Quando il notaio Lebel legge a Jeanne e Simon Marwan il testamento della loro madre Nawal, i gemelli restano scioccati nel vedersi porgere due buste, una destinata ad un padre che credevano morto e l'altra ad un fratello di cui ignoravano l’esistenza. Jeanne decide di partire subito per il Medio Oriente per riesumare il passato di questa famiglia di cui non sa quasi nulla. Anche Simon, che in un primo momento si era mostrato riluttante, decide di raggiungere la sorella sulle tracce di una Nawal ben lontana dalla madre che conoscevano. I due ragazzi scopriranno un destino segnato dalla guerra e dall'odio e il coraggio di una donna eccezionale. Adattamento dell’opera di successo mondiale di Wajdi Mouawad, La donna che canta ha da subito un cammino intenso: menzione “27 volte cinema” per il miglior film alle Giornate degli Autori di Venezia 2010, premio del pubblico al Toronto International Film Festival, candidatura per il Canada agli Oscar 2011. Emblema di un'arte che riesce a stupire e a coinvolgere dal primo istante, aprendo nuovi scenari e rilanciando l’impegno del cinema a favore dei grandi temi sociali.
La narrazione è asciutta anche se molto enfatica, non apparendo mai sopra le righe, con uno stile spesso vicino per certi aspetti al documentario, conservando dei toni fortemente drammaturgici.
La quasi assenza di colonna sonora, che compare solo in rari significativi momenti, rende tutto più sincopato, arrivando dopo l’emblematico prologo affidato a You and whose army? dei Radiohead. La guerra è lo sfondo totalizzante in cui si muovono i protagonisti, partorita dal disastro si staglia una figura forte e di passaggio, la detenuta numero 72 di una delle più dure e crudeli carceri libanesi. La forza della storia sta proprio qui, nella potenza delle immagini, nel racconto di una donna che non si dà mai per vinta, avanzando incessantemente contro ogni atrocità che il contesto le impone, proprio come una martire all'interno di un'epica tragica. Dalla catastrofe nasce un personaggio che reca con sé il conflitto, perfettamente aderente allo sgretolarsi del mondo esterno, fatto di macerie, bombe, sangue, perdite struggenti. Sembra la cosa più semplice capire come l’istinto naturale di sopravvivenza divenga forza, dove la rabbia della perdita di ogni punto fermo si fa nutrimento, quando anche dalla violenza più atroce crescerà amore. Non c'è più nulla da fare dopo essere sopravvissuti all'inferno se non aspettare che il cerchio si chiuda e che tutto ritorni nel medesimo luogo in cui ogni cosa è iniziata, quel luogo che finalmente donerà a Nawal, la donna che canta, il riposo. Qui ogni gerarchia è sovvertita e l'importanza dei legami appare quanto mai fondamentale, legami di sangue che pesano come macigni, in un ineluttabile destino sofocleo che si risolve in una necessaria presa di coscienza.
Chiara Nucera