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Le lesbiche non esistono

Venerdì 05 Aprile 2013 20:39

Esistono almeno sei o sette modi diversi, in italiano, di appellare un uomo per il suo orientamento sessuale. Alcuni semplicemente descrittivi – gay, omosessuale – altri con connotazione dichiaratamente dispregiativa - recchione, checca, frocio… Se pensiamo, invece, alle varianti, anche offensive, che potremmo utilizzare per una donna omossessuale, rimaniamo a corto di parole alternative al canonico “lesbica”.

Convinte che l’omofobia inizi in questo caso con la negazione, le filmakers toscane Laura Landi e Giovanna Selis imbastiscono un documentario che intende fare breccia nel muro di invisibilità che ancora circonda il lesbismo; un’invisibilità che si presenta come forma di discriminazione più subdola e potente di molti falsi stereotipi. Infatti, se l’omosessualità maschile è ancora vittima di aggressività verbale e fisica, quella femminile spesso semplicemente non esiste (da qui il titolo provocatorio che collega ciò che è invisibile a ciò che non è).

Per riportarla alla luce il documentario racconta, con il metodo classico dell’intervista con intervistatore nascosto, le vite di alcune lesbiche italiane che rivendicano la propria sessualità senza forzare troppo l’azione di definizione e differenziazione, semplicemente offrendo frammenti di esperienze che testimoniano le loro storie, a partire dal nucleo familiare di provenienza fino all’impatto sulla società che le circonda. Dai pensieri incrociati che il montaggio ci restituisce – e che le registe hanno cercato di realizzare evitando accuratamente di far sentire la loro mano - emerge un mondo fatto di donne reali che studiano, lavorano, convivono, e che con assoluta naturalezza hanno deciso di raccontarsi per regalare una visione altra e realistica di cosa significhi essere donne e omosessuali oggi in Italia, con tutte le problematiche che la nostra società chiusa ed eteronormativa può presentare. Perché, sostengono le autrici, per le donne sussiste un fattore di difficoltà in più : essere state per certi versi più “accettate” o semplicemente meno prese in considerazione ha portato alla convinzione che il silenzio protegga, quando invece nega, rende invisibili, cancella.

Al di là degli aspetti contenutistici, l’interesse che il documentario suscita riguarda anche e soprattutto le modalità di finanziamento e produzione. Stando alle regole dell’industria cinematografica un documentario dovrebbe essere venduto ancor prima dell’inizio della sua realizzazione; ciò implica la presenza di un finanziatore che crede fermamente nel progetto e, pertanto, è disposto a rischiare i propri soldi. I progetti che si discostano dalle produzioni collaudate del mercato comportano un rischio troppo grande che quasi nessuno, soprattutto in tempi di crisi, è disposto ad assumere. Per questo le registe hanno deciso di rivolgersi alla produzione del basso (vedi www.produzionidalbasso.com ) piattaforma gratuita di crowdfunding che permette agli utenti finali di contribuire ai costi di produzione di qualsiasi tipo di progetto – materiale ed immateriale - partecipando con una piccola quota (nel caso del documentario in oggetto tale quota era stata fissata a 10 euro) e diventandone a tutti gli effetti i produttori. Grazie a questa innovativa modalità di sottoscrizione popolare il documentario ha potuto vedere la luce riscuotendo gli apprezzamenti della critica del Florence Queer Festival dove è stato in prima battuta presentato e continuando la sua diffusione nei festival di genere e non. La modalità della produzione dal basso - ecco un’altra sua potenzialità - ha infatti permesso al pubblico di assumere un ruolo attivo e consapevole, sganciandosi dalla semplice figura di fruitore. Al tempo stesso, si è potuto evitare un coinvolgimento a senso unico delle sole associazioni Lgbt – che hanno comunque sostenuto il progetto –  per parlare ad uno spettatore “queer” che si interessa trasversalmente alle tematiche di genere di cui cerca di decostruirne le modalità preconfezionate di rappresentazione. Le registe rivelano infatti come molti dei finanziatori non siano omosessuali e non appartengano a nessuna associazione che si occupa di diritti delle persone Lgbt bensì persone interessate e sensibili alla tematica, che hanno creduto nel valore e nella forza dell’idea originaria.

Nella sua totalità il documentario, impreziosito da un’efficace animazione iniziale, realizzata dall’illustratrice Francesca Bolis e da frammenti dello spettacolo teatrale “La metafisica dell’amore” (Le Brugole) che creano le giuste pause fra un’intervista e l’altra, è un mediometraggio ben riuscito sia sul versante formale che su quello sostanziale, capace di raggiungere gli obbiettivi che si era posto: dar voce alle variegate vite che hanno voluto raccontarsi, operando un passaggio fondamentale che dal privato giunge al pubblico, o meglio al politico (“il privato è politico”), e  decostruendo al contempo il supposto “prototipo lesbo”, a dimostrazione che non esiste un solo modo di vivere la sessualità 

L’interrogativo fondamentale in relazione al suo spunto iniziale resta tuttavia aperto: le lesbiche sono veramente invisibili oppure, a fronte di un generale silenzio, si può supporre che godano di una maggiore accettazione da parte della società? Ma soprattutto: c’è ancora bisogno di identificarsi e raccontarsi per esistere?

 

Elisa Fiorucci