La settimana scorsa ho vissuto il piacevole ritorno alla sala dell’Eurcine, che ricordavo come una delle più confortevoli di tutta Roma. Anche questa ovviamente è stata “frantumata” in 4 mini-sale, ma per fortuna il film scelto era proiettato nella sala più grande e di conseguenza l’impatto traumatico sulla mia memoria è stato notevolmente attutito.
Il film che ho deciso di vedere è stato il nuovo di Roman Polanski “Carnage” fresco reduce dal Festival di Venezia. Plot e messa in scena di assoluto stampo teatrale, due sole inquadrature in esterno a camera fissa nei titoli di testa e nei titoli di coda. Tutto il film si svolge in un appartamento della migliore zona di Brooklyn a NYC. Quindi ci si potrebbe aspettare una cosa tipo “Repulsion” o “La morte e la fanciulla” o ancora “L’inquilino del terzo piano”. Niente di tutto questo: nessun giallo, nessun noir, nessuna “ossessione polanskiana”. Il film è una vera e propria commedia, brillante molto ritmata in perfetto stile Woody Allen con una sceneggiatura scoppiettante tratta dalla omonima pièce teatrale di Yasmina Reza “God of carnage” ovvero “Il dio della carneficina” titolo enfatico che invece per Polanski, come titolo del film, resta semplicemente, tremendamente, soltanto: “Carneficina”.
I protagonisti della storia sono due ragazzini che vediamo appunto solo all’inizio e alla fine, in esterno, da lontano, nemmeno riconoscibili (a proposito uno dei due è il figlio di Roman e vi sfidiamo a indovinare se è la vittima o l’autore del gesto che da il “La” al film). Chi invece irrompe dalla prima scena all’interno dell’appartamento sono loro quattro. Gli attori/genitori/attori che danno una immagine spaventosa della borghesia contemporanea, della upper class newyorchese ma non solo. Potremmo essere tutti noi al loro posto, a cercare di “mediare” una situazione banalissima e di riuscire, come loro, a tirar fuori il peggio di noi. Questa maschera di solidarietà e belle parole che ogni tanto cade e mostra tutte le nostre cicatrici, la nostra non-volontà di capire l’altro, magari attaccandoci ai nostri ridicoli totem, oggetti ridicoli come tazzine decorate, cataloghi di mostre d’arte, whiskey single malt, sigari tropicali, maglioncini sportivi, camicie firmate e stirate, palmari, iPad, iPhone... tutto “ai”...
Polanski non immette il giallo, non crea suspence, non serve più: gli è sufficiente “smascherare” due coppie per creare l’orrore, il massacro: appunto il dio della carneficina.
Qualcosa su questa nuova onda polanskiana si era già avvertita con il precedente “L’uomo nell’ombra” altro film legato a doppio filo con l’attualità, la corruzione e il malessere borghese.
Anche li il “teatrino” era quello di persone artificiose che fra l’altro occupano posti rilevanti nella nostra società. Beh i sottointesi e le allusioni di Polanski sono ancora più feroci in questo “Carnage” dove il malessere per gli atteggiamenti squallidi e banali non è più metaforico: tu ami l’arte? e io ti ci vomito sopra... hai i tulipani più costosi del quartiere? e io te li distruggo... il tuo bellissimo e utilissimo iPhone? te lo immergo nell’acqua!
Non so quanti degli spettatori ridessero (infatti non molto e non molti) perché si ritenessero non-coinvolti in questa “Carneficina” ma una cosa è certa, non è possibile dopo questo film addormentarsi tranquillamente... quindi, chapeau a Roman che pur cambiando le armi rinnova antiche provocazioni e coinvolgimenti. Lo stile alla Hitchcock (impossibile non pensare a “Nodo alla gola” per la messa in scena del dramma) da al film un respiro cinematografico di valore, senza restare ancorato alla ripresa “teatrale”.
Il finale con i due ragazzini lontanissimi da noi che nemmeno riusciamo a sentirli, figuriamoci capirli, mi ha invece inevitabilmente riportato alla mente il finale dello splendido film di Haneke “Cachè”. Non a caso anche li i “mostri” erano le coppie adulte, borghesi ed emancipate.
Marco Castrichella