L'ultimo lavoro di Umberto Carteni è tratto dall'omonimo romanzo di Federico Baccomo, quello che fu una specie di caso letterario alla sua pubblicazione con 35mila copie vendute. La storia è semplice e incentrata sulle vicende di un gruppo di avvocati di un importante studio milanese con pochi scrupoli, il tutto servito in chiave di commedia sentimentale. Carteni firma così il suo secondo lungometraggio che arriva dopo il più riuscito Diverso da chi? (2009). Molte le lacune che si scorgono si dall'inizio e già dai primi frames è facile intuire dove l'autore voglia andare a parare. Questo sfortunato progetto mostra immediatamente un impianto narrativo che si regge su una sceneggiatura scontata e poco persuasiva. La storia infatti è quasi inesistente lasciando campo libero all'istrionica bravura di alcuni tra gli interpreti, a cui vengono affidati ruoli secondari, per far da spalle confortevoli ad un meno pregiato protagonista. Tra tutti spiccano Ennio Fantastichini, nei modi di un Ghedini di turno, e Nicola Nocella, calato perfettamente nei panni del timido e sprovveduto Tiziano. Ma la forte stonatura sta proprio nell'intento insito alla base di un simile lavoro, nato evidentemente senza troppe pretese stilistiche e concettuali. La conduzione della storia è infatti interamente affidata ad Andrea Campi, rampante avvocato che ci viene presentato già al suo punto di svolta, abbattuto e sconfortato dal cinismo del sistema. Il personaggio è "vissuto" dall'onnipresente showman Fabio Volo, che ne fa un muto e apatico stereotipo dell'uomo medio fuoriuscito da mediocri palinsesti tv, stupido quanto basta, banale quanto basta, senza troppe consapevolezze, ma con dentro un cuore che deve artificiosamente e necessariamente - ai fini narrativi – battere. Volo, dopo varie conduzioni, svariati libri e diverse interpretazioni cinematografiche, qui, come egli stesso afferma, riesce a riportare il personaggio all'interno della propria sfera individuale, caricandolo di tinte e sfumature tipiche della propria personalità. Ci chiediamo quanto abbia del vanto e quanto del demerito una simile ammissione ma sopra tutto emerge l'inconcludenza dell'opera, mix malriuscito di commedia, redenzione e sentimento postmoderno dai tempi infinitamente dilatati. Un lieto fine, con un bel punto interrogativo ad insinuare il dubbio, ci lascia ancora di più basiti.
Chiara Nucera
Ave Cesare! Dei fratelli Ethan e Joel Coen è un fantastico dipinto della realtà dietro alla cinepresa. Nella florida America degli anni 50 il produttore e regista Josh Broline (Eddie Mannix) di una grandissima casa di produzione (che potrebbe essere la Disney come la Warner Bros) cerca di fare il film perfetto. Si convince di poter realizzare un kolossal alla Ben-Hur su Gesù Cristo senza offendere nessuna religione presente negli Stati Uniti con l’attore più in voga del momento nei panni di un antico romano redento Baird Whitlok (George Clooney). Tutto procede a meraviglia fino a quando Whitlok viene rapito. Per gli altri registi ignari, alle prese con i propri film lo show deve continuare: Laurence Laurentz (Ralph Fiennes) di cui è difficile anche pronunciare il nome, costringe nei panni di un damerino una stella nascente del Western Hoby Doyle (Alden Ehrenreich) ottenendo pessimi risultati. La star casta e pura dei Musical DeeAnna Moran (Scarlet Johansson) è in realtà una donna dissoluta a cui bisogna trovare un marito per nascondere una gravidanza indesiderata. Burt Gunney (Channing Tatum) è potenzialmente perfetto sa ballare cantare (e recitare!) ma lo considerano solo per ruoli frivoli. Tutto questo chiacchierare viene mediato dalla stampa, qui rappresentata da due sorelle gemelle, Thora e Thessaly Thacker entrambe interpretate da una deliziosa Tilda Swinton. Le musiche di Carter Burwell distendono l’intreccio, la fotografia è brillantemente condita dal make up sfarzoso tipico degli anni rappresentati. I registi attualizzano gli anni 50 e ripropongono le stesse dinamiche che chiunque nel mondo del cinema si ritrova davanti da secoli. Gli sceneggiatori sono fondamentali ma sono messi sempre in secondo piano, il pubblico vede quello che vuole vedere, i registi hanno molteplici interessi ma sono consapevoli delle responsabilità che hanno. La finzione è vera, fuori come dentro al film. Indigesto per tanti versi, cervellotico e confusionario per altri è stato ignorato agli Oscar e frainteso da una stragrande maggioranza di pubblico. E’ cinema dentro al cinema, un circo di giostranti incapaci che crea sogni e elude speranze. Un omaggio vestito da parodia, dove l’amore per questo mondo è sentito quanto criticato.
Francesca Tulli