Fra i primi film presenti a Venezia (in concorso alle Giornate degli Autori) già usciti nelle sale italiane c’è il nuovo film di Daniele Gaglianone “Ruggine” che ieri sera sono andato a vedere nella sempre accogliente e fresca sala trasteverina dell’Alcazar che fra l’altro ha un impianto audio e uno schermo adeguati per essere un cinema di “media” capienza.
Daniele Gaglianone posso dire di averlo seguito fin dai primi passi con molto interesse e stima, dalla collaborazione con Gianni Amelio per il “torinese” “Così ridevano” al suo primo, folgorante lungometraggio “I nostri anni” del 2000 legato a “Ruggine” a doppio nodo. Seguito dal bellissimo “Nemmeno il destino” (2003) e da “Pietro” presentato l’anno scorso a Locarno.
Il salto forse Daniele lo fa proprio quest’anno con “Ruggine” non tanto per contenuti o per stile che rimangono personali e riconoscibilissimi, ma per avere per la prima volta un cast a disposizione di prim’ordine; Valeria Solarino, Stefano Accorsi, Valerio Mastandrea e Filippo Timi tutti insieme.
Ora la bravura del regista torinese (seppure nato ad Ancona vive in Piemonte dall’età di sei anni) è stata proprio quella di dividere il film in due piani temporali, come per “I nostri anni”, ma sempre senza l’uso smodato del flash-back: in effetti paradossalmente abbiamo la sensazione di vedere in tempo reale il passato e solo come “proiezione” il presente dei tre ragazzini diventati adulti.
E “l’uso” che Daniele fa dei tre attori di spicco (Solarino, Accorsi e Mastandrea) è assolutamente geniale: ognuno agisce in un unico ambiente e in una unica unità temporale, non hanno contatti con l’esterno (quando invece da bambini erano sempre fuori casa, tutti insieme come una banda). Sandro/Accorsi è in un mini appartamento per passare una giornata con il figlioletto, Cinzia/Solarino in un’aula di scuola durante lo scrutinio e un bravissimo Carmine/Mastandrea preda dei fantasmi del passato in un bar di periferia dal quale non riesce ad uscire...
Filippo Timi invece è l’unico “adulto” del passato: ha il ruolo del dottore-malato che segnerà l’infanzia e la maturità dei tre ragazzini, è l’uomo nero che nelle favole mette paura e che nella realtà lo fa ancora di più perché i bambini sono innocenti, non credono al male.
Filippo Timi ha dei personaggi “imposti” per colpa/merito del suo corpo, della sua voce roca, ma quanto è bravo, quanto si fa respingere ma anche compatire quando incarna questi personaggi che fisicamente di sicuro lo mettono a dura prova.
Tornando alla regia di Daniele Gaglianone c’è qualche attenzione di troppo forse per la descrizione degli anni settanta (le figurine, i giochi di strada, le pubblicità, i telefoni, le Simca e le Fiat 126) ma l’ambientazione nel suo insieme è perfetta: la fotografia, i costumi, le luci, i suoni, i rumori e le musiche sono straordinarie (bravo e unico a non usare nemmeno canzone di quegli anni!!)
Attenzione, non lasciate la sala appena vedete i primi titoli di coda: c’è una ultima scena finale stupenda quanto onirica e toccante con la canzone "Un campo lungo cinematografico" suonata da “Le Luci della Centrale Elettrica”.
Ah dimenticavo!! in tutto questo parlare di Cinema il tema trattato nel film è la pedofilia: bravo Daniele anche nell’aver affrontato col massimo pudore un argomento di tale portata.
Ci sono modi per dire cose senza urlare che vanno più a fondo di un coltello.
Marco Castrichella