Dogman è il nuovo lavoro di Matteo Garrone, in concorso al Festival di Cannes 2018. Il regista romano decide di ambientare il suo nuovo racconto, che forse più del suo “Il Racconto dei Racconti” diventerà il suo racconto con la “R” maiuscola, in un luogo dimenticato da Dio. In una periferia distopica, che vede la città solo in lontananza, la vita del toelettatore di cani Marcello (Marcello Fonte) è condivisa con una famiglia acquisita di amici e colleghi, con negozi e bar. Lui (forse) non appartiene a questa cultura western, in quanto Marcello si presenta calmo e a modo con tutta la comunità. Ma sotto sotto è anche lui un delinquente, di basso profilo, ma pur sempre con le mani in pasta. Spaccia cocaina e ha stretti rapporti con Simoncino (Edoardo Pesce), il boss del quartiere. Quest’ultimo è un ex-pugile, che tiene sotto scacco l’intera borgata. Con la sua moto sfreccia nella strada principale invadendo questo piccolo mondo con il suo rumore assordante, che risuona come sirena di allerta che urla: “Eccomi, io sono qua! E tutti dovete tremare!”.
Marcello è praticamente obbligato a sottostare a Simoncino. Non si può permettere di sgarrare. La figlia Sofia (Alida Baldari Calabria) rimarrebbe senza padre se Marcello dovesse tradire l’ex-pugile. Ma quando il danno si fa irreparabile, visto il profondo tradimento che il dogman procura all’intero quartiere, lui stesso decide di uscire allo scoperto. Costretto a farsi comunque un anno di galera per colpa di Simoncino, alla sua uscita la sete di vendetta è forte e studia un piano per riprendersi la propria dignità. Punta anche a recuperare la stima dei compaesani; valore che forse non potrà mai più riacquistare, qualsiasi cosa lui metta in atto.
La pellicola ha tratto ispirazione da un fatto realmente accaduto nel 1988: Il delitto del canaro della Magliana.
A 30 anni esatti dal cruente misfatto, Matteo Garrone ha deciso di girare il suo nuovo film basandosi su questo evento, prendendo comunque le distanze dai veri fatti di cronaca.
Siamo dalle parti dell’Imbalsamatore, anch’esso scritto dallo stesso regista con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso. Ambiente/campo prediletto da Garrone, che anche qui come allora, riesce a mostrarci un’esistenza senza luce, dove tutto è decadente e oscuro.
Perché non mettere in scena un alba? O una rinascita? Solo privazioni e soprusi nel cinema del regista romano. Forse perché si sente addosso il peso dei nostri tempi. Contemporaneità degradata e senza un prosperoso futuro. Dal canto suo dobbiamo dagli atto che in questa sua messa in scena è un maestro. Anche trattando un argomento così malvagio e ruvido non è mai eccessivo e retorico. Risulta sommamente potente. La sua telecamera si fa largo prepotentemente attraverso le condizioni di vita di un determinato habitat, riuscendo ad estrapolarne lo stato esistenziale, sia in superficie che segreto. Portando così ai nostri occhi la vera essenza di quella condizione, senza filtri.
Qui, nel particolare, lo sguardo del regista sì concentra su Marcello, che diviene l’anima del film. Scruta intimamente il suo mutamento psicologico. Primi piani che mettono in evidenza la riflessione del canaro. Riesce a farci sentire il disagio della sua vita anonima e spezzata dai più forti. Guardando così da vicino si può anche notare la sua dolcezza, che sembra non poter sfociare poi in una rabbia irrefrenabile. E allora ci rendiamo conto che gentilezza e brutalità possono coesistere e di quanto ci sia ignoto l’animo umano.
Garrone studia due pulsioni diametralmente opposte, ma così vicine. E’ un po’ alla base del suo cinema il doppio opposto. In Gomorra, quanto è sottile linea che separa delinquenza da legalità? Nell’Imbalsamatore,
gli animali imbalsamati con tanta cura servono anche per nascondere la droga. In Primo amore, il corpo che declina verso l’anoressia è allo stesso tempo ributtante ed amabile.
Dogman si porta a casa dal Festival di Cannes uno dei premi più prestigiosi: la Palma d’oro alla Migliore interpretazione maschile a Marcello Fonte. Non si può non provare empatia per il suo ruolo, reso così