Batman e Superman creati rispettivamente nel 1939 e nel 1933, sono i pilastri della DC Comics. Sono gli "eroi" dei "supereroi" ancora prima che la concorrenza prendesse il nome di Casa Marvel come la conosciamo oggi. Senza di loro il nostro mondo, la nostra stessa cultura occidentale sarebbe diversa. Sfido chiunque a trovare una persona in casa che non li abbia mai sentiti nominare. Per questo, a distanza di decenni, il cinema sente il bisogno richiamarli, di innalzare il batsegnale nel cielo e di invocare il salvatore Kal-El di Krypton come fosse un dio. Lo stesso fanno gli abitanti di Metropolis nell'ultimo lavoro di Zack Snyder, ormai famoso nel campo dei cinemacomics . L'idea di mettere i due l'uno contro l'altro sulla carta stampata dei fumetti era già stata sviluppata moltissime volte (Kingdom Come e The Dark Night Returns per citare due titoli famosi), Snyder lo fa però in maniera diversa. Dopo vent'anni di scontri, in cui Clark Kent (Henry Cavill) si trova a dover togliere gli occhiali neri da giornalista sfigato terrestre, per vestire i panni di Superman e andare in soccorso della amata Lois Lane (Amy Adams), l'umanità si interroga sul bisogno di avere un eroe e conta i morti che inconsapevole si porta sulle spalle l'uomo d'acciaio solo per essere stato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nel buio della ricca e ultramoderna Bat Caverna, Bruce Wayne (Ben Afleck), l'uomo pipistrello affiancato dal fido maggiordomo Alfred (questa volta Jeremy irons!) vuole vederci chiaro e sfidare l'alieno che ritiene responsabile per le catastrofi di cui è spettatore. Alle loro spalle ride (come il Joker) Alexander (Jesse Eisenberg), il rampollo milionario di casa Luthor, che si fa chiamare come il padre Lex. Egli passa i giorni a trovare il modo di infangare e uccidere Superman, vuole battere il nuovo "dio" e mettere le mani sulla Kryptonite, l'unica materia in grado di sconfiggerlo. Seguono un'ora di flashback e interrogativi, incomprensioni e apparizioni a sorpresa, confusione e filosofia per giungere al fatidico scontro del titolo (dove Batman, fateci caso, sradica un lavandino per colpire l'avversario, sanitario che suppongo sia di Kryptonite perché non si sbriciola). Debole come la sua prova d'attore è l'antagonista. Si fa chiamare Lex Luthor ma non è Lex "padre". E' caratterizzato come il clown di Gotham, per cercare forse una eco che mescoli il tutto. Non fa paura, non genera inquietudine é un ragazzino che pesta i piedi e fa i capricci come oggi chiede il pubblico di adolescenti. Diversamente il tanto criticato Affleck ci regala un Batman da manuale. Il budget utilizzato per creare la messinscena si vede ma visivamente ci si chiede se il mostro Doomsday (altro alfiere nella scacchiera dei protagonisti) poteva essere più simile all'immagine dei comics e ricordare meno un incrocio digitale tra il Troll di caverna de Il Signore Degli Anelli e Abominio del tanto odiato reboot su Hulk. Se le battute comiche dei film Marvel sono spesso criticate e non troppo riuscite, qui sono decisamente fuori luogo. Annunciato come il film che farà la storia del cinema al Comi-Con di San Diego, sta riscuotendo pareri discordanti: non si trova un equilibrio tra i fan entusiasti che gridano al miracolo e i delusi che ne vedono i difetti più evidenti e chiedono giustizia per i due eroi. Lento e prevedibile, cattivo e celebrativo, fanatico e commerciale, genera confusione e divide come i due protagonisti.
L’ultimo lavoro di Paolo Genovese (già regista di “Una famiglia perfetta”, “Perfetti Sconosciuti”, “The Place”), intende portare sullo schermo la storia ventennale di una coppia dal punto di vista del tempo che passa e delle sue conseguenza sulla relazione.
Anna (Jasmine Trinca) è una fumettista un po’ confusionaria. Ha il dono dell’estro creativo subitaneo e della limpidezza di spirito, che la rende folle e fragile allo stesso tempo. Figlia di un padre assente e di una madre egocentrica e narcisista, è restia a legami sentimentali che siano duraturi e che abbiano il sapore di un accogliente rifugio familiare. Forse per paura dell’abbandono, per mancanza di abitudine o di riferimenti, o forse per l’idea malsana che un legame possa far ipotecare i propri sentimenti senza possibilità di riscatto.
Marco (Alessandro Borghi) è un fisico dall’aria stralunata. Ha un romanticismo un po’ naif, tipico di chi è abituato a esprime i propri ragionamenti sul terreno assiomatico della scienza, che è insieme il suo habitat naturale e la sua prigione mentale. È un accademico. Un professore geniale e creativo che si fa travolgere dall’impetuosità di Anna e del suo ardore.
Dall’incontro di queste due metà così distanti l’una dall’altra, nasce un amore appassionato, profondo, ossimorico e per questo poetico, che la pellicola racconta nelle sue fasi ascendenti e discendenti. La narrazione segue la coppia nei venti anni della sua storia. Mette in scena le liti, i silenzi, le ansie, le interazioni, i progetti di una coppia che s’incontra per caso e poi sembra destinata a passare la vita insieme nonostante le differenze e le occasioni mancate.
Ogni momento vissuto dai due è affrontato dal regista con la lucidità di chi guarda una vita a due e di chi la studia senza censure. È un’oggettiva riproduzione di quanto e come il tempo possa cambiare l’interpretazione delle intenzioni nelle relazioni. Di come i sentimenti siano malleabili nella forma ma non nella sostanza, quando sono profondi. Di come il tempo, come spesso ripete il protagonista, “non esista” e la distinzione tra passato presente e futuro sia un’illusione, ma di come, contemporaneamente, il tempo porti alla deformazione inevitabile del modo di stare insieme.
La storia va avanti e indietro continuamente sia nella narrazione (passano vent’anni tra l’inizio e la fine del film), sia nel montaggio, che aiuta lo spettatore a confrontare, una scena dopo l’altra, le diverse dimensioni della relazione sentimentale di Anna e Marco.
Il montaggio a singhiozzo è la chiave narrativa che mette in risalto le distanze e le similitudini di un amore che scorre per due decenni. Lo esalta e lo ridimensiona, senza vanificarne il senso profondo che viene sviscerato sullo schermo nella sua quotidianità.
Valeria Volpini