicola: Piacere, amare e correre veloce, perché il tempo qui non viene studiato e controllato all’interno della finzione, come in un film di Christopher Nolan, ma è reale ed è poco e soprattutto scorre rapido come un fiume in piena.
 
Plaire, aimer et courir vite, in concorso a Cannes 2018, è scritto e diretto da Christophe Honoré. Regista perlopiù teatrale si è fatto notare nel 2007 con Les Chansons d'amour, sempre in concorso al Festival francese. Opera musicale ben orchestrata. E anche in questo suo ultimo lavoro (che oseremmo dire autobiografico) riesce a mettere un po’ di musicalità tra le pagine di una storia bruciata, che altrimenti sarebbe stucchevole e sinceramente vista troppe volte. Parte della critica internazionale lo ha paragonato al Gran Premio della Giuria dello scorso anno: 120 Battiti al minuto. Vero che anche lì il contesto era quello degli anni 90’ e del dilagare dell’HIV, ma il film di Robin Campillo era più politico e militante, è a dirla tutta più riuscito. Plaire, aimer et courir vite è un'operazione diversa, mesta ma diretta. I protagonisti, che ti aspetti vadano in una direzione, ne prendono una diversa e non per forza sbagliata, ma spiazzante. Evidente anche lo sminuzzamento delle narrazioni, dove però troviamo integra la connessione tra amore e morte, che diventa la colonna vertebrale dell’opera. La sua non ben delineata logica e linearità diventano così il valore aggiunto del film e di conseguenza la sua bellezza. 
 
Sorry Angel, è il titolo nella versione inglese, ha anche buoni cambi di registro. Qualche scena emerge per la sagace ironia all’interno del contesto greve. La regia quando va oltremodo in intimità stroppia e abbassa drasticamente il ritmo. Peccato soffermarsi eccessivamente perché i confronti tra i personaggi, che fanno emergere le fragilità o anche le forze, non hanno bisogno di un minutaggio così smisurato. Infatti la pellicola con i suoi 132 minuti eccede in lunghezza. Rimane tuttavia un film non retorico, che vede la piena autoconoscenza di se stabilirsi nei protagonisti dopo una vita difforme, ma per loro necessaria. 
 
Tra sali e scendi il risultato finale non è così male. Christophe Honoré crea un climax tutto suo, che riscopri rivedendo la pellicola nei tuoi pensieri, dopo qualche ora dalla visione. Il film ha una sua delicata eleganza. Nel suo dna è insito un istinto genuino, che riesce a mettere alla berlina i precetti conformisti di quegli anni, ma anche del nuovo secolo. Non si può non segnalare che in questo lungometraggio sono presenti numerose citazioni cinefile e musicali, figlie della passione del suo autore.
 
David Siena
 

Ash is purest white

Sabato 19 Maggio 2018 16:06
Gloria e potere sognano Qiao (Zhao Tao) e Bin (Liao Fan), giovane coppia di malavitosi, costantemente devoti alla triade. Il teatro delle loro imprese è Datong, città dello Shanxi. Siamo ad inizio nuovo millennio ed esattamente nel 2001. Pazzamente innamorati l’uno dell’altra, Qiao e Bin non mancano di dimostrare ai rivali la loro forza, ma una sera vengono avvicinati ed attaccati senza pietà da chi gli vuole sottrarre la leadership. Bin si difende con caparbietà, ma subisce colpi tremendi. Qiao è costretta ad estrarre una pistola e sparare verso il cielo per far terminare il massacro. E’ il momento nel quale tutto si spezza irrimediabilmente. La ragazza viene portata in carcere dove sconterà una pena di 5 anni. Una volta uscita, Qiao prende la strada di Fengjie, alla ricerca del suo grande amore. Ma ora Bin non è più il boss di un tempo, anzi è avvilito e il suo sguardo al futuro è annebbiato e senza una vera prospettiva. L’incontro non porta a nulla. Qiao non ha più presa su di lui e quella che sembrava una coppia indistruttibile deve arrendersi alla realtà. Ora dove è diretta quella giovane donna, che sognava di diventare una grande ballerina al fianco del suo leale gangster? Vaga sola con la sua anima ormai perduta, rintronata ed intontita. Le botte sembra averle prese lei e le cicatrici bruciano ad ogni suo passo. La ritroviamo dieci anni dopo, esattamente nel 2016, tornata a Datong e ora matrona e padrona di una casa da gioco. Inaspettatamente si fa vivo Bin, sempre meno uomo, costretto su una sedia a rotelle accetta le cure della sua vecchia fiamma, ma lo fa con disprezzo. 
 
Ash is purest white, in concorso al Festival di Cannes 2018, è scritto e diretto dal cinese Jia Zhang-ke (Leone d’Oro a Venezia 2006 con Still Life). Questo nuovo lavoro ricalca i suoi precedenti, a partire dalle zone geografiche dove è ambientato, tanto care all’autore. Lo Shanxi è la sua provincia natale. Non può mancare anche la sua compagna di sempre: l’attrice Zhao Tao, presente in quasi tutti i suoi film. Diviso in tre parti ben distinte come Al di là delle montagne, altra sua pellicola dal potente contenuto. Gioca in casa Jia, zona confort e modus operandi di sempre, che non gli impediscono di realizzare ancora una volta un gran film. Mette in scena il tradimento dell’amore, che si consuma in parallelo con il fallimento di quel futuro (globalizzazione) che prometteva solo felicità, ma che è solo disuguaglianza e decadenza morale. 
 
Jia Zhang-ke ci regala un film, che non manca di criticare le promesse fatte e non mantenute da quella terra promessa chiamata modernizzazione. E lo fa con un inteso melodramma. L’amore desiderato da tutti, che va ad impattare contro il muro di una realtà (tanto voluta da noi stessi), che di amorevole e complice non ha proprio nulla. Il futuro che viviamo giornalmente è violento e in perenne sofferenza. Esplicativo è il superbo piano sequenza dell’aggressione a Bin. Ash is purest white non è mai didascalico, è un film dolente e poetico. Nella sua universalità, non vediamo solo una Cina tradita, ma anche un po’ di noi stessi e il nostro sguardo abbassato su un piccolo schermo nero, in grado solo di portare alienazione. Il ritorno alla tradizione è impossibile e, usando un termine tecnologico, navighiamo senza sosta verso un mondo senza alternative. E’ questo lo sfogo del regista, e a parte una lunghezza eccessiva della pellicola, non gli si può dar torto. Non può mancare un altro suo segno di fabbrica, l’ufo che svolazza beato nei cieli e che rafforza l’incoerenza della realtà. Mondo irrazionale, che ormai non ha più la forza di tornare indietro. Felicità presente solo nei piccoli e insensati gesti. (Qiao che condivide una bottiglietta tra le sue e le mani di chi incontra per caso sul treno). Provare a credere in qualcosa, solo per il gusto di credere ancora (uomo che propone un bizzarro lavoro a Qiao in treno).
 
Tanta roba nel film di Jia Zhang-ke, che punta incessantemente il suo faro sulle discordanze del rinnovamento e sulla conseguente instabilità sociale, che innalza il divario tra ricco e povero. Sentita anche l’importanza del passare del tempo su quello che ci emozionava e che ora rimane solo un sordo sussurro. Ingente il supporto attoriale dei due protagonisti, che attraversano i primi 17 anni del nuovo millennio sprigionando magnificamente paure, orgoglio, determinazione e debolezze, con la loro superba performance. Mettono in scena l’esistenza che fa rima con sopravvivenza. La costruzione e la demolizione. 
 
David Siena
 
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