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Studio Illegale

Giovedì 07 Febbraio 2013 12:22

L'ultimo lavoro di Umberto Carteni è tratto dall'omonimo romanzo di Federico Baccomo, quello che fu una specie di caso letterario alla sua pubblicazione con 35mila copie vendute. La storia è semplice e incentrata sulle vicende di un gruppo di avvocati di un importante studio milanese con pochi scrupoli, il tutto servito in chiave di commedia sentimentale. Carteni firma così il suo secondo lungometraggio che arriva dopo il più riuscito Diverso da chi? (2009). Molte le lacune che si scorgono si dall'inizio e già dai primi frames è facile intuire dove l'autore voglia andare a parare. Questo sfortunato progetto mostra immediatamente un impianto narrativo che si regge su una sceneggiatura scontata e poco persuasiva. La storia infatti è quasi inesistente lasciando campo libero all'istrionica bravura di alcuni tra gli interpreti, a cui vengono affidati ruoli secondari, per far da spalle confortevoli ad un meno pregiato protagonista. Tra tutti spiccano Ennio Fantastichini, nei modi di un Ghedini di turno, e Nicola Nocella, calato perfettamente nei panni del timido e sprovveduto Tiziano. Ma la forte stonatura sta proprio nell'intento insito alla base di un simile lavoro, nato evidentemente senza troppe pretese stilistiche e concettuali. La conduzione della storia è infatti interamente affidata ad Andrea Campi, rampante avvocato che ci viene presentato già al suo punto di svolta, abbattuto e sconfortato dal cinismo del sistema. Il personaggio è "vissuto" dall'onnipresente showman Fabio Volo, che ne fa un muto e apatico stereotipo dell'uomo medio fuoriuscito da mediocri palinsesti tv, stupido quanto basta, banale quanto basta, senza troppe consapevolezze, ma con dentro un cuore che deve artificiosamente e necessariamente - ai fini narrativi – battere. Volo, dopo varie conduzioni, svariati libri e diverse interpretazioni cinematografiche, qui, come egli stesso afferma, riesce a riportare il personaggio all'interno della propria sfera individuale, caricandolo di tinte e sfumature tipiche della propria personalità. Ci chiediamo quanto abbia del vanto e quanto del demerito una simile ammissione ma sopra tutto emerge l'inconcludenza dell'opera, mix malriuscito di commedia, redenzione e sentimento postmoderno dai tempi infinitamente dilatati. Un lieto fine, con un bel punto interrogativo ad insinuare il dubbio, ci lascia ancora di più basiti.

 

Chiara Nucera