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Visualizza articoli per tag: ilenia pastorelli

Lo chiamavano Jeeg Robot

Giovedì 25 Febbraio 2016 15:55
Dopo essere sfuggito ad un inseguimento, Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) finisce nelle acque del Tevere e ingerisce una sostanza radioattiva che gli donerà dei superpoteri. Enzo accoglie questo dono come una benedizione per la sua carriera da delinquente ma tutto cambierà nell'incontro con Alessia (Ilenia Pastorelli) che in lui vedrà il mitico Hiroshi Shiba, l'eroe dei cartoni animati giapponesi Jeeg Robot d'acciaio. 
Questa in breve è  la storia di Lo chiamavano Jeeg Robot, il film che dopo 6 anni di ricerca budget e lavorazione, ha visto la luce per mano di Gabriele Mainetti e della sua Goon Films.
Quella dei cartoni animati e dei supereroi si può dire sia da sempre una fissa di Mainetti che già aveva affrontato le tematiche in opere precedenti e che negli anni passati si era fatto conoscere sia come attore che per i corti,  tra cui spicca “Tiger Boy” (2012) Nastro d'argento 2013.  Questo è il primo lungo del regista romano, che gli è valso il contributo ministeriale per l'Opera Prima. 
Un lavoro che sembra riuscitissimo nell'assicurare tutti i cliché più accattivanti del momento in un mix del tutto originale: la moda degli anni Ottanta, i supereroi, il glam riportato alla ribalta dei media dalla morte recentissima (nemmeno a farlo apposta) di uno dei re indiscussi David Bowie, ispiratore tra l'altro del personaggio dello Zingaro (Luca Marinelli), malvivente atipico con velleità artistiche. In uno scenario metropolitano, con derive alla Rocky Horror, si sviluppa una vicenda di droga e mala, dove abbondano le lotte tra camorra e criminalità di borgata, per una Tor Bella Monaca apocalittica, in un western postmoderno dove buoni e cattivi si mischiano senza terra di confine. Ognuno ha in sé una duplice natura: ogni personaggio spinto dalla voglia di arrivare o solo dal desiderio di sopravvivenza, dall'essere famosi o sparire tra le crepe di una stanza, dalla brama di una meta ambita sbiadita o patinata, stridente in forti contrasti antitetici. Nessuna lacuna in questo film perfettamente ordinato nella sua lucida follia, dalla valida sceneggiatura di Nicola Guaglianone e Menotti. Era da tempo immemore che il cinema italiano non partoriva un prodotto così ben fatto, una vera boccata d'aria per un settore che stava emettendo gli ultimi rantoli, da cui Mainetti è riuscito ad emergere creando il suo giovane Frankenstein.  
Si libera così, in un colpo solo, di tutto il vecchiume di un'arte rimasta tale ormai nel ricordo,  giogo della spocchia a colpi di machete di chi ci ha fatto due palle, trovando unica giustificazione alla banalità il nascondersi dietro l'appellativo di “autore”. Questo invece non è un film d'autore, non lo vuole essere o forse sotto sotto sì, ma in fondo chi se ne frega perché qualsiasi sia l'intento, che comunque sembra dalle dichiarazioni del regista abbastanza giocoso, è il risultato che conta. 
Oltre che sulla destrezza di Mainetti, va spezzata certamente una lancia a favore degli interpreti, tutti azzeccati e abili, anche nei ruoli minori. Marinelli ha messo a segno negli ultimi mesi due film meravigliosi, con il precedente “Non Essere Cattivo”, opera postuma di Claudio Caligari, due sole interpretazioni che bastano a far pensare che sia nato un nuovo mostro. Due ruoli molto distanti ma al contempo simili tra loro, dichiarando di  essersi ispirato per lo Zingaro ad Hannibal Lecter, del resto si parla sempre di mostro che emerge, qui “sparato a cannone” come le sue canzoni con tutti gli sgargianti toni del glam pop, cimentandosi oltre che in una strepitosa interpretazione di Un'emozione da poco, rifatta sull'impronta di una sedicenne Anna Oxa (a Sanremo 78' dove riviveva uno Ziggy Stardust nostrano), con Nada, la Bertè e la Nannini. Anche Santamaria ritrova la sua forma smagliante, proponendosi come uno degli ultimi relegato ai margini, un depresso cronico solo e asociale che si ciba di budini e film porno e che, nonostante i 20 chili in più, da orso buono nichilista e ladruncolo di periferia subirà un'evoluzione personale. Si potrebbe continuare ancora per molto con tutti gli spunti di valutazione che offre un simile lavoro, ma è meglio non indugiare oltre rimandando alla visione al cinema, azzittendoci sui titoli di testa. In questo caso, l'unica cosa sensata da fare. 
 
 
Chiara Nucera

Non ci resta che il crimine

Giovedì 10 Gennaio 2019 18:28
Alcuni momenti storici hanno il particolare potere di restare per sempre cristallizzati nella memoria di chi li vive. Molti li ricordano come i migliori anni della propria vita, pagine dense di euforie e grandi scoperte. Il 1982 fu un anno che segnò indelebilmente l’immaginario collettivo italiano. Un anno rimasto impresso a tutti i ragazzi per il lancio nel mercato del mitico Commodore 64, e a tutti gli italiani per la vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio. Quell’anno lo ricordano bene anche Moreno, Sebastiano e Giuseppe, amici di lunga data, che all’epoca erano dei curiosi ragazzi, ed ora nel 2018, si ritrovano a dover fare i conti con una realtà ben diversa e costellata di difficoltà.  Ma forse non tutto è compromesso, e Moreno decide infatti di coinvolgere i suoi amici in un’impresa molto bizzarra: organizzare un “Tour Criminale” della Roma di una volta, città teatro di una delle organizzazioni criminali più note, la Banda della Magliana.  L’idea potrebbe promettere un rilevante successo e soldi a “palate” se non fosse che, per un imprevedibile scherzo del destino, i tre vengono inspiegabilmente catapultati davvero nel 1982, proprio nel gloriosi giorni dei Mondiali di Spagna. Tra calcio e scommesse ad alta tensione, Moreno, Sebastiano e Giuseppe arriveranno a confrontarsi con uno degli uomini più pericolosi e potenti della criminalità romana, il terribile Renatino. Ma il pericolo è dietro l’angolo, Renatino e i suoi uomini coinvolgono i tre in un giro malavitoso contornato da soldi, violenza e incalcolabili imprevisti. Riusciranno a ritornare all’agognato futuro ora che si ritrovano intrappolati in un arrischiato 1982? Non ci resta che il crimine ha la grande potenza di mescolare due registri ben diversi, ossia quello del poliziesco anni ’70 e quello del cinema comico dei giorni nostri. Quella diretta da Massimiliano Bruno, aiutato nella scrittura da Bassi, Guaglianone e Menotti, è una commedia che alterna in modo misurato tensione e ironia, senza però cadere preda di luoghi comuni o situazioni già note. Un esperimento riuscito, scorrevole e pieno di richiami a quel cinema che ha segnato un’intera epoca rimanendo impresso per alcuni stilemi molto esclusivi, quali fotografia dai toni saturi e colonna sonora graffiante, perfettamente amalgamata alla storia. In Non ci resta che il Crimine infatti, la colonna sonora affidata a Maurizio Filardo, dona un tono vintage e un carattere autentico, tipico dell’epoca. Nel film non mancano sequenze spassose, capaci di regalare un piacevole intrattenimento all’insegna della risata, ne è l’emblema la buffa ed esagerata scena della rapina, forse uno dei migliori momenti di questo lavoro. Perfettamente inseriti nei loro ruoli sono gli attori protagonisti Marco Giallini (Moreno), Alessandro Gassman (Sebastiano) e Gianmarco Tognazzi (Giuseppe), che si confermano un gruppo affiatato nella vita e sullo schermo.  Altrettanto convincente Edoardo Leo (Renatino) per la prima volta alle prese con un ruolo da “villain”, al quale l’attore romano dona un tocco personale e credibile quanto basta. Non ci resta che il crimine, dal 10 gennaio al cinema, è un film che si lascia guardare senza alcuna difficoltà e con molta curiosità, prendendo quasi le distanze per stile e trama da molto cinema italiano in sala. 
 
Giada Farrace