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Visualizza articoli per tag: ralph fiennes

Grand Budapest Hotel

Martedì 06 Maggio 2014 16:01

Una ragazza si reca presso la tomba di un famoso scrittore (Tom Wilkinson) e si accinge a leggere alcuni capitoli del suo memorabile romanzo, intitolato The Grand Budapest Hotel. Il romanzo narra l’incontro fra l'autore da giovane (Jude Law) e il vecchio Zero Moustafa (F. Murray Abraham) proprietario dell’ormai decadente Grand Budapest. Zero, a sua volta, racconta con profonda malinconia a Law il glorioso passato dell’albergo, all’alba della seconda guerra mondiale e di come, per una strampalata piega degli eventi, egli ne fosse diventato il proprietario. Qui la storia ha inizio.

 
Monsieur Gustave H (Ralph Fiennes) è il concierge del rinomato hotel e gode di intime confidenze da parte delle attempate e ricche signore che frequentano l’albergo. Un giorno una di queste, Madame D (Tilda Swinton), muore misteriosamente. Gustave parte insieme al giovanissimo Zero (Tony Revolori), appena assunto come fattorino, per onorare la morta presso la sua sontuosa villa. Lì trovano l’ostilità del borioso Dimitri (Adrien Brody), figlio di Madame D, il quale accusa Gustave di essere responsabile della morte della madre. Durante la rocambolesca fuga dalle autorità fra Gustave e Zero nasce un profondo rapporto di complicità: il primo saggio consigliere e il secondo affezionato pupillo. 
 
Come è evidente, in una trama ricca di spunti, flashback e continui rimandi a diverse storie che si snodano contemporaneamente, ci vuole un'abile maestria per legare insieme la grande vastità dei particolari, arte nella quale Anderson riesce bene, mettendo in scena ogni elemento con estrema dovizia, mai risultando stucchevole né appesantendone il risultato. Le vicende ben congegnate si snodano lungo una varietà di linee temporali, ognuna delle quali è inserita in un elemento più grande del precedente, come se si trattasse di comporre una matrioska. Ogni blocco è curato e diversificato rispetto al successivo anche dal punto di vista stilistico, caratterizzato dall'introduzione di un formato di proiezione diverso, fino a stabilizzarsi nell’academy ratio, formato tipico del cinema classico. Così facendo Anderson pone un interrogativo sul senso stesso del narrare, non solo cinematografico, ma anche letterario; non a caso il film è dedicato allo scrittore austriaco Stefan Zweing, perseguitato dai nazisti durante gli anni Trenta. 
Il regista segue coerentemente, ma senza mai ripetersi, il suo immaginario, caratterizzato da personaggi grotteschi, inquadrature simmetriche e colori sgargianti. Si affida ancora una volta per compiere l'impresa ai suoi attori feticcio, ci troviamo così davanti alle originali comparsate di Bill Murray, Owen Wilson e Jason Schwartman relegati tuttavia a ruoli minori e meno brillanti del solito. A consolare il pubblico ci pensa una carrellata di star, new entry formidabili cominciando da Fiennes, passando per Dafoe e Keitel e non trascurando il buon lavoro dell’esordiente Tony Revolori. Torna anche Edward Norton nel ruolo di un ispettore dell’esercito tedesco, quasi la visione speculare del capo scout Randy di Moonrise Kingdom, o che comunque ne prosegue la buffoneria autoritaria. 
Seguendo l'orma dei suoi successi, sembra proprio che le star di Hollywood (vecchie e nuove glorie) siano disposte a fare carte false pur di prendere parte a un film di Wes Anderson e la cosa non è da stupirsi. 
Il regista è riuscito nella sua filmografia a creare un connubio fra cura estetica minuziosa e intrattenimento trasversale non avendo, finora, mai sbagliato un colpo, neanche con quest’ultimo film, vincitore del Gran premio della giura alla 64ª edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino. 
Una commedia sull’importanza del narrare come unico mezzo per conservare l'altrimenti irrecuperabile bellezza del tempo perduto, espressa prima dalla sontuosità del Grand Budapest Hotel (vero protagonista del film), poi attraverso la sua decadenza. Un lavoro accurato e ben confezionato, forse meno esilarante rispetto ai canoni a cui Anderson ci ha abituati, ma senza ombra di dubbio indiscutibilmente apprezzabile.
 
Angelo Santini

Ave Cesare!

Mercoledì 09 Marzo 2016 11:32

Ave Cesare! Dei fratelli Ethan e Joel Coen è un fantastico dipinto della realtà dietro alla cinepresa. Nella florida America degli anni 50 il produttore e regista Josh Broline (Eddie Mannix) di una grandissima casa di produzione (che potrebbe essere la Disney come la Warner Bros) cerca di fare il film perfetto. Si convince di poter realizzare un kolossal alla Ben-Hur su Gesù Cristo senza offendere nessuna religione presente negli Stati Uniti con l’attore più in voga del momento nei panni di un antico romano redento Baird Whitlok (George Clooney). Tutto procede a meraviglia fino a quando Whitlok viene rapito. Per gli altri registi ignari, alle prese con i propri film lo show deve continuare: Laurence Laurentz (Ralph Fiennes) di cui è difficile anche pronunciare il nome, costringe nei panni di un damerino una stella nascente del Western Hoby Doyle (Alden Ehrenreich) ottenendo pessimi risultati. La star casta e pura dei Musical DeeAnna Moran (Scarlet Johansson) è in realtà una donna dissoluta a cui bisogna trovare un marito per nascondere una gravidanza indesiderata. Burt Gunney (Channing Tatum) è potenzialmente perfetto sa ballare cantare (e recitare!) ma lo considerano solo per ruoli frivoli. Tutto questo chiacchierare viene mediato dalla stampa, qui rappresentata da due sorelle gemelle, Thora e Thessaly Thacker entrambe interpretate da una deliziosa Tilda Swinton. Le musiche di Carter Burwell distendono l’intreccio, la fotografia è brillantemente condita dal make up sfarzoso tipico degli anni rappresentati. I registi attualizzano gli anni 50 e ripropongono le stesse dinamiche che chiunque nel mondo del cinema si ritrova davanti da secoli. Gli sceneggiatori sono fondamentali ma sono messi sempre in secondo piano, il pubblico vede quello che vuole vedere, i registi hanno molteplici interessi ma sono consapevoli delle responsabilità che hanno. La finzione è vera, fuori come dentro al film. Indigesto per tanti versi, cervellotico e confusionario per altri è stato ignorato agli Oscar e frainteso da una stragrande maggioranza di pubblico. E’ cinema dentro al cinema, un circo di giostranti incapaci che crea sogni e elude speranze. Un omaggio vestito da parodia, dove l’amore per questo mondo è sentito quanto criticato.

Francesca Tulli